The Northman

The Northman

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The Northman, terzo lungometraggio di Robert Eggers dopo The Witch e The Lighthouse, conferma le ambizioni autoriali del regista, che qui si lancia nella rilettura della vicenda di Amleto prendendo però spunto dal testo medievale di Saxo Grammaticus. Una sinfonia di sangue e carne, che vorrebbe trovare il punto di connessione tra il fantasy à la Robert Ervin Howard e un cinema distante dal mainstream. Non si può dubitare del talento visivo di Eggers, ma l’impressione è che il suo sguardo si innamori a tal punto dell’immagine da lasciare degli spazi vuoti nel racconto.

La brevità è l’anima del senno

Dopo che suo padre, il re, viene ucciso da suo fratello, un principe vichingo di nome Amleth fugge dal suo regno, giurando di tornare e vendicarsi. Anni dopo, l’ormai corpulento Amleth scopre che il suo zio assassino ha perso il suo regno e ora è un signore feudale. Amleth si finge uno schiavo per vendicarsi, ma deve decidere cosa fare di sua madre e del suo giovane fratellastro. [sinossi]

Il baluginio del fuoco nella notte, il sapore del sangue tra i denti, il rompersi fragoroso delle ossa, l’avanzare nel fango, l’ululato del lupo e il ruglio dell’orso pronto a lanciarsi sulla preda. Il focolare domestico che può avvampare, diventando rogo e portando con sé morte, distruzione, annientamento della linea genetica. Difficile, molto difficile, rimanere indifferenti di fronte allo strapotere visivo di The Northman, terza avventura cinematografica per il trentottenne Robert Eggers, che per la prima volta può confrontarsi con un budget all’altezza delle sue notevoli ambizioni. Dopo aver esordito con un racconto stregonesco che affondava le radici in quello che lo stesso cineasta definiva “A New England Folk-Tale” (The Witch), ed essersi confrontato con una versione drogata e paranoide de La ballata del vecchio marinaio di Coleridge (The Lighthouse), Eggers torna indietro nel tempo, fino all’epoca delle scorribande norrene tra i Rus’ – involontariamente andando a sfiorare un argomento che è assai centrale nelle tragiche vicende ucraine di oggi –, per confrontarsi con il mito di Amleto nella sua forma forse primigenia, quella che donò alla storia del principe reso celebre da William Shakespeare il letterato danese Saxo Grammaticus nel suo fondativo Gesta Danorum. Di nuovo dunque il giovane regista statunitense cerca di riannodare i fili della narrazione moderna; di nuovo dunque si indaga la radice della fabula, e il significato dell’archetipo. Per questo, con ogni probabilità, Eggers ricorre sempre nei suoi titoli nell’articolo determinativo: la strega, il faro, l’uomo del nord. L’articolo determinativo è assertivo, non concede spazio al dubbio, è basico. Nel New England puritano non esiste una strega, ma la strega. Non è interessante che nel mezzo del mare vi sia un faro, ma che quello e quello soltanto sia il faro. E così potranno esistere molti uomini che vengono da nord, e che al “nord” appartengono (e il film li mostra, e pur senza raccontarli – sulla semplificazione della scrittura dei personaggi si tornerà più avanti), ma solo uno è davvero l’uomo del nord. È come se Eggers fosse intenzionato a riscrivere, in un’epoca cinematografica che pare in posizione di retroguardia per quel che concerne il racconto epico, la mitopoiesi dell’immagine.

Ecco dunque che l’immagine diventa il senso di ogni cosa: certo, c’è una narrazione ad accompagnare il flusso visivo, ma si tratta di un semplice orpello, che rimanda al modello, al prototipo del racconto stesso. Un ragazzo vede il padre ucciso dal di lui fratello che sposa poi la madre (“un po’ più nipote e men che figlio”, sintetizzerà l’Amleto shakespeariano), e giura eterna vendetta. Nulla di più di questo. È così evidente però che il meccanismo narrativo serva solo a sprigionare la voglia visionaria del regista che ogni elemento aggiuntivo appare forzato, ed entra a far parte dell’insieme senza che ci sia alcuna intenzione di svelarne un eventuale significato nascosto, o non immediatamente percepibile. Tutti i personaggi, a partire proprio dal protagonista, diventano mere funzioni, atte a costruire un percorso “accettabile” per il pubblico mentre sullo schermo Eggers dà sfogo a tutte le proprie pulsioni scopiche. È come se Valhalla Rising, splendente esempio di immersione nel mondo norreno con cui Nicolas Winding Refn arrivava a omaggiare perfino One Armed Swordsman di Chang Cheh venisse preso a modello, ma si pretendesse dalla sua semplicità abbacinante la capacità di intrattenere il pubblico di ogni tipo. La sfida lanciata da Eggers è dopotutto densa di fascino: può un cinema di nicchia, che si muove per dinamiche puramente “sensitive” (la vista, l’udito, così portati all’estremo da mandare stimoli addirittura all’olfatto, al punto da percepire quasi l’odore del sangue) diventare veicolo per il grande pubblico? Può l’indie americano che guarda al folk-horror trasformarsi nel nuovo blockbuster? Difficile immaginarlo, ma di certo non si può non apprezzare la voglia di Eggers di ragionare con il grande pubblico costringendolo però al sangue, alla notte, al dolore fisico, al disturbo uditivo. D’altro canto in questa sfida si avvertono non pochi sbilanciamenti: dov’è, di nuovo, la psicologia dei personaggi? Cosa li muove, al di là della mera esibizione di categorie “facili” quali vendetta, gelosia, brama?

Amleto è il racconto dell’impossibilità dell’umano di confrontarsi davvero con il potere politico, con il “compromesso”, senza perdere la propria identità, il proprio senno. È il racconto di come la foga vendicativa sopravanzi ogni altra speculazione, fino all’annientamento. A Eggers tutto questo sfugge, o con ogni probabilità non interessa: il suo The Northman è una ripresa del muscolare fantasy à la Robert Ervin Howard intrisa di ambizione autoriale, una versione arthouse di Conan il barbaro. Anche per questo però manca al regista la visceralità necessaria per affrontare una materia così complessa: Eggers vuole il fantasy, ma pretende l’antropologia culturale; vuole l’epica, ma la svuota del senso dei personaggi; vuole la furia visionaria del berserker ma si arrampica in una storia d’amore che sembra servire solo a preservare la filogenetica. Il talento visivo non è in discussione, così come appariva evidente già dalle precedenti regie, ma si continua a percepire una mancanza di senso profondo, quasi la montagna stesse partorendo il proverbiale topolino. Un accumulo di straordinaria potenza visionaria che deflagra sullo schermo ma non sedimenta. In fin dei conti il sogno/visione finale di Amleth è il medesimo di Eggers, quello di aver superato la fase barbarica e di essere evoluto, nonostante tutto. Nelle fornaci di un inferno di cui conosce ogni sobbollire del magma, Eggers sa ancora come muoversi, in un caos visionario primigenio, palingenetico; in quel rutilare di arti e viscere c’è però l’umano, e il regista ancora non sa come maneggiarlo, quali mansioni attribuirgli, in che modo stratificarlo. Questo agone produce The Northman, creatura affascinante e incompiuta, devastante ma semplice, pronta a scatenare la disfida della “nuova” critica sempre più medievale nella sua frusta divisone tra “idolatri” e “oppositori”. Servirebbe un Saxo Grammaticus moderno per raccontarla.

Info
Il trailer di The Northman.

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