C’è un soffio di vita soltanto

C’è un soffio di vita soltanto

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Matteo Botrugno e Daniele Coluccini tornano alla regia a quattro anni di distanza da Il contagio con C’è un soffio di vita soltanto, documentario che posa lo sguardo su Lucy, la donna transessuale più anziana d’Italia. Il lavoro con lei e su di lei diventa anche l’occasione per parlare della violenza dell’uomo, dell’identità, della vecchiaia, della totale indifferenza della natura, dell’assenza di Dio e in un ultimo della pandemia. Un’opera dolorosissima e stratificata, che non perde mai di vista l’umano pur nell’ambizione di guardare all’universale. Nel fuori concorso del Torino Film Festival.

Solo animali sulla Terra

Lucy ha 95 anni, nella sua casa le foto ingiallite dal tempo raccontano l’adolescenza di un ragazzo che all’epoca si chiamava Luciano e stava per vivere il periodo più terribile della sua vita. Lucy è la donna transessuale più anziana d’Italia, una dei pochi sopravvissuti al campo di concentramento di Dachau ancora in vita. Con la sua vita Lucy racconta la storia del ’900. Gli eventi di un’esistenza turbolenta diventano la metafora di un’umanità che non si arrende e fa tesoro del più grande dono della Storia: la memoria, unico e imprescindibile punto di partenza. [sinossi]

«Dio non c’è, siamo solo animali sulla terra». Si può partire anche da qui, dalla fine di un film che si apre a una riflessione sulla fine del mondo, della Storia, della vita. C’è un soffio di vita soltanto, lo ripete per sicurezza anche il titolo di questa nuova avventura dietro la camera per Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, che a distanza di quattro anni da Il contagio tornano alla regia con un lavoro documentario che in qualche modo sembra trattenere al proprio interno molte delle speculazioni già rintracciabili nei loro lungometraggi di finzione. C’è un soffio di vita soltanto, forse l’ultimo per Lucy (il titolo è tratto da un verso di una poesia che scrisse da bambina), nata Luciano e più anziana transessuale d’Italia : è la sua vita, la vita di una donna che ha attraversato il Novecento nelle sue dinamiche più brutali, selvagge e inaccettabili, il centro dell’obiettivo. Lei, che ora a quasi cento anni può trattenere su di sé il peso dell’intero mondo, del suo significato, del senso stesso dell’esistenza. Lei che è ancora autonoma, come è sempre stata, e che vorrebbe solo riconnettersi alla sua memoria. Perché tra le altre mille peculiarità di un’esistenza vissuta sempre a perdifiato, Lucy è anche una delle poche sopravvissute al campo di concentramento e sterminio di Dachau. Cos’è l’umano, sembrano chiedersi Botrugno e Coluccini ? In che modo lo si rintraccia, dove e quali strumenti esistono per misurarlo ? Eppure, per quanto possa apparire sorprendente, non è l’esperienza di Dachau a tratteggiare con maggior forza il film in direzione di un dolore sempre più palpabile, quasi fisico pur nell’immateriale potenza dell’immagine. C’è un soffio di vita soltanto vibra, oltre che della vita fuori da ogni norma di Lucy, di un disagio persistente, che riguarda non la protagonista, splendida nel suo fulgore e nella sua convinzione, ma l’esistenza in quanto tale. «Dio non c’è, siamo solo animali sulla terra», quasi un manifesto programmatico, l’incipit sublime di possibili cahiers de doléances. «Dio non c’è, siamo solo animali sulla terra», animali alla ricerca di un proprio senso superiore, e per questo spinti ancora un passo avanti. Lucy, che da piccola ha subito molestie da un prete e ben presto si è ritrovata a vivere come prostituta, per poi finire in un campo di sterminio e riuscire a uscirne viva, è l’esempio di una donna che non si è mai persa, neanche di fronte alle domande su se stessa, sulla propria identità, sul ruolo da interpretare per potersi considerare vera.

Si parte da Dachau e si arriva a Dachau : la prima però è solo ricordata, contenuta nelle memorie di Lucy e in quella lettera in cui si invita la donna a partecipare alle commemorazioni della liberazione del campo di sterminio. Una commemorazione che non potrà avvenire però, perché di lì a poco arriva la diffusione del COVID-19, i lockdown, le restrizioni agli spostamenti, il divieto di assembramento, in Germania come in Italia. Può restare solo la memoria, dunque, o l’atto singolo come quello che spingerà la donna a recarsi da sola alle porte del campo, dove troneggia la scritta Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Non c’è nulla, per Botrugno e Coluccini, che liberi invece l’umano dalla sua condizione subalterna nei confronti della natura. Con piglio leopardiano, i due registi riflettono sull’assenza di Dio, sulla natura come elemento del tutto disinteressato all’umano e alle sue condizioni. Per questo gli unici momenti in cui ci si distacca da Lucy e dalla sua vita riguardano filmati di repertorio che immortalano vari momenti delle fasi naturali : l’eclissi di sole su cui si apre il film, per esempio ; la formazione dell’embrione; le eruzioni vulcaniche, e via discorrendo. Tutti processi naturali che nulla hanno a che vedere con la complessità dell’esperienza umana, le sue contraddizioni, la sua intrinseca tragedia.

Lucy è una resistente, di fronte a tutto e a tutti: lo è stata di fronte alla società, ribadendo la sua femminilità in un mondo che la vedeva e apostrofava come “maschio”. Lo è stata di fronte alla Storia, mentre sulla carrucola trasportava vivi e morti verso i forni crematori costruiti dal sistema nazista. Lo è stata di fronte alla vita stessa, aggrappandosi a essa senza mai lasciarla. Lo è infine di fronte alla stessa idea stantia di commemorazione. Per lei non c’è bisogno di un cerimoniale per giustificare una memoria, e questo la spinge a raggiungere comunque la Germania, e a raccontare in modo così aperto, perfino brutale, se stessa, la sua storia che è la storia di un Paese di fascisti e cattolici. Una storia di negazione dell’identità che si può e si deve ancora combattere. In questo contesto la pandemia diventa quasi secondaria, una malattia della natura ma non dell’umano, che ha invece storture ben più radicate e profonde da esprimere. Botrugno e Coluccini entrano profondamente nel film, lo permeano anche della loro presenza puramente dialettica, e se nella lunga parte in cui l’anziana donna è in casa, con amici e vicini che la vanno a trovare, imperano primi piani e campi stretti, in quel finale in esterni di fronte al campo di concentramento lo sguardo si fa larghissimo, profondo, lungo a seguire un essere umano che ha ancora la forza di incamminarsi contro l’immobilità del Tempo, e della Storia. In quell’inquadratura c’è la forza di un pugno in pieno volto allo spettatore ignavo, un risveglio di primavera che contiene al proprio interno una profonda riflessione morale, etica e politica anche sul significato di “fare cinema”.

Info
C’è un soffio di vita soltanto sul sito del TFF.

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