Fanny e Alexander

Fanny e Alexander

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Fanny e Alexander sono i piccoli protagonisti del fluviale racconto televisivo che Ingmar Bergman dedicò alla famiglia Ekdahl, liberi teatranti a Uppsala nella Svezia di inizio Novecento. Un’opera che racchiude forse la summa del pensiero bergmaniano sulla memoria, il tempo, e la vita. La versione che viene presentata in copia 35mm nella retrospettiva Bergman 100, a cura de La farfalla sul mirino e Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale è quella tagliata per l’uscita nelle sale cinematografiche.

Il teatro della vita

Nel 1907, in una città della provincia svedese, l’agiata famiglia borghese degli Ekdahl festeggia il Natale in casa di nonna Helena. La famiglia, ma più in generale il mondo intero, sono osservati con gli occhi innocenti e visionari dei due bambini Fanny e Alexander, figli del direttore del teatro locale Oscar. Gli zii Gustaf Adolf e Carl, con le rispettive mogli, completano la cerchia familiare. Quando la malattia porta alla morte Oscar, la madre di Fanny e Alexander, Emilie, trova conforto nella religione e finirà per sposare il pastore protestante Vergérus. La vita dei due bambini subisce un grande e brusco cambiamento, dalla dimora sontuosa e ricca di giochi dovranno adattarsi alla rigidità e all’austerità della canonica… [sinossi]
Se esiste un dio,
è un dio di cacca e di piscio
che vorrei prendere a calci in culo.
Alexander, Fanny e Alexander

Fanny e Alexander verrà presentato all’interno della rassegna Bergman 100, organizzata al Palazzo delle Esposizioni di Roma da La farfalla sul mirino e CSC – Cineteca Nazionale, nella copia cinematografica in 35mm. Una scelta comprensibile, sia per la possibilità di proiettare in pellicola sia per la ridotta durata dell’opera, che passa dai 312 minuti della versione televisiva a un ben più maneggiabile minutaggio di poco superiore alle tre ore. Eppure in questa sede si ritiene opportuno, per indagare sull’ennesima opera capitale di Ingmar Bergman, doversi basare sul metraggio pensato per il piccolo schermo. Fanny e Alexander, che di fatto in qualche modo ideale conclude l’esperienza autoriale di Bergman – nonostante dopo di esso arrivino molti lavori, tutti prodotti per il piccolo schermo, da Dopo la prova (programmato anche in sala) a Il segno, da Il creatore di immagini a Sarabanda – trova la sua postura in un tempo espanso, liquido e materico simultaneamente, e la suddivisione in quattro parti da un’ora e un quarto l’una dona al film un’armonia suadente, quasi cullante, tra il vagito di una nascita e il rantolo effimero che anticipa la morte.
Là dove molte opere di Bergman appaiono geometriche figure con angoli e spigoli netti, contro i quali infrangersi e puntellarsi il corpo fino a una macerazione sempre vivifica e mai ostinatamente mortuaria, Fanny e Alexander possiede la rotondità ciclica dell’interpretazione del proprio e del comune passato; inizia nella messa in scena per eccellenza della società occidentale, il rituale familiare del Natale, e si conclude nell’elogio intimo e pervadente della messa in scena, della ricreazione come primo istinto alla vita, e alla sua ineluttabile sublimazione. La nonna Helena ha di nuovo finalmente tra le braccia l’adorato nipotino Alexander, e legge per lui le celebri note che August Strindberg vergò per il dramma Ett drömspel (in italiano Il sogno, 1902): «Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni». Tutto è possibile e verosimile, e ancora Il tempo e lo spazio non esistono. Un concetto sicuramente valido per interpretare con estrema precisione Fanny e Alexander, ma che a ben vedere può essere allargato a una parte consistente della poetica autoriale del regista svedese. Strindberg, dunque, in un riprendere dall’inizio che è anche – e forse soprattutto – riappropriarsi di ciò che appartiene da sempre a Bergman. Nella fase senile molti grandi autori tendono ad affidarsi alla memoria per ripercorrere, come un sentiero dorato, ciò che furono, e perché. Un atto di amore verso la macchina/cinema, una narrazione di sé che diventa in qualche modo estrema unzione, autoassoluzione di fronte alle miserie dell’esistenza. Con Fanny e Alexander Bergman smentisce questa nostalgia pre-mortem, senza però rinunciare a distillate gocce di autobiografismo.

