Sfida infernale
di John Ford
Sfida infernale è il primo western che John Ford dirige dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e il primo dai tempi de La più grande avventura (1939). Summa della dialettica sempre interna al suo cinema tra il progresso e le radici “americane”, è anche il film in cui si inizia ad avvertire con forza la nostalgica disillusione che troverà maggior corpo nei successivi Sentieri selvaggi e L’uomo che uccise Liberty Valance. Wyatt Earp, cui dona una splendida interpretazione Henry Fonda, è già la leggenda che supera la verità storica, ma lo sguardo dello spettatore è rubato (e turbato) da Victor Mature e dal suo Doc Holliday.
Essere o non essere
Wyatt Earp accetta la carica di sceriffo di Tomstone dopo che è stato ucciso uno dei suoi tre fratelli. Doc Holliday, uomo potente in città, viene arrestato da Wyatt per l’assassinio di James Earp, ma i due diventeranno amici dopo che la fidanzata indiana di Doc viene uccisa da un componente della famiglia Clanton. Allo scontro conclusivo all’OK Corral, Doc Holliday è schierato con Wyatt Earp e l’unico sopravvissuto dei suoi fratelli, contro i Clanton. [sinossi]
Abbeverarsi alla fonte di John Ford, un po’ come i cavalli assetati dopo una corsa nel deserto, è rinfrancante e permette di comprendere meglio non solo la poetica di uno dei più rilevanti registi della storia del cinema, ma anche di approfondire quel mondo mitizzato e in parte ancora misterioso – la dove la leggenda vince sulla verità – che è alle origini della società statunitense, anche quella contemporanea, o almeno in parte. Il viaggio nel cinema di Ford è un viaggio nell’immagine/immaginario, e allo stesso tempo un percorso a ritroso alle radici degli Stati Uniti, di un Paese selvaggio edificato pezzo per pezzo con selvaggia brutalità, eppure con la voglia disperata e matta di ricostruire la famiglia, il legame ancestrale con gli antenati. Scavando nel deserto si troverà per lo più roccia friabile e arena, ma con l’ostinazione con cui i personaggi di Ford attraversano anni, decenni per (ri)trovarsi magari vi si potrà rintracciare acqua zampillante. Vita, dunque, nel mezzo del nulla. E di lì la civiltà. Non è peregrino considerare Ford, alla stregua di Frank Capra, il più grande idealista del cinema classico hollywoodiano e per questo anche la figura più naturalmente attratta – di nuovo, come il collega italo-americano – dal New Deal rooseveltiano. Quell’idea di progresso attraverso la civiltà, e dunque attraverso l’istruzione delle masse e la forza del proletariato persiste nel cinema di Ford persino quando questo si fa più duro, meno malleabile, più umbratile e dimesso. Non è un caso, probabilmente, che sia Ford che Capra (quest’ultimo smetterà di far cinema prima di trovarsi invischiato nelle secche del riflusso del pensiero, e dunque della disillusione: eppure in controluce il finale di Angeli con la pistola suggerisce l’idea di un’illusione perpetua e tragicamente inevitabile per potersi permettere la vita) siano “nuovi americani”: il secondo addirittura mise piede a New York solo a 5 anni, dopo essere nato e cresciuto a Bisacquino, una settantina di chilometri da Palermo. Ford invece nacque a Cape Elizabeth, nel Maine, il 1º febbraio del 1894, ma entrambi i suoi genitori (John Augustine Feeney e Barbara Curran) era emigrati dall’Irlanda appena un ventennio prima. Il nuovo come portatore di civiltà è un elemento imprescindibile per avvicinarsi alla “questione fordiana” e approfondirne i temi. Nel 1965 Ford rilasciò un’intervista celeberrima, nel corso della quale permise attraverso aneddoti e opinioni di cogliere con maggiore esattezza il suo pensiero, o per meglio dire il pensiero che contraddistinse gli ultimi anni della sua vita. In un passaggio, parlando delle sue origini familiari, afferma: «Io sono un uomo del proletariato. Vengo da una famiglia di contadini. Sono venuti qui e hanno ricevuto un’istruzione. Hanno bene meritato di questo Paese. Io amo l’America». Pochi anni prima, in un’altra occasione, aveva invece detto «Amo l’aria aperta, i grandi spazi, le montagne, i deserti. Il sesso, l’oscenità, la degenerazione sono cose che non mi interessano. Mi piace assaporare il profumo onesto dell’aria aperta». Si tenga alla mente quest’immagine conclusiva, quel profumo onesto dell’aria aperta, e si torni a My Darling Clementine, conosciuto in italiano con il titolo Sfida infernale.
Nella splendida fotografia in bianco e nero lavorata da Joseph MacDonald (fedele sodale di Henry Hathaway, Elia Kazan e Samuel Fuller, qui sull’unico set condiviso con Ford) Sfida infernale si apre sullo scenario naturale del John Ford Point nella Monument Valley: ma ecco che un bufalo si fa spazio nell’inquadratura, e dopo di lui un’intera mandria guidata da cowboy. L’uomo irrompe nell’aria aperta e vi porta uno strumento razionale come l’allevamento, lo spostamento ordinato di bovini alla ricerca di erba da brucare. L’uomo non fa parte di quello scenario millenario, ma può arrivare a invaderlo se ne rispetta il “profumo onesto”. L’odore è uno dei tratti distintivi di Sfida infernale, e anche il Wyatt Earp interpretato da Henry Fonda si troverà a essere “annusato”, perché l’utilizzo di profumo sancirà la dismissione di una natura errabonda e l’ingresso definitivo nel campo sociale moderno, dove svolgerà addirittura il ruolo dirimente di arbitro della legge. Bastano dunque una serie di inquadrature, per quanto maestose, a ricondurre lo spettatore verso il primo dei molti duelli che si succederanno nel corso del film: i sentieri selvaggi sono lì, ma l’uomo ha il diritto, e forse il dovere, di spingersi verso la civiltà, verso un progresso personale e collettivo. Dopotutto mentre si snodano i distici di Oh My Darling Clementine (“You were lost and gone forever | Dreadful sorrow, Clementine”…) i titoli di testa sono apparsi come fossero scritti su indicatori geografici, per permettere di trovare la strada nel deserto. Di non perdersi. Regista fortemente morale, con qualche accenno di moralismo che lui stesso combatte con forza in ogni film, Ford affronta di petto una delle figure chiave del Vecchio West, quel Wyatt Earp che ebbe addirittura modo di conoscere quando ancora non era regista ma si dava da fare sui set dei western, nei primi anni Dieci. Per quanto rivendichi una veridicità facilmente smentita dalla Storia, Ford si relaziona all’Earp di Henry Fonda come un oggetto mitico, un Übermensch che si erge al di sopra delle miserie umane, sa ricacciare indietro i demoni della vendetta pura, o della lascivia erotica – la sua relazione con la maestrina Clementine è del tutto pudica, asessuata – per riportare ordine ma soprattutto giustizia. Sempre nel 1965 di Earp Ford ebbe a dire «Abbiamo avuto torto nel trasformare in eroi banditi come Billy the Kid, che era di incredibile ferocia e brutalità, anche se è vero che la legge e l’ordine furono imposti da delinquenti rinsaviti ai quali era stato affidato l’incarico di sceriffo. Uomini come Wyatt Earp, per esempio, avevano del fegato. Non avevano bisogno di servirsi dei revolver. Era sufficiente lo sguardo. Dominavano con il prestigio di cui godevano e con la personalità. E poi avevano fortuna…». Torna dunque preponderante il concetto di uomo che si risolleva da una propria condizione di delinquenza per evolversi, per progredire, per divenire accettabile nella società, rinunciando semmai anche all’uso delle armi. Non è casuale dunque che Clementine sia una maestra, una figura preposta dalla società ad adempiere a un ruolo fondamentale: l’istruzione. In una città senza sceriffo, come la Tombstone che trovano i fratelli Earp – lasciando da solo con la mandria il povero James, che verrà ucciso dai Clanton, si può portare l’ordine (la stella cucita al petto di Earp) ma nulla progredirà davvero fino a quando non ci sarà una scuola. Anche per questo alla fine Tombstone può fare a meno del suo sceriffo, che come ogni eroe crepuscolare che si rispetti si allontana al tramonto, ma non della maestra.
