La vedova del pastore

La vedova del pastore

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Secondo lungometraggio di Carl Theodor Dreyer, La vedova del pastore anticipava già nel ’20 e nelle forme di una commedia apparentemente leggera di matrimoni, convenzioni sociali, acquavite e stregoneria molti di quelli che saranno i dilemmi psicologici e morali che faranno grande la sua filmografia. Fino all’emergere dell’amore, unica e insondabile forza che può rimettere le cose a posto, compresa la Fede. Alle 37esime Giornate del Cinema Muto di Pordenone.

Stregati dall’aringa

Primi del ‘600. Nella Norvegia ancora sotto il dominio danese, tre candidati sono in lizza per il posto da pastore di un grande villaggio. Fra loro viene scelto Söfren, accompagnato nel suo lungo viaggio dalla fedele fidanzata Mari. Ma l’austera Dama Margarete, anziana vedova dei tre precedenti pastori sospettata di stregoneria, è intenzionata a rivendicare il suo diritto di andare in sposa al nuovo teologo. Söfren, forse per un incantesimo o forse per i fumi dell’alcool, decide di accettare, convinto che la vecchia donna non possa vivere a lungo. Presenta Mari come sua sorella, la porta a vivere in canonica come donna di servizio, ma per i due innamorati incontrarsi lontani dagli occhi indiscreti dell’anziana sposa diventa sempre più difficile. Fino a quando, per il tentativo di Söfren di rinchiudere per qualche tempo Margarete in soffitta, Mari non sarà vittima dell’incidente che ridiscuterà personalità e rapporti. [sinossi]

C’era già un assoluto rigore a rendere prezioso La vedova del pastore, secondo e sorprendentemente “leggero” (ma non troppo) lungometraggio di Carl Theodor Dreyer tornato novantotto anni dopo la sua realizzazione a illuminare lo schermo delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Un rigore su cui si impernia tanto la ricostruzione del contesto storico secentesco, rievocato con straordinario realismo etnografico fra gli abiti dai colli di pizzo e i doppi cucchiai incatenati per i pranzi nuziali, quanto le soluzioni di messa in scena, spartita in quasi egual misura fra gli interni nelle case di Maihaugen, sobborgo norvegese nei paraggi di Lillehammer diventato un villaggio/museo realmente immutato nel tempo, e gli sterminati paesaggi scandinavi che influenzeranno così grandemente l’immaginario e il cinema del futuro gigante danese. Come pure sono rigorosi i controcampi sulla bella e triste Mari a innestare anche negli apici di comicità la necessaria vena di dolore e dilemma morale, sono rigorose le riflessioni esistenziali e spirituali che si dischiudono fra le maglie della commedia amorosa, e sono rigorosi i mascherini a iride che molto spesso si stringono e si riaprono per guidare lo spettatore nelle immagini, fino a quello – magnifico – che chiuderà il quinto e ultimo atto consacrando gli innamorati con la sua forma di croce, perché è solo nell’amore che si può ritrovare anche la purezza di quella Fede che per quasi tutto il film, per l’immaturo ed egoista pastore Söfren, è in pratica poco più che un posto di lavoro fisso.

Ma andiamo per ordine. Tratto dal Prestekonen dello scrittore e teologo norvegese Kristofer Janson e messo in scena con produzione svedese e più di un occhio al cinema di Victor Sjöström, La vedova del pastore inizia con il viaggio di Söfren e di Mari che lo ha amorevolmente aspettato durante i lunghi anni di studio verso il grande villaggio in cui il posto di pastore presso la chiesa protestante è rimasto vacante. Sono i primi anni del diciassettesimo secolo, la Norvegia è sotto il dominio della corona danese tanto che l’istruzione e la vita religiosa sono gestite direttamente da Copenaghen, e nel piccolo della storia dei giovani amanti il padre di Mari è stato sin troppo chiaro: Söfren deve ottenere una chiesa prima di poterla chiedere in sposa. È in questo dettaglio apertamente esplicitato che Dreyer, ancora lontano dal misticismo dei suoi più celebrati capolavori ma di certo non privo di una ben precisa spiritualità e già pronto a ragionare concretamente sul sacro, disvela sin da subito come la Fede sia quasi secondaria per il giovane teologo, sempre pronto ad anteporre alla missione religiosa e alla divinità il proprio benessere anche estemporaneo. Al loro arrivo in paese, a contendersi con Söfren il ruolo con una sostanziale gara d’omelia dal pulpito, altri due candidati, che permettono al regista danese di lasciar deflagrare una comicità a tratti irresistibile, per molti versi spiazzante pensando alle forme tragiche e introspettive che negli anni successivi, da La passione di Giovanna d’Arco a Vampyr, fino al miracolo di Ordet, lo renderanno una delle più eminenti personalità nella storia del cinema. Il primo religioso, in una gag dalla costruzione puramente chapliniana (come del resto, dall’aspetto fisico alla goffaggine, è apertamente chapliniano il personaggio di Söfren), si dimostrerà talmente noioso da fare addormentare tutti i fedeli costringendo il sacrestano a svegliarli a bastonate, mentre il secondo si lancerà in un discorso talmente pretenzioso da finire per paragonarsi a un asino fra le impietose risate degli astanti.

Toccherà quindi proprio a Söfren, disposto a rasentare «le porte dell’inferno», l’onore e l’onere di ereditare la chiesa e i suoi fedeli. Solo che, sfortunatamente per lui, alle porte del suo personalissimo inferno c’è anche il diritto da parte della vedova del precedente pastore (in questo caso dei precedenti tre) di chiedere in sposo il nuovo religioso. Vecchia, brutta, sospettata – quasi ad anticipare di ben 23 anni Dies Irae – di stregoneria. Ed è proprio con un incantesimo di luccicanti aringhe, o forse con la bottiglia di liquore che Söfren si scola avidamente a colazione, che in una nebbia fumosa di inafferrabili bicchieri che si spostano con un originale e geniale uso dell’arresto e sostituzione, a metà strada fra la magia e l’ubriachezza, l’austera, anziana e rugosa Dama Margarete diventerà agli occhi di Söfren una giovane e raggiante pulzella. Basta un attimo, quell’attimo in cui, un po’ per l’abbaglio e un po’ per la paura di perderne i manicaretti, Söfren la chiede in sposa per il di lei quarto anello, che in mancanza di spazio residuo all’anulare le verrà infilato al medio, mentre la povera Mari, presentata da Söfren come sorella disposta a sbrigare le faccende di casa come governante, non potrà fare altro che subire la situazione e cercare di adattarsi. I due si convincono che la vita dell’anziana Margarete non potrà andare avanti ancora a lungo, e rimandano la loro felicità – facendo emergere anche nella commedia non solo il dilemma morale dreyeriano, ma anche la convenzione sociale che entra con potenza quasi shakespeariana a soffocare chi deve avere un lavoro per sposarsi ma deve sposarsi per avere un lavoro – atrocemente subordinandola all’altrui dipartita. Per poter vivere il proprio amore, in una società sbagliata, serve necessariamente il dolore altrui, serve sperare nella morte. Serve ridursi ad avvoltoi in attesa della carcassa, e magari diventarci davvero bestie. Proprio come dovuto fare in gioventù da Dama Margarete, protagonista di una storia identica a quella che a causa sua stanno vivendo gli amanti disperati con il suo primo marito e unico vero amore.

Ma questo lo si scoprirà solo all’ultimo, dopo una serie di paradossali tentativi non riusciti da parte di Söfren di incontrare da solo la sua bella fra un finto malessere e un tragico sbaglio di letto, fra un intreccio di dita attraverso il filatoio salvo scoprire che si trattava di quelle della mostruosa serva e le gigantesche mani del giardiniere ad appendere al muro chi gli suona erronee serenate e vorrebbe gestire la casa, passando per un caricaturale costume demoniaco usato con l’adolescenziale scopo di spaventare Margarete, pronta però a riconoscere le pantofole del marito e a ridicolizzarne immediatamente il “soprannaturale” tentativo. Solo dopo che Söfren avrà tolto la scala con lo scopo di rinchiudere per qualche tempo in soffitta Margarete per potersi appartare con l’amata Mari, provocando così la caduta proprio di Mari, giungerà la chiave di volta dell’intera vicenda. Il grave infortunio della giovane sarà l’occasione d’amore e di pacificazione, sarà la verità che emerge, saranno le cure alla giovane da parte di Margarete che nella pietà e nell’amore materno riscopre e fa riscoprire l’amore di donna, e sarà la maturazione di tutti i personaggi, chi è finalmente diventato un uomo retto e senza più egoistici infantilismi, chi ha imparato a sbrigare le faccende di casa, e chi finalmente può morire in pace, circondata da quei sentimenti che per troppi anni aveva dimenticato sotto la polvere del rancore e rinforzata nell’anima dalla consapevolezza che sarà sepolta insieme al primo e amato marito, mentre chi rimane proverà nei suoi confronti gratitudine.

Non ci sono personaggi positivi e negativi, ci sono solo equivocità e dure scelte, bivi da percorrere, dilemmi e drammi morali, religiosi, sociali, amorosi, e soprattutto tanta ambiguità, come la stregoneria, che forse nemmeno esiste, potrebbe non c’entrare con la proposta di matrimonio, di certo non può realmente tenere in vita per «altri cent’anni» l’anziana Margarete, ma nel dubbio è meglio prevenirne un eventuale ritorno con ferri di cavallo e riti pagani di semi di lino, direttamente estrapolati dal folklore locale, sulla salma.
Carl Theodor Dreyer, ben al di là del fine umorismo innervato di dilemmi profondi e ancestrali e del congegno narrativo pressoché perfetto che solo nell’ultimo atto ribalta nell’amore tutti i rapporti umani e di potere sancendo di fatto la maturazione dei personaggi impegnati nel loro agrodolce romanzo di formazione, mette in scena La vedova del pastore già con notevoli maturità e perizia tecnica, con un pieno controllo delle imbibizioni oro, rosa e blu con pieno senso narrativo, con un assoluto rigore nel rifiuto della fissità frontale per concentrarsi piuttosto sulle profondità (o sulle non-profondità) di campo, e con un continuo cambio di registro e di punti di vista nei precisi tagli di montaggio, perfettamente calibrati nel ritmo e nella profonda stratificazione di ogni singola immagine sempre portatrice di sensi ed emotività. È sufficiente uno split screen per direzionare il suono di un flauto, è sufficiente chiudere e riaprire un mascherino a iride per cambiare del tutto il senso di una situazione, è sufficiente un controcampo sulle reazioni dolenti di Mari per rendersi conto che, in fondo, anche nella commedia quello che Dreyer ha sempre cercato e trovato è la malinconia. Quella malinconia di un’inaspettata partecipazione emotiva quando la morte si presenta non più evocata, ma anzi triste, devastante, trasudante carne, intensità, dolore fisico e una spiritualità più o meno sacra: il cinema miracoloso di Carl Theodor Dreyer stava muovendo i suoi primi passi. Bastava lasciarlo crescere ancora, lasciandosi apertamente stregare dal luccichio delle sue aringhe magiche. E così sia.

Info
La scheda di La vedova del pastore sul sito delle Giornate del Cinema Muto.
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