Alexander, è evidente, è Bergman stesso. La nonna Helena, per di più così giovanile nell’aspetto (e in effetti Gunn Wållgren aveva poco meno di settant’anni al momento delle riprese, per quanto fosse già completamente rosa dal cancro che l’avrebbe uccisa nel giugno del 1983), è il sogno di una madre che non ha mai avuto. Ancor più vagheggiato è il padre nella figura di Oscar, il caro e dolce teatrante che muore lasciando vedova la madre di Fanny e Alexander; ben più concreto, nelle memorie effettive del regista, è il vescovo Edvard Vergérus che la prende in sposa. Dispotico, rigoroso fino a un ascetismo auto-flagellante, Vergérus si sostituisce allo stesso tempo al padre e a Dio, e somiglia da vicino al vero padre di Bergman, quel padre mai accettato, quel padre con cui mai il regista si riconciliò. L’apparizione dello spettro di Vergérus ad Alexander, nel finale del film, è lapidario come la frase che pronuncia: “Non ti libererai mai di me”. Una minaccia che è anche la maledizione calata su Bergman, impossibilitato a trovare liberazione dalla memoria di una figura paterna arcigna e crudele, incapace di trasmettere amore e calore. La canonica dove vive la famiglia Vergérus (interessante come questo cognome torni più volte nel corso della carriera di Bergman, da Il volto a Passione, da L’adultera a L’uovo del serpente, e che sia quasi sempre associato a figure negative), che Sven Nykvist depaupera di qualsiasi colore in un prosciugamento dalle rimembranze dreyeriane, rappresenta l’area del cervello che elabora i segni del reale e li confina nei vincoli della memoria senza però riuscire a disciogliere la persistenza di una paura latente, ma vivida.
Se Alexander affronta con sfrontato coraggio un rapporto di aperta ostilità con il vescovo è lo sguardo stesso di Bergman a temerlo ancora, per quanto sia il patrigno a confidare alla madre del ragazzo: «Ho paura di lui». Non è però una paura legata al potere reale di Alexander, quanto alla sua attitudine. Vergérus ha paura di Alexander perché sente di essere odiato da lui, un sentimento che credeva fermamente nessuno potesse provare nei suoi confronti. «Ho sempre creduto di piacere alla gente, mi vedevo saggio, aperto di idee, e giusto. Mai avrei pensato che qualcuno avrebbe potuto anche odiarmi», afferma subito dopo aver ammesso una reale distanza tra lui e la consorte: Emilie, che è stata attrice di teatro accanto al primo marito, affronta il mondo cambiando di volta in volta faccia, al punto – è lei a dirlo – di non sapere più riconoscere il suo vero volto. Vergérus ha con sé la pallida ma ferrea convinzione della fede, e di faccia ne ha sempre avuta una sola, «impressa a fuoco, nella carne». Una faccia, una verità, ma solo all’apparenza: la brutalità del vescovo è il primo e immediato disconoscimento della sua falsa essenza. Una volta di più nel cinema di Bergman un uomo di chiesa viene disossato pezzo per pezzo. Ma il suo ectoplasma non si dissolve, perché nella sua unica maschera impressa a fuoco, nella carne, c’è da un lato la maschera del padre di Bergman, dall’altro la maschera di un’intera umanità ottusa e convinta della propria rettitudine, espressione di una cultura della deprivazione dell’io che è il vero nemico della poetica bergmaniana.

Nell’autobiografia per immagini è dunque l’immagine a essere veicolo di salvezza. L’immagine e il teatro dell’esistenza, che permette sì di mascherarsi (e quindi di mentire, a sé e al mondo che circonda i personaggi) ma anche di denudarsi vestendosi di parole altrui, di sciogliere la propria anima intima nel calderone in cui ribollono le anime di poeti ed eroi di fantasia. Il teatro come primo istinto demiurgico a ri-creare la vita, a oltrepassare quella soglia che divide il mondo dei vivi dal mondo dei morti e che rende immortale non l’uomo, ma la sua immagine nell’accezione latina di imago, a cui si può attribuire tanto il valore di ritratto e copia quanto quello di spettro, spirito, parabola, concetto, e perfino sogno. È Oscar, sul letto di morte, a confidare alla moglie Emilie: «Non c’è nulla che possa separarmi da voi né adesso né dopo. Io lo so, lo vedo con estrema chiarezza. Penso che potrò esservi più vicino che in vita»; e in effetti lo spettro di Oscar apparirà sia ad Alexander che alla moglie e alla madre Helena, che gli riserva un monologo tra i più dolci e strazianti di Fanny e Alexander («Era così bello essere incinta. Me ne infischiavo davvero di cuore del teatro. Del resto, si recita sempre un ruolo. Ci sono parti divertenti e altre meno. Io faccio la mamma, poi Giulietta, Margherita, poi mi trovo a fare la vedova e la nonna. Una parte succede all’altra, l’importante è non tirarsi indietro. Ma dov’è andato a finire tutto questo?»). Una parte succede all’altra, l’importante è non tirarsi indietro.