Non ha scritto male chi ha ravvisato, proprio a causa della figura semi-divina di Fonda, la centralità dello sguardo di Ford sul Doc Holliday di Victor Mature, al quale viene perfino concessa la morte redimente, e dunque salvatrice perché purificatrice, nel corso del duello finale: la verità storica racconta come l’uomo afflitto da cirrosi epatica morirà solo alcuni anni più tardi, ben distante dalle gesta dell’OK Corral. Mature tratteggia un uomo malato e rancoroso, geloso e insicuro, eppure così straordinariamente umano da saper trarre forza proprio da tutte queste debolezze: la sua relazione burrascosa con Chihuahua, la meticcia donna “da saloon” per la quale getta alle ortiche il rapporto con la fidanzata Clementine, che l’ha raggiunto nella cittadina polverosa proprio allo scopo di redimerlo (ma per quello solo la strumento della Morte può essere adeguato nello schema fordiano dell’epoca), è molto più vibrante, sincera e umana di quella tra la stessa Clementine, oramai scaricata, e lo sceriffo. E per quanto a Ford, per sua stessa ammissione, il sesso non interessi (e anzi possa fungere addirittura da elemento per determinare la vita o la morte dei personaggi), lo sguardo febbrile di Doc è quello su cui si concentra l’occhio dello spettatore, perché trova materiale carnale da indagare, e attraverso il quale indagarsi. Perché l’arte ha il dovere di costringere l’uomo a porsi degli interrogativi, e al tempo stesso ha il compito di elevarlo al di sopra della più meschina bestialità, e a confermare ciò è sempre Ford, che costruisce (la sceneggiatura è scritta a quattro mani da Samuel G. Engel e Winston Miller) una sequenza destinata a entrare nella storia del cinema: i banditi tengono in ostaggio un vecchio attore teatrale, Granville Thorndyke – i destini di Alan Mowbray e John Ford si erano già incrociati ai tempi di Maria di Scozia, nel 1936, e si ricongiungeranno nel 1950 per La carovana dei mormoni –, e lo costringono a recitare il monologo di Amleto. L’uomo però interrompe il monologo, che viene portato a termine da Doc, che sopperisce alla mancanza di memoria dell’attore (in città per dare vita a uno spettacolo assai meno impegnativo, in realtà): “Chi vorrebbe portare pesi, per imprecare e sudare sotto una faticosa vita, se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che volare ad altri che non conosciamo? Così la coscienza fa dei codardi di noi tutti…” e qui si interrompe anche Doc, colpito dalla terribile tosse che lo tormenta. “Non sai cantare o ballare?” aveva chiesto uno dei banditi stanco di quell’inglese arcaico. Ma l’arte non è fatta necessariamente per divertirsi, permette di comprendere la vita o di anticipare, come nel caso di Doc, il destino di morte. L’arte è anche un elemento condiviso, collettivo, che si può passare di bocca in bocca, tramandare. Una civiltà.
C’è in Sfida infernale ovviamente anche l’eterno conflitto tra Est e Ovest, tra società civile e wilderness, tra costruzione del moderno e contemplazione dell’antico. Questo duello è di nuovo tutto nella dinamica tra Clementine e i due uomini protagonisti. Lei viene dall’Est, e porta la saggezza di un mondo europeo che ha compiuto studi e ha costruito sulla natura. Loro, in un modo o nell’altro, sono l’incarnazione di un Ovest selvaggio, caldo e desertico, ostile eppure meraviglioso, salvatore e assassino a un tempo. L’uno, Wyatt Earp, risolleverà se stesso in una posizione dapprima sociale e dunque morale. L’altro, Doc, andrà verso la rovina definitiva ma la raggiungerà attraverso lo scatto di nobiltà di chi accetta che il fato si compia solo alle proprie condizioni. Non è la malattia alla quale (si) è condannato, a ucciderlo, ma un proiettile. Ma ora che il moderno è arrivato, e Doc e i Clanton sono materiale per i libri di storia, non c’è più neanche posto per Earp, che deciderà di cavalcare e di vagare finché ancora gli sarà possibile. La disillusione fordiana è anche solo in questo, nell’impossibilità concreta di risolvere il dualismo tra libertà e società, tra individuo e collettivo. Sarà dapprima Sentieri selvaggi e quindi L’uomo che uccise Liberty Valance a determinare una volta per tutte l’impossibilità degli Stati Uniti di mantenere le proprie radici nel west, o per meglio dire nella supposta idea di purezza del west. John Ford, nonostante tutto, riuscirà ancora ad «assaporare il profumo onesto dell’aria aperta», ma sarà l’ultimo in grado di farcela davvero.
Info
Sfida infernale, il trailer.
- Genere: western
- Titolo originale: My Darling Clementine
- Paese/Anno: USA | 1946
- Regia: John Ford
- Sceneggiatura: Samuel G. Engel, Winston Miller
- Fotografia: Joseph MacDonald
- Montaggio: Dorothy Spencer
- Interpreti: Alan Mowbray, Cathy Downs, Don Garner, Grant Withers, Henry Fonda, J. Farrell MacDonald, Jane Darwell, John Ireland, Linda Darnell, Roy Roberts, Russell Simpson, Tim Holt, Victor Mature, Walter Brennan, Ward Bond
- Colonna sonora: Cyril J. Mockridge
- Produzione: 20th Century Fox
- Durata: 97'