American Dharma

American Dharma

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In American Dharma il documentarista statunitense Errol Morris intervista Steve Bannon, in un’operazione che ricalca quelle già portate a termine con Donald Rumsfeld e Robert McNamara. Un lavoro che va al di là delle proprie qualità costringendo lo spettatore a interrogarsi sulle derive delle politiche di destra che stanno soffiando vento pericoloso su tutto l’occidente. Fuori concorso alla Mostra di Venezia.

La maschera del demonio

Errol Morris incontra Steve Bannon, coordinatore della vincente campagna presidenziale di Donald Trump e fino all’agosto 2017 capo stratega della Casa Bianca. Geniale comunicatore, sostenitore del sovvertimento dell’establishment, promotore con Trump del “Muslim ban”, l’ex braccio destro del presidente degli Stati Uniti è anche da tempo impegnato a supportare la vasta famiglia dei populismi europei, di cui fanno parte tutti i movimenti di estrema destra, dal Front National alla Lega. [sinossi]
“Meglio regnare all’Inferno, che servire in Paradiso”
John Milton, Il Paradiso perduto

È un gioco da ragazzi, per Steve Bannon, mettere in scacco Errol Morris in American Dharma. Basta la “confessione” del regista di aver votato per Hillary Clinton alle primarie del Partito Democratico americano: “Mio figlio era arrabbiatissimo con me…” dice Morris. “Cosa? Mi stai dicendo che il regista di The Fog of War e The Unknown Known ha votato per la Clinton?”, lo deride Bannon. “L’ho votata per paura, perché avevo paura di voi. Perché ho paura di voi” risponde Morris. Ma Bannon ha pochi dubbi: “Bernie Sanders per noi sarebbe stato un osso duro: coinvolgeva i giovani, parlava chiaro…”. In difficoltà, invece, Bannon non va realmente mai. E non tanto perché Errol Morris non cerchi di affondare la lama nelle molteplici contraddizioni in cui Bannon cade, ma perché – proprio come accadeva con McNamara e Rumsfeld – l’intervistato si avvale della “facoltà di non rispondere” o in ogni caso di svicolare le domande.

Sono lontani i tempi de La sottile linea blu, Fast Cheap and Out of Control o Mr. Death e, arrivati alla terza “grande” intervista con rilevanti e controverse personalità della politica americana, ci si può chiedere che senso abbia l’operazione testimoniale perseguita da Morris. Che viene anche qui, inevitabilmente, sopraffatto dall’abilità di Bannon, quasi come accadde nell’intervista a Rumsfeld, dove l’ex Segretario alla difesa di Bush dominava il confronto. Il coordinatore della campagna elettorale di Trump è un manipolatore ferocemente intelligente e Morris fatica a incalzarlo davvero quando Bannon si tira indietro dal rendere conto delle azioni concrete, delle realtà giudicabili al di là delle sue fumose teorie. Ma c’è un motivo che rende American Dharma un lavoro di grande interesse: qui non si parla del passato per comprendere meglio la storia e il presente, ma si racconta il presente per mettere a fuoco dove siamo e dove rischiamo di andare nell’imminente futuro. E alla fine del film c’è poco da ridere. Il guru della destra, che si definisce populista e affiderebbe il governo ai primi 50 sconosciuti che si presentano a un comizio di Trump piuttosto che “alle élite”, ricorda più lo slancio incendiario di Ted – Unabomber – Kaczynski (per restare a personaggi su cui ha lavorato Morris) che McNamara, ma come i politici di razza ha invece capito perfettamente cosa serve alle persone, come parlare loro oggi, quali obiettivi e nemici creare o additare, con quali parole d’ordine, come prendere per il naso i media, mettere nel sacco gli avversari, rispondere alle mitragliate. E ha capito, perfettamente, quanto la crisi del 2008 abbia distrutto la speranza nel Paese, quanto gli americani siano stati abbandonati, le persone si siano sentite derubate del futuro, quanto fossero odiate le elite dal popolo. Così American Dharma si dovrebbe vedere anche solo per capire meglio quello che è successo negli USA e sta succedendo in Europa. Ovvero che personalità abili, dapprima disperse in vari affari (in Italia magari qualcuno faceva il comico…), afferenti a una destra non tradizionale e non classificabile ma che agogna l’ordine sociale e la preservazione delle classi, hanno intercettato uno spazio libero, capito quello di cui aveva bisogno la gente comune e che non era stato fornito dai pallidi, inutili, partiti di centro sinistra. Ma neppure più dai conservatori “moderati”. E, contrapponendosi alle élite e alla globalizzazione, annullando ogni sfumatura della complessità del mondo, sia riuscita a prendere il potere. Per farci cosa? Morris tenta di mettere Bannon di fronte alla realtà, al di là della sua suadente affabulazione. Se l’obiettivo era far sparire i corrotti, Trump – un immobiliarista fallito e sempre “salvato”, accusato di evasione fiscale – non è forse corrotto? Non è crudele impedire l’ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana? Dividere le famiglie? Le persone avranno un lavoro se si fomenta il razzismo e l’odio religioso? Quali azioni sta realizzando Trump per ridistribuire la ricchezza e aiutare i più deboli? Alla fine, di tutta questa propaganda per la conquista del dominio, cosa resta, nei fatti, in favore delle persone? Steve Bannon, come detto, si scrolla di dosso ogni domanda. E non solo per reticenza, ma perché Steve Bannon si presenta come un visionario che segue il suo “dharma” (un senso del dovere che si intreccia col destino e il fato) e vuole realizzare il suo sogno di potere (mondiale) ben al di là di Donald Trump, che del resto lo ha allontanato a metà del 2017 e che pare solo un “momento” del suo percorso.

American Dharma è un’intervista orrorifica perché fa presagire la direzione tragica che le democrazie stanno intraprendendo, e perché nelle crepe della conversazione e nelle contraddizioni irrisolte palesa il vero, violentissimo volto di Bannon e dei populismi che tanto ama (tipo la Lega e il Front National), nonché la sua natura passionale e il suo radicalismo. Che lo porta a odiare le Nazioni Unite e tutte le comunità sovranazionali nate dopo le guerre mondiali. Non perché le voglia cambiare o riformare, ma perché le vuole distruggere per far terra bruciata e innestare nuovi valori. Il fanatismo raffinato di Bannon, che intercetta i sentimenti dispersi di milioni di persone in uno snodo epocale pericolosissimo, è in realtà – al di là delle reticenze verbali – ritratto bene in American Dharma, che lascia una traccia di inquietudine spaventosa. Di fronte alla determinazione e alla sfrontatezza di Bannon, di fronte al segno politico che incarna e alla devastazione che può comportare (alcune sue parole d’ordine sono le stesse, identiche, brandite in giudizio da Breivik, l’autore della strage di Utoya raccontata proprio al Lido in 22 July di Paul Greengrass) passa molto in secondo piano un altro discorso contenuto in American Dharma, quello sul cinema. Steve Bannon, tra le tante cose, ha prodotto e girato alcuni film. E, anche in questo caso, Bannon mette in scacco Morris dicendogli di aver deciso di fare il regista dopo aver visto The Fog of War: Morris è stupefatto, non lo sapeva e non ha pensato al suo film nei modi in cui Bannon lo ha visto. Già, perché l’ex consigliere di Trump è un cinefilo incallito e il cinema lo ha aiutato a razionalizzare la sua emotività, ad autorappresentarsi in personaggi che gli hanno chiarito il da farsi, che hanno precisato il suo dharma, o lo hanno messo di fronte alle difficoltà cui poteva andare incontro. Come il generale Savage interpretato da Gregory Peck in Cielo di fuoco, modello di leadership per Bannon, o David Niven ne Il ponte sul fiume Kwai, esempio di come si possa perdere di vista quello che veramente si sta facendo. O addirittura il Falstaff di Orson Welles, cui Bannon fornisce una personale interpretazione ritenendo che l’ultimo sguardo di Falstaff a Enrico V sia lo sguardo di chi accetta che il Re sia ormai autonomo, abbia appreso gli insegnamenti, sia cresciuto, dunque non abbia più bisogno di chi lo ha reso tale (il parallelismo è con il suo licenziamento dall’amministrazione Trump). E ancora Bannon cita Orizzonti di gloria e tanto John Ford: la guerra e la lotta sono gli elementi (fondamentali) del cinema americano che lo interessano maggiormente e su cui Bannon ha costruito la propria identità, plasmando e controllando la propria emotività, e che lo spingono sempre a ragionare sugli obiettivi e su ciò che può sfuggire al nostro controllo. Nell’imbastire un discorso sull’immaginario cinematografico in relazione alla propaganda, per cui sarebbe servito un altro film, Morris non manca di consapevolezza nel montare alcune scene dei dibattiti pre-elettorali televisivi, contrapponendo Trump e Clinton come in una sfida infernale a colpi di pistole, né manca di far percepire che stiamo vivendo in un’epoca di guerra permanente, benché non tradizionale, che si gioca sui nuovi media e attraverso la manipolazione della realtà (il film è pieno di tweet e non mancano i racconti delle strategie di comunicazione usate per vincere le presidenziali). Ma il discorso sull’immaginario resta in superficie e rimane più una suggestione personale di Bannon circa la propria costruzione di sé che non un’analisi su come il dispositivo del cinema abbia conformato l’inconscio di un Paese.

Se ci si chiede perché Morris, che di certo sta dall’altra parte della barricata, abbia voluto intervistare Steve Bannon dandogli spazio e agio nell’illustrare la sua visione del mondo, la risposta è dunque in quel che esprime la lucida follia dell’intervistato. Una mente affilata a servizio di un’idea della storia che non ha cura di nessuno, non ha alcun interesse per l’umano, per cui esiste solo l’astrazione e la rappresentazione. Il ritratto di uno che si sente in dovere di accelerare la distruzione di un sistema che sta tramontando, prendendo il potere o agevolando i suoi accoliti a farlo, azzerando i valori precedenti e introducendone di nuovi. Perché è “Meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso”, dice Bannon citando John Milton. E l’inferno è quello che lui e tanti con lui stanno preparando su scala globale.

Info
La scheda di American Dharma sul sito della Biennale.
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