Jinpa

Jinpa

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Jinpa è un camionista che uccide inavvertitamente una pecora nel desolato altopiano del Kekexili, in Tibet. Anche il viandante cui dà un passaggio si chiama Jinpa… Nel concorso di Orizzonti il nuovo film, affascinante solo a tratti, del regista tibetano Pema Tseden.

Ma n’atu sole…

Sul sentiero della vita a volte incontriamo qualcuno con dei sogni così vividi che finiscono per sovrapporsi ai nostri. Questa è una storia di vendetta e redenzione. Su una strada isolata che attraversa la pianura desolata del Tibet, un camionista che ha investito accidentalmente una pecora raccoglie un giovane autostoppista. Mentre chiacchierano durante il tragitto, il camionista nota che il suo nuovo amico ha un pugnale d’argento legato alla gamba e viene a sapere che il giovane vuole uccidere qualcuno che gli ha fatto un torto. Dopo averlo lasciato a un bivio, il camionista si rende conto che quel breve lasso di tempo trascorso con lui ha cambiato tutto e che i loro destini sono inesorabilmente intrecciati… [sinossi]

Jinpa è un camionista, e sta viaggiando nel Kekexili (tra i mongoli noto come Hoh Xil, vale a dire montagne blu, ma anche con il nome Aqênganggyai, che significa invece “Il signore delle diecimila montagne”), altopiano semidesertico a oltre cinquemila metri d’altezza nel Tibet. Durante il viaggio, muto e accompagnato solo da qualche sigaretta, da un goccio di grappa e dall’ascolto della versione cinese di ‘O sole mio, l’uomo investe inavvertitamente una pecora. Poco dopo, con il cadavere dell’ovino ancora accanto al suo sul sedile, raccoglie per strada un viandante, che a sua volta afferma di chiamarsi Jinpa – entrambi avrebbero ricevuto questo nome anni prima da un lama – e dice di vagare da dieci anni alla ricerca dell’uomo che uccise suo padre, per vendicarsi.
Basterebbe l’ambientazione, dalle atmosfere rarefatte e quasi lunari, per collocare il nuovo film del regista tibetano Pema Tseden nello spazio in cui il cinema si trova a dialogare con il momento onirico. Dopotutto Jinpa si apre proprio su una citazione di un antico motto tibetano che si interroga sul sogno, e sul modo in cui esso può mettere gli esseri umani gli uni in relazione con gli altri.

Il viaggio del camionista Jinpa è materiale e oggettivo, ma assume da subito anche connotazioni fortemente metaforiche: è il viaggio dell’uomo dormiente verso il risveglio, verso una maggiore consapevolezza, verso la maturazione del proprio io. Se il camionista è solo un traghettatore, costretto però dagli eventi a diventare anche indagatore, detective di un “crimine” che forse neanche è stato mai commesso, il suo omonimo vestito di stracci è una sorta di onironauta, un attraversatore del sogno. Ma cos’è il sogno? Lo spazio in cui si vive, il senso ultimo – sembra dire Pema Tseden – dell’esistenza e del suo evolversi a tratti incomprensibile.
Presentato in concorso nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia, collocazione che aveva già ricevuto per il precedente Tharlo, Jinpa è in qualche modo la quintessenza del cinema del regista tibetano: uno sguardo sulle molteplici possibilità della solitudine umana che insegue però anche un’estetica ricercata, e a tratti fin troppo elaborata.

Regala immagini suggestive e potentissime, Jinpa, perfettamente in grado di rendere l’alterità di un luogo immoto e impossibile di fatto a qualsivoglia modifica – troppo impervio raggiungerlo, troppo arduo viverci e troppo arido il terreno – e di metterlo in dialettica con un personaggio alla ricerca invece di un’evoluzione, di un cambiamento, della possibilità di evadere da sé per (ri)trovarsi da un’altra parte, con un altro percorso. I due Jinpa non sono figure speculari, ma permettono di cogliere la tensione verso una mutazione possibile, anche in un luogo che replica all’infinito i medesimi schemi. Sotto questo punto di vista è fondamentale la sequenza che vede i due Jinpa recarsi in una sala da tè per mangiare un po’ di carne con dei ravioli e bere una birra. In quel locale, in cui tutti gli avventori si comportano sempre seguendo il medesimo schema e replicando le stesse battute, è data la possibilità di scoprire la “verità”, di ricordare il passato e ipotizzare vie per il futuro.
Pema Tseden, anche romanziere di successo in Tibet, non sempre gestisce la sceneggiatura nel modo migliore, e soprattutto non sa resistere al fascino delle proprie inquadrature, perdendosi qua e là in rivoli estetici tutt’altro che necessari, come la scelta un po’ posticcia di girare sia a colori che in bianco e nero. Resta l’impressione di un film più sterile di quanto possa apparire a prima vista, eppur non privo di un suo sotterraneo e quasi ancestrale fascino. Esattamente come il Kekexili, a ben vedere…

Info
La scheda di Jinpa sul sito della Biennale.
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    Tharlo

    di Il film di Pema Tseden vorrebbe essere il ritratto desolante di una generazione di tibetani, quella cui appartiene lo stesso autore, spiazzata, disorientata e desensibilizzata. Fotografato in un raffinato bianco e nero, il film finisce per perdersi in inutili virtuosismi.