Alba tragica

Alba tragica

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Vetta indiscussa del cinema transalpino degli anni ’30, Alba tragica, capolavoro assoluto di Marcel Carné, è un’opera dalla malinconia leggendaria, tra gli apici più struggenti e disperati della settima arte. Precisissima tanto nell’evocazione di una vita in frantumi quanto nella messa a punto della psicologia del protagonista, dei suoi strascichi profondi, dei fantasmi di un’intera epoca. Stasera alle 21 al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la rassegna dedicata a Renoir e ai maestri del realismo poetico francese, organizzata da La farfalla sul mirino, insieme ad Azienda Speciale Palaexpo, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, e Institut Français Italia.

Un occhio lieto e l’altro triste

Mentre la polizia si accinge a catturarlo per l’uccisione di un rivale in amore, l’operaio François si barrica in casa e rivive i suoi ultimi giorni, divisi tra la passione, tradita e disattesa, per una fioraia di nome Françoise e il legame con una donna di mondo. [sinossi]

Alba tragica non è solo l’apice del cinema del regista francese Marcel Carné, ma anche la summa del mondo espressivo di Jacques Prévert. Una storia in cui il poeta e sceneggiatore, legato a Carné da una collaborazione più volta rinnovata e di grande pregio – di appena un anno prima è Il porto delle nebbie, di sensibilità analoga e col medesimo attore protagonista – ha riversato tutto il proprio universo creativo. Attraverso lo studio, umanissimo e di rara sottigliezza, di un individuo arrivato al collasso della propria esistenza dopo essersi macchiato di un tragico assassinio: un’intuizione semplicissima, eppure foriera di una densità impareggiabile. Alba tragica è un film che parla dello scoprirsi soli in una vita che, letteralmente, non è più un romanzo, la raffigurazione plastica di un idillio spezzato, di un amore tradito che spalanca un abisso senza ritorno e gli presta il fianco.

La dura realtà e la sua rielaborazione malinconica coincidono, come facce di una stessa medaglia in tutto e per tutto coincidenti, a tal punto che è perfino difficile distinguerle. Il protagonista François, interpretato da un Jean Gabin sensazionale per adesione mimica ai tormenti del suo personaggio, è accarezzato dalla sceneggiatura di Jacques Viot e dello stesso Prévert con dolcezza impietosa, con una familiarità che non risparmia stoccate crudelissime. Parla da solo con un specchio destinato ad andare in frantumi e la sua voce interiore è uno dei tanti elementi di modernità che la regia di Carné mette a fuoco senza risparmiarne i detriti e le scorie impossibili da smaltire. Tali da aver tramutato la sua vita in punto morto, costringendolo ad asserragliarsi per difendersi dal tiro a segno dei poliziotti che lo tallonano fuori da casa sua per punire quel gesto estremo.

Guarda fuori dalla finestra, François, e innumerevoli dissolvenze incrociate di notevole spessore formale sembrano creare un ponte impossibile tra il dentro e il fuori, tra la sua anima lacerata e lo scorrere ordinario e transitorio del mondo esterno. «Se il sole d’inverno non fa male», come gli dice una delle donne da lui amate in uno dei dialoghi più teneri e lacrimevoli del film, che sono innumerevoli, è indubbio che il rimpianto di quest’uomo colpito da un raptus omicida non possa più conoscere e sperimentare la speranza di una salvezza, di un anestetico per il dramma che lo attanaglia. Non basta e non può essere in alcun modo sufficiente un ossimoro come quello appena citato, per quanto consolatorio, per scagionarlo. Non c’è figura retorica o scorciatoia che possa redimerlo, né un dialogo con la propria anima che sia in grado di accompagnarlo in zone meno remote del suo inconscio.

Ha con sé un orsacchiotto, lascito del suo amor fou per una fioraia che avrebbe potuto rappresentare per lui uno spiraglio attraverso il quale materializzare un finale completamente diverso. Ma il tradimento subito ha portato François a scegliere irrazionalmente un’altra via, la più dura e impervia, lungo il cui tragitto nemmeno l’amore è in grado di restituirgli una tangibilità, un’ipotesi di realtà. La colpa l’ha disincarnato, l’ha sganciato dal suo corpo, l’ha imbrigliato in una dissociazione in cui gioia e dannazione hanno ormai lo stesso sapore, tanto che guardandosi allo specchio la consapevolezza di avere un occhio lieto e l’altro triste non può che essere il solo approdo possibile.

Non gli bastano la rievocazione della Costa Azzurra e delle sue mimose e della proverbiale “passeggiata degli inglesi” del lungomare di Nizza, richiamata alla memoria in alcuni dei tanti flashback di cui Alba tragica è costellato. Non serve nemmeno la consapevolezza di essere vivo e di doversi in qualche modo accontentare, nell’interesse di un’identità proletaria dura a morire e restia a soccombere. Non gli sono sufficienti le numerose sigarette che ha con sé, perché la morte per lui potrebbe essere comunque dietro l’angolo. François non era altro che un onesto e tranquillo operaio, ma ciò non gli ha impedito di piombare nel baratro. Il suo lavoro con la sabbia ha compromesso la sua salute più di qualsiasi altro vizio, la condizione di orfano l’ha segnato per sempre.

«Ci ha sorpreso, come una voce amica nel deserto», disse Ennio Flaiano di questo film del ’39, immortalando con la consueta, fulminante intuitività la natura di un racconto cinematografico rivoluzionario, guidato dalla capacità incommensurabile di fotografare uno spaccato di pessimismo esistenziale e di cupo fatalismo, senza rinunciare a un equilibrio tra realismo urticante e romanticismo irriducibile. Gli echi della Seconda Guerra Mondiale sono inequivocabili, così come i fantasmi duri a morire della Grande Guerra, e il lieto fine al termine di una notte disperata è impossibile da materializzare. Alba tragica, in tal senso, sintetizza il clima di un’intera epoca, un’atmosfera di incertezza in cui i confini tra bene e male, tra il demoni liberatori del libero arbitrio e le catene di un destino segnato sono dannatamente confusi, dei nodi più che mai difficili da sciogliere.

Alba tragica fu proiettato in anteprima il primo giugno 1939 a Parigi. Un’inquadratura che mostra il seno nudo di Clara, compagna di Valentin interpretata dalla diva dell’epoca Arletty, destò scalpore e fu in seguito rimossa per essere reintegrata solo qualche anno fa, in un’edizione francese distribuita in Blu-ray in occasione del suo 75esimo anniversario. Tre mesi e tre giorni dopo, il 3 settembre 1939, la Germania dichiarava guerra alla Francia e il film di Carné andava incontro a un immediato oblio, dato che si provvide a toglierlo dalla circolazione perché ritenuto eccessivamente diseducativo, traumatico, moralizzante. Alba tragica, anche in virtù di questa natura di rottura e non compromissoria rispetto al suo tempo, ci getta a capofitto in quest’epocale momento di transizione, costellato di ansie profonde e radicali scissioni morali. Impossibile non citare, a questo proposito, l’eccellente lavoro dello scenografo Alexandre Traneur, al lavoro già su Albergo Nord dello stesso Carné, che ricostruì gli esterni in un teatro di posa con grande verosimiglianza.

Per non parlare del bianco e nero di Curt Courant, sensazionale per il dosaggio e l’ampiezza di sfumature che riesce a catturare tra questi due opposti poli cromatici, anticipando tante soluzioni del noir americano degli anni Quaranta, oltretutto perfettamente assecondate dai tagli delle inquadrature del regista de Gli amanti perduti. Spaccature che ancora oggi rapiscono e inquietano, rasentando in più punti un espressionismo sempre misurato ma a suo modo perfino vertiginoso. Senza mai rinunciare, allo stesso tempo, alla nebbiosità tanto cara a Carné e a Prévert, alla tentazione del simbolismo eversivo sepolto tra le pieghe delle immagini. Alla compresenza fatale e di amori e diavoli.

Info
La scheda di Alba tragica sul sito del Palazzo delle Esposizioni.
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