Agnès Varda, il cinema senza tetto né legge

Agnès Varda, il cinema senza tetto né legge

Agnès Varda, scomparsa ieri a novant’anni, è stata una cineasta libera, refrattaria a qualsiasi catalogazione, eternamente curiosa, sempre un passo avanti rispetto al mondo in cui viveva. Un’artista totale, che ha marchiato a fuoco gli ultimi sette decenni del cinema.

Nel primo dei cinque episodi della serie documentaria Agnès de ci de là Varda (2011), Agnès Varda incontra Manoel de Oliveira, che al tempo aveva centodue anni, mentre lei aveva superato gli ottanta. Il grande cineasta portoghese, che in gioventù era stato anche campione di scherma, mima mosse con il bastone da passeggio in un parco a mo’ di fioretto, poi imita Charlot, infine osserva e prova la piccola camera digitale della Varda e la filma. Un gioco tra vegliardi, un incontro tra amici e tra grandi vecchi del cinema, probabilmente le due carriere più lunghe nella storia del cinema e tra le più luminose. Un episodio per certi versi illuminante sull’atteggiamento di entrambi verso la vita e il cinema, che dice della loro curiosità, giocosità, capacità di fare film molto curati partendo da piccole cose e un’esistenza attiva e piena fino alla fine.

La cineasta francese scomparsa ieri aveva presentato al recente Festival di Berlino la sua ultima fatica, Varda par Agnès, un testamento e una sorta di generosa lezione sul suo cinema e sul mestiere di cineasta.
Il nome è spesso associato alla Nouvelle vague, della quale fu anticipatrice (“nonna della Nouvelle vague” è stata definita) e protagonista, sebbene non facesse parte del gruppo dei Cahiers du cinéma e, con Resnais, Marker e Demy, apparteneva alla Rive gauche, essendo i loro uffici sulla sponda opposta della Senna rispetto agli altri. Si potrebbe dire che lungo il corso del fiume, dall’altro lato, quello dove ci sono le spiagge (“se si aprissero le persone, dentro si troverebbero paesaggi; se si aprisse me, si troverebbero spiagge” disse efficacemente per spiegare l’autobiografico Les plages d’Agnès del 2008), si è sviluppata tutta la sua carriera. Sempre presente, spesso in anticipo, ma con un suo punto di vista preciso, anche defilato, mai allineato, senza paura di conciliare l’impegno con la leggerezza, l’ironia con la ricercatezza e la novità formale.

La carriera dell’artista è lunga sette decenni, quella strettamente cinematografica ben 65 anni, dal 1954 quando nel borgo omonimo nei pressi di Sète (per intendersi la stessa località marina di Cous cous e Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche), dove era stata sfollata con la famiglia durante la Seconda Guerra Mondiale, gira da autodidatta La pointe courte. Un film che nasce da suggestioni letterarie e fotografiche, realizzato con perseveranza, ma affidandosi ad Alain Resnais per il montaggio. Un film originale e spiazzante, seppur non distante dai coevi lavori di Roberto Rossellini che Varda conobbe solo a posteriori, e che avrebbero fatto da apripista al nuovo cinema francese che si stava annunciando.
Nata a Bruxelles nel 1928 da padre di origine greca, emigrata a Parigi, inizia come fotografa ufficiale del Festival di teatro di Avignone, sotto l’ala protettiva di Jean Vilar che conosceva dai tempi della guerra. Poi l’idea di cimentarsi con quella che considerava “la più difficile delle arti” e di trovarsi unica donna in un mondo maschile, senza soffrire di alcun timore reverenziale, anzi rivelando sempre determinazione e capacità di essere più avanti degli altri.

Caso raro di regista non cinefila dell’epoca, da ragazzina vede pochissime pellicole e non apprezza Biancaneve e i sette nani (“era il tipo di donna che non volevo diventare”) della Disney, cui riserverà una battuta in Lions Love (And Lies…), uno dei suoi lungometraggi più trascurati.
Dalla Nouvelle vague alla regista donna, qualsiasi categoria è limitativa per una carriera impareggiabile e con un’influenza profonda fin dagli inizi. Il suo percorso è contraddistinto da un’attività intensissima, fatta di lungometraggi alternati a corti e documentari, tutti realizzati con la stessa cura, passione e inventiva, sebbene non tutti premiati con la giusta visibilità. Troppe le opere per soffermarsi su ciascuna, o anche solo per menzionarle. Dopo l’esordio, i film fondamentali sono Cleo dalle 5 alle 7 (1961), Senza tetto né legge (1985), Les glaneurs et la glaneuse (2001) e Les plages d’Agnès (2008). Il primo la porta al successo “largo”, dopo che La pointe courte l’aveva rivelata a una nicchia: una storia di donna sospesa tra la leggerezza del vivere, la paura della malattia e l’eco della guerra in Algeria. Il secondo, Leone d’oro alla Mostra di Venezia, è la storia di ricerca della libertà e di autodistruzione di un’adolescente. Les glaneurs et la glaneuse è un punto di svolta, la reinvenzione di una poetica, grazie al digitale e all’intuizione di un mondo che cambia, per uscire dal difficile decennio dei Novanta, segnati dalla morte del marito Jacques Demy e l’insuccesso di film come Les cent et une nuits de Simon Cinéma – Cento e una notte (1995), realizzato per il centenario della Settima arte. Un viaggio, elemento che tornerà in tutti i successivi, in libertà, favorito dall’utilizzo di una videocamera leggera, con curiosità, vicino a persone ai margini, che cercano cibo tra gli scarti dei mercati o quel che resta nei campi dopo il raccolto. Un film che è una sorta di autoritratto, come del resto i film che seguiranno: la spigolatrice del titolo non è che la regista. Les plages d’Agnès è forse il film da cui partire per immergersi nel meraviglioso mondo della cineasta (in alternativa c’è Varda par Agnès), un’autobiografia autoironica.

Tra le caratteristiche principali del suo lavoro l’artigianalità, con un controllo totale, quasi sempre producendosi con la Tamaris Films poi divenuta Ciné-Tamaris. Ancora la libertà espressiva, la voglia di sperimentare, i riferimenti ad altre forme d’arte (spesso il punto di partenza è una fotografia, ma anche le musiche rivestono un ruolo sempre molto importante), la struttura molto forte dei suoi film, l’amore per i personaggi marginali o l’utilizzo di elementi personali. Una regista che è andata sempre per la sua strada, a dispetto di tutte le difficoltà incontrare, ma mantenendo forte un legame, un interesse e una collaborazione con altri cineasti, dall’episodio citato in apertura con de Oliveira a Visages villages realizzato con il fotografo JR, passando per le realazioni speciali con Jean-Luc Godard, Alain Renais o Chris Marker. Senza dimenticare l’amore della vita Jacques Demy, che ha accompagnato in vita e omaggiato in tre film teneri e imperdibili, Garage Demy – Jacquot de Nantes (1991), Les demoiselles ont eu 25 ans (1993) e L’univers de Jacques Demy (1995).

Info
Un’intervista della BBC ad Agnès Varda.

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