La corsa dell’innocente

La corsa dell’innocente

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La corsa dell’innocente di Carlo Carlei all’epoca della sua presentazione a Venezia venne guardato con un po’ di sospetto da parte della critica, accusato di essere troppo “americano”. In pochi si resero conto che si trattava anche di un passaggio di consegne ideali, tra Franco Cristaldi, qui all’ultima produzione della sua quarantennale carriera, e Domenico Procacci.

Il passaggio di consegne

Dopo aver effettuato un agguato mortale, un popolano rientra in casa come se non fosse responsabile della morte dei due giovani pastori da lui crivellati a colpi di lupara, e si reca a posare il fucile in granaio, osservato a sua insaputa da Vito, uno dei figli, appena dodicenne. L’uomo siede a cena imperturbabile con la famiglia. Ma l’indomani, mentre è occupata a stendere il bucato, sua moglie cade a sua volta sotto i colpi di lupara di sconosciuti, mentre Vito, spaventatissimo, si appiattisce sotto un letto, fra la rete e i ferri ai quali è assicurata, sfuggendo così alla sparatoria che annienta in pochi minuti tutti i familiari presenti. Ritornata la calma, Vito si allontana cauto dal suo provvidenziale nascondiglio, rendendosi conto, all’estremo del terrore, di esser l’unico sopravvissuto della famiglia. [sinossi]

Per affrontare un pur breve excursus critico su La corsa dell’innocente può essere utile partire da una data specifica, il 26 marzo 1990. Quel giorno – in Italia era notte fonda – Nuovo Cinema Paradiso ricevette a Los Angeles il Premio Oscar destinato al miglior film straniero, prima statuetta per la produzione nazionale dalla vittoria di Federico Fellini con Amarcord nel 1975: la crisi del cinema italiano che aveva contraddistinto gli anni Ottanta parve per una notte più lontana, una sensazione che si sarebbe rinnovata due anni più tardi, quando nel 1992 a vincere l’Oscar sarà Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Amarcord e Nuovo Cinema Paradiso sono due produzioni di Franco Cristaldi, ma se nel primo caso è ovviamente Fellini a guidare la mano del produttore, il film di Giuseppe Tornatore molto, moltissimo deve al lavoro di Cristaldi, alle sue intuizioni, alla sua caparbia volontà di non lasciar cadere nel vuoto un film che sembrava destinato al fallimento, tanto commerciale quanto di critica. Non è questa la sede per approfondire le incredibili vicissitudini che accompagnarono l’intero iter produttivo di Nuovo Cinema Paradiso, ma è indubbio che la sorprendente vittoria nella serata dei premi più famosa del mondo (dove sbaragliò una concorrenza invero non particolarmente agguerrita, visto che eccezion fatta per Jésus de Montréal di Denys Arcand gli altri titoli candidati non hanno lasciato molta traccia di loro stessi nel corso degli anni) svolse un ruolo non indifferente nella percezione che il cinema italiano aveva di sé nel caracollare verso la fine del millennio. E non è certo casuale che ci fosse una figura come Cristaldi dietro un’impresa simile, colui che forse più di ogni altro in Italia aveva compreso il valore di un cinema che riuscisse a essere nazionalpopolare e autoriale, semplice e politico allo stesso tempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con La corsa dell’innocente? Non è improbabile che nell’approcciarsi alla produzione Cristaldi abbia visto nell’esordio al lungometraggio di Carlei la possibilità di replicare il successo del film di Tornatore. Un regista del sud semi-sconosciuto da lanciare sul grande circuito, che abbia intenzione di confrontarsi con la propria “terra” (la Sicilia per Tornatore, la Calabria per Carlei), e che lo faccia però attingendo tanto dalla tradizione italiana quanto e ancor più dalla messa in scena statunitense, dai suoi ritmi di narrazione, dalle sue tecniche. Di questo d’altro canto venne “accusato” Carlei da quella parte della critica che guardò con sospetