Intervista a Erik Matti
In Italia è un regista cult grazie al Far East Film Festival che ha presentato tanti suoi lavori. Fautore di un cinema artigianale, il filippino Erik Matti ha esplorato tanti generi cinematografici, l’horror, il fantasy, l’action, il supereroistico. Con On the Job: The Missing 8, sequel di On the Job, presentato nel 2013 alla Quinzaine des Réalisateurs, confeziona un’opera che si inserisce nel solco classico del cinema sul giornalismo.
Erik Matti ci ha ricevuti nella sua stanza all’hotel Excelsior durante Venezia 78, dove il film è stato presentato in concorso.
In On the Job: The Missing 8 sembra che i media che hanno maggior influenza sulla nostra vita siano ancora quelli tradizionali, il giornale cartaceo e la radio. Tutto ruota attorno alla redazione del primo e allo studio della seconda, nonostante i nuovi media siano ben presenti, si parla per esempio di scandali che diventano virali. Si tratta della realtà filippina, oppure hai voluto ricreare le atmosfere dei grandi classici film sul giornalismo, come Park Row o Tutti gli uomini del presidente?
Erik Matti: Quando abbiamo deciso di mettere il giornalismo come elemento portante della trama abbiamo iniziato a fare ricerche a 360 gradi. Abbiamo preso in considerazione i social media come Facebook, e anche i network televisivi come quello nazionale. Però man mano che andavamo più a fondo ci siamo avventurati nel giornalismo delle piccole città, e abbiamo trovato qualcosa di interessante che poi è diventato centrale nel film. Si tratta di queste figure, quei giornalisti delle piccole cittadine che non sono ben pagati e quindi, per sopravvivere, diventano i portavoce del sindaco o di chi è al potere. Quando questo accade smettono di essere giornalisti, pian piano si dimenticano di fare quello che è giusto, di cercare la verità, di fare giornalismo investigativo. Insomma diventano celebrità locali per cui è comodo essere amichevoli con chi è al potere. Quando lo abbiamo scoperto abbiamo pensato – siccome sapevamo già nella trama sarebbero scomparse otto persone –: «E se il protagonista è qualcuno che non è più un giornalista di rispetto ma che, con questo evento, cioè la sparizione che coinvolge anche i suoi colleghi, ritrova sé stesso come era prima di diventare un giornalista pagato, un finto scrittore?». Se guardi la mia filmografia è sempre tutta diversa, non mi fisso su un solo tipo di film. Questo principalmente perché io stesso sono un grande cinefilo e nella mia carriera da regista voglio provare a realizzare tutti i tipi di film che mi sono rimasti impressi. Qui volevo stare sulla linea di Insider – Dietro la verità, Tutti gli uomini del presidente, quel genere dinamico e investigativo dove c’è un informatore. Il primo film On the Job si ispirava a Jean-Pierre Melville e Johnnie To, con la criminalità diffusa, dove la morale scompare. Non volevamo realizzare un sequel come quelli di Mission: Impossible, che ogni volta ha un titolo diverso ma il contenuto è sempre quello. Per il sequel abbiamo valutato di aver già parlato della storia dei prigionieri portati fuori dalla prigione per fare i sicari, quindi questa volta abbiamo voluto focalizzarci su altro. E abbiamo deciso di parlare del giornalismo e di come questo sia coinvolto nel tessuto sociopolitico.
Adoro le musiche della colonna sonora, che creano dissonanza e contrappuntano le scene che accompagnano, come alcuni momenti nella prigione. Così esci dagli schemi classici del cinema. Come hai scelto i pezzi musicali, tra i quali anche una versione filippina di Bella Ciao?
Erik Matti: Il film, come abbiamo detto, riprende lo stile dei thriller americani degli anni Settanta. Ritraiamo i politici come gangster. Non sono come Vito Corleone o Ace Rothstein, qui si tratta di quelle persone al governo e attorno a questo ho costruito tutta l’estetica del film. Visivamente è come essere introdotti in un nuovo mondo ogni volta, seguendo una lunga carrellata che esplora il luogo in relazione ai personaggi. Il background deve essere in relazione ai personaggi. Anche la colonna sonora da un lato rientra negli standard americani, con Frank Sinatra e Tom Jones, ma mi piace molto anche usare l’ironia. Non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che ho usato la musica per accompagnare semplicemente l’emotività di quello che viene espresso nelle scene, ad esempio se c’è una madre che saluta il figlio anche la musica lo comunica. La maggioranza delle musiche che utilizziamo ora funziona come elemento di contrasto rispetto a quando è mostrato nella scena, aggiungendo un livello di lettura. Una scena particolare della quale ho amato il montaggio è quella dove usiamo Green Green Grass of Home. Molti nelle Filippine non la conoscono, ma Green Green Grass of Home parla di morte. C’è quest’uomo che torna a casa, nella sua città, ma è un sogno, lui è un condannato a morte, in realtà è un fantasma. È la stessa situazione di questi due protagonisti nel film che hanno esperienza forse della morte ma non ne sono sicuri, di alcune persone che forse sono ancora vive. Per cui il giornalista sogna il suo collega scomparso e il detenuto, in cella dopo la tortura, vede la ragazza che segretamente ammira, anche lei torturata. Tutto ciò è in accordo alla “crime mafia music” americana. Ma il film riguarda anche la rivoluzione. Ecco perché c’è anche Bella Ciao che è una canzone di protesta. C’è poi una vecchia canzone filippina che si sente tutta quando il protagonista parla con la farfalla in casa e poi in quel momento si sente la musica. Il titolo è Anak Dalita, che significa “figli della povertà”. È una canzone di protesta filippina e funziona bene nel film in contrapposizione con l’America, e allo stesso tempo dà una base, non è qualcosa di completamente estraneo.
La vicenda delle persone scomparse, centrale nella prima parte del film e già nel titolo, viene collegata con i desaparecidos della legge marziale e della dittatura di Marcos. Usi a tal proposito delle immagini di repertorio molto forti. Perché era importante questo collegamento e perché dare questo forte contenuto politico proprio ora?
Erik Matti: Quelle immagini delle vittime sono reali. Credo che quello che abbia portato la lunghezza del film a 3 ore e 28 minuti è il fatto che ci concentriamo sulla scomparsa di otto persone e da lì portiamo alla luce quello che davvero non va nel Paese mediante quell’evento. Così si rivela il marcio nel corpo di polizia, nella struttura politica, nel sistema attuale. Nel film c’è un promemoria costante sul perché siamo qui. Questo perché ce ne dimentichiamo sempre, e non bisogna mai dimenticare. Ecco perché quel segmento sulla dittatura di Marcos, con immagini di repertorio, è stato posto in mezzo al film. Così diamo una prospettiva che accenna a quell’epoca. Tutto quello che sta succedendo con gli otto scomparsi, e con tutti gli altri personaggi che stai osservando, deriva da un ciclo per cui nessuno paga per i propri crimini, nessuno viene scoperto o ammette i propri crimini, non c’è responsabilità o punizione, tutti sono perdonati. Insomma è sempre un ciclo e la ragione per cui questo film esiste è perché viviamo in un periodo particolare nella storia delle Filippine che rimanda agli anni Settanta. Abbiamo scoperto solo l’altro giorno che il figlio di Marcos, che si vede nel footage, si è nuovamente candidato come presidente quest’anno. [ride, N.d.R.]
Ma il fatto è che metti la denuncia dell’epoca della dittatura, proprio in bocca al senatore, il figlio del sindaco, che si rivelerà lui stesso un corrotto. Sembra che non ci siano punti di riferimento.
Erik Matti: Esattamente. Come puoi risolvere qualcosa quando tutti sono corrotti? In pratica puoi essere il tizio in prigione che vuole semplicemente tornare a casa e pensa «voglio solo tornare a casa, non voglio scoprire la verità o trovare una soluzione», oppure puoi essere il tizio che vuole scoprire la verità ma lui stesso proviene da quella realtà. [ride, N.d.R.]