Boogie Nights – L’altra Hollywood

Boogie Nights – L’altra Hollywood

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Boogie Nights – L’altra Hollywood arriva a un solo anno di distanza da Sydney, esordio alla regia di Paul Thomas Anderson, ma già prefigura con nettezza il racconto temporalmente e umanamente ampio dell’America che si staglierà come uno dei nuclei centrali della sua poetica espressiva. Tragico e divertente, iper-pop senza cedere alla lusinga della patina, Boogie Nights è il sogno/incubo americano guardato attraverso il buco della serratura, ed è allo stesso tempo un omaggio al cinema pornografico, categoria stra-vista ma moralmente invisibile, che fa proprio dello sguardo la sua arma detonatrice.

Trentatré centimetri di dimensione artistica

Los Angeles, 1977. Eddie Adams ha diciassette anni, fa il lavapiatti in un locale notturno e vive con la madre alcolizzata, con la quale litiga in continuazione. Quando il regista pornografico Jack Horner lo nota e gli propone di diventare un attore Eddie sa di avere davanti un futuro luminoso nel settore: glielo dicono le sue doti amatorie ma soprattutto i 33 centimetri di lunghezza del suo pene. Quello che gli serve però è un nome d’arte: Dirk Diggler! [sinossi]
Trenta centimetri di dimensione artistica
su di ciò la critica è concorde
nel ritenermi sudicio
perché non hanno capito
non parlo perché son rapito
e poi in faccia non sono mai inquadrato
però dal pubblico son venerato
e ora sono diventato un mito.
Elio e le storie tese, John Holmes (una vita per il cinema)

Per avvicinarsi a Boogie Nigths a ventitré anni dalla sua realizzazione si può iniziare partendo dalla fine. Dirk Diggler è nel suo camerino, seduto su una sedia di fronte a uno specchio. Sta ripassando sul copione la scena che dovrà andare a girare di lì a pochi minuti. “È la seconda volta che mi succede, ormai. Sto cercando qualcosa. Un indizio. E cercando un indizio qualcosa mi ha riportato qui. Già. Ed eccomi qui. Forse c’ero anch’io nel locale di Ringo quand’è successo il casino… Ehi, io lo so com’è, ci sono passato. Chi è che non ha fatto degli sbagli? Tutti abbiamo dei motivi per sentirci colpevoli. Puoi tirarti fuori il cervello, lavarlo e strofinarlo finché non è pulito? Beh, no. Ma ti aiuterò io a stare meglio. Prima vediamo in tutti i buchi quello che troviamo, poi ci scalderemo per bene, e tu aprirai le gambe. Brava, allora mi conosci, sai perché sono famoso. Trentatré centimetri non sono uno scherzo se non ci vado piano. Esatto, sono Brock Landers. Quindi sarò gentile… Quindi sarò gentile… Quindi sarò gentile e te lo chiederò per l’ultima volta: dimmi dove cazzo si è nascosto Ringo”. Qui Dirk smette di recitare il copione, spegne la sigaretta nel posacenere, si alza in piedi tagliando la testa al di fuori dell’inquadratura, si slaccia i pantaloni ed estrae il suo pene di trentatré centimetri. Quindi inizia a ripetere a se stesso “io sono una stella, sono una grandissima stella luminosa”, prima di richiudere i pantaloni. Fa un paio di mosse improvvisate di karate, ed esce dalla stanza. Sui titoli di coda esplode Livin’ Thingdegli Electric Light Orchestra. Livin’ Thing, la cosa vivente: così è anche Dirk alla fine del film, a sette anni di distanza da quando Jack Horner lo raggiunse nel retrocucina dell’Hot Traxx, il locale gestito da Maurice Rodriguez in cui quello che ancora si chiamava Eddie Adams lavorava come lavapiatti. Già, perché Dirk Diggler è un nome d’arte, scelto quando la carriera come pornodivo si era definitivamente concretizzata. Arte, la stessa che Horner dice di fare mettendo in scena le sue storie “per adulti”. Sono tutti a Hollywood, ovviamente, o per meglio dire nelle vicinanze: a Reseda, nel cuore di San Fernando Valley, una trentina di chilometri a nord-ovest degli studi. Dopotutto i film che gira Horner, con protagonisti Dirk, Amber Waves, Rollergirl, Buck Swope, Reed Rothchild, a Hollywood si preferisce far finta che non esistano. Perché nel mondo dell’immateriale osano mettere in scena l’atto più materiale e naturale dell’umano: il sesso. Da questo punto di vista non ebbe torto la distribuzione italiana ad aggiungere come sottotitolo (in ogni caso un po’ pedante, alla maniera didascalica della promozione cinematografica nazionale) L’altra Hollywood. E, per rincarare la dose, nel trailer italiano una voce stentorea avvisava i potenziali spettatori che si sarebbero trovati di fronte “Il film che sta turbando il pubblico americano frantumandone ogni tabù sessuale”. In pratica si riversava il lascito storico delle pellicole che Paul Thomas Anderson (“un regista smisuratamente geniale”, chiosava il trailer) omaggiava sul film stesso, come se una cosa – la Storia – e l’altra, vale a dire la narrazione, si tenessero l’un l’altra, vicendevolmente. Cos’è in fin dei conti che avrebbe dovuto turbare davvero il pubblico statunitense: quell’enorme pene evidentemente finto che Anderson mette al centro dell’inquadratura nel finale? Un paio di anni più tardi anche David Fincher avrebbe chiuso Fight Club con l’inquadratura di un pene (vero): lì era a testimoniare il gioco un po’ subdolo della censura – e dei modi per aggirarla – mentre il mondo crollava e Tyler Durden si chiedeva insieme a Francis Black Where is my mind?; in Boogie Nights invece il dettaglio genitale, l’unico presente all’interno del film, misurava la distanza tra il realmente esistente e il visibile, ciò che è lecito e morale mostrare per una società che di morale ha ben poco. Se per Fincher chiudere su un brevissimo e quasi subliminale inserto pornografico era un modo per ribadire l’iconoclastia anarcoide del film, nel piano sequenza che chiude Boogie Nights si legge solo l’arrendevole mestizia di un mondo già corrotto eppure ulteriormente immiserito dall’incedere degli anni, dalla plastificazione reaganiana, dalla perdita di definizione della tecnica.