È così che Alexander e la sorellina Fanny – che ottiene gli onori del titolo, ma è personaggio nettamente secondario rispetto al fratello maggiore – affrontano il mondo esterno, tra reale e immaginifico, rimpiangendo la lanterna magica abbandonata nella splendida casa della nonna e subendo le minacce dei fantasmi (della mente?) delle due figliolette defunte di Vergérus, a sua volta destinato a una fine dolorosa e traumatica. Fanny e Alexander è un trauma, sia nell’etimologia greca τραῦμα, ferita, che nell’accezione tedesca di Traum, sogno. È la ferita del sogno, e il sogno-ricordo di ferite e ricomposizioni. Il più elegiaco dei film di Bergman, e anche il più solare, il più ottimista, il più spudoratamente dolce: nelle aule ricche di arazzi e di tappeti che rappresentano la casa della nonna ma anche la casa in cui crebbe a Uppsala – la città in cui è ambientato il film – il Bergman bambino, si muove un’umanità non priva di problemi e schizofrenie ma viva, pulsante, e amorosa. Bergman avvolge i suoi personaggi nel candore di una neve notturna, e li osserva con lo stesso sguardo che Helena rivolge dalla finestra, mentre si approssima alla magione la carrozza che sta riportando a casa dal teatro il resto della famiglia: «Ecco la mia famiglia che arriva». È la famiglia anche di Bergman, una famiglia di cui fanno parte teatranti e cameriere, bambini e mercanti ebrei – Isak Jacobi, personaggio cruciale all’interno della narrazione. Senza smarcarsi mai dai temi fondamentali della sua poetica, ma illuminandoli sotto una luce parzialmente diversa, in alcuni casi anche in aperta opposizione al passato, Bergman apre all’umano non solo come corpo trasudante traumi ed egotismi, ma anche come animo teso alla soddisfazione dei beni effimeri e materiali, mai messi in ridicolo, mai ridotti a puro divertissement. Non è un caso che alcuni dei monologhi chiave del film siano affidati alla goliardia perturbata – perché ossessiva – ma coinvolgente di uno degli zii di Fanny e Alexander, Gustaf (l’altro zio, Carl, è invece una delle figure più tragiche della storia, repressa e pronta a sfogare le sue frustrazioni sulla moglie tedesca); nella semplicità di una vita condotta cercando il piacere, desiderosi di condividerlo, si racchiude uno dei sensi possibili, una delle malinconie più pervadenti di Fanny e Alexander, pari a quella di un mondo perso, sconfinato oltre la vita, al quale si può oramai accedere solo attraverso il sogno, e la sua rappresentazione scenica.

La condivisione con l’altro è condivisione dell’altro, come insegna il “cannibale” Ismael nella notte ad Alexander, spingendolo a sognare la morte dell’arcigno Vergérus e in qualche modo mettendola in atto – è nella notte senza sogni, prodotta dall’artificio del sonnifero, che il vescovo morirà inghiottito dalle fiamme di un incendio – e il teatro è la porta sull’abisso dell’infinito. Il teatro, le marionette, la lanterna magica, la magia (la fuga impossibile dei due bambini dalla canonica, ordita da Isak), il gioco di prestigio. Tutti artifici presenti in Fanny e Alexander, dove volontariamente viene a mancare il cinema. Perché il cinema è l’arte del reale, che costruisce l’immaginario attraverso meccanismi concreti che non si basano più solo sull’immaginazione, ma prevedono il credibile, e non solo l’incredibile. Bergman firma un manifesto del “meraviglioso”, e lo issa a forza sulle fondamenta che contengono l’archivio della sua memoria. Perché, come afferma il personaggio di Aron «Le cose incomprensibili fanno uscire di senno, perciò è meglio dare la colpa agli apparecchi, agli specchi, alle proiezioni. Così la gente ride. È meglio da tutti i punti di vista, specie quello economico».

Info
Il trailer di Fanny e Alexander.
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