Nel mettere in scena la morte del cinema hollywoodiano più oltraggioso e coraggioso – perfino nella sua variante più dichiaratamente commerciale e a uso e consumo “personale” come il porno – Anderson ricerca le coordinate di quello che fu il suo maestro ideale e concreto, Robert Altman. A morire ucciso dalle nuove potenzialità della produzione – una maggiore rapidità della realizzazione, grazie al super-VHS e a discapito della qualità della pellicola – non è solo il sogno d’arte di Horner, ma è l’intera utopia della New Hollywood, l’idea di poter riscrivere le regole dell’industria dall’interno senza diventarne complici e contemporaneamente vittime. Nel 1997, l’anno di uscita nelle sale di Boogie Nights, gli ultimi lacerti della Hollywood del tempo che fu ancora si aggiravano, come lo spettro marxiano, per il mondo: in quei dodici mesi vedono la luce oltre alla gemma di Anderson, Jackie Brown di Quentin Tarantino, Strade perdute di David Lynch, Contact di Robert Zemeckis, Will Hunting di Gus Van Sant, L’uomo della pioggia di Francis Ford Coppola, perfino La seconda guerra civile americana di Joe Dante, pensato per la televisione ma distribuito in sala in Italia. È l’estrema resistenza contro un mutare dei tempi che si farà sempre più aggressivo fino a raggiungere l’acme, e il punto di non ritorno, dopo l’attentato dell’11 settembre del 2001 alle Torri Gemelle di New York. In qualche modo c’è un limite non visibile che separa con nettezza le opere andersoniane pre e post attentato: prima c’è ancora il desiderio di non disperdere un afflato collettivo, per l’appunto altmaniano, un fiume temporale ed emotivo in cui lasciar andare alla deriva in completa libertà i detriti del postmoderno, la chiave d’accesso alla lettura à la Pynchon di una società survoltata. Ecco dunque Boogie Nights, anticipato da Sydney e seguito da Magnolia, che ne è la versione meno scorbutica e ancor più magniloquente. Dopo l’attacco terroristico la nevrosi che è già il punto focale della poetica di Anderson, insieme alla descrizione dell’America, perderà la sua dimensione corale per farsi spietatamente singolo. Il mondo di ognuno (Barry Egan in Punch-Drunk Love, Daniel Plainview in There Will Be Blood, Freddie Quell in The Master, Reynolds Woodcock in Phantom Thread, addirittura Larry ‘Doc’ Sportello in Inherent Vice, che pure nasce proprio dalle pagine di un romanzo di Pynchon) sarà escluso dalla società, tutto si farà più intimo – non sotto il profilo cinematografico, tutt’altro –, mentre il mondo perderà la messa a fuoco.

Proprio per questo ancora più urgente risulta tornare con la mente alla fine degli anni Novanta, quando la rappresentazione del ventennio precedente poteva ancora permettersi di utilizzare l’armamentario iper-pop senza per questo dover cedere alle lusinghe della patinatura. Anderson srotola il suo romanzo di formazione e deformazione lungo una narrazione di due ore e mezza, lavorando teoricamente su due elementi della messa in scena, il piano-sequenza e il fuori campo. Se il primo elemento dialettico gli consente di muoversi nell’habitat naturale del già citato Altman – ma anche in quello di Scorsese, che ammicca ripetutamente durante la sequenza del 31 dicembre del 1979, quando alla festa di fine anno Little Bill uccide la moglie fedifraga per poi spararsi in bocca – ragionando allo stesso tempo sul tempo, e sul suo peso effettivo, slegato dalla ritmica stordente del montaggio, il fuori campo è il mondo in cui viene territorializzato lo spazio. Lo spazio umano, certo, ma in particolar modo lo spazio visivo. Cos’è consentito vedere allo spettatore? Il perimetro dello sguardo del pubblico non è forse il primo elemento di censura, o di esibizione, di un’opera d’arte visiva? Per questo in quel finale che all’interno della disamina ha aperto tutto è necessario che il volto di Dirk Diggler esca dall’inquadratura, per lasciare finalmente spazio a quel secondo volto, all’oggetto del desiderio che nel film era stato riverberato solo ed esclusivamente nel controcampo, negli occhi strabuzzati di chi si trovava a tu per tu con il super-dotato, la divinità del porno. Il fuori campo, l’attesa dell’occhio, diventa dunque il buco della serratura che nella commedia sexy italiana permetteva allo spettatore di vedere ciò che era proibito, quello che gli sarebbe stato negato nella vita quotidiana. Nella scelta di mostrare il pene di Dirk, attorno al quale ruota in buona sostanza la narrazione del film, solo nell’inquadratura conclusiva, c’è anche la volontà da parte di Anderson di ribadire il ruolo del regista, quel ruolo svilito da un’industria sempre più alla ricerca del successo immediato, e facile, tanto nel porno quanto nella Hollywood moralmente accettata. In questo e per questo, insieme a Il petroliere, Boogie Nights sembra il film più politico, e a un tempo dolorosamente disilluso, dell’intera carriera di Paul Thomas Anderson.

Info
Il trailer italiano di Boogie Nights – L’altra Hollywood.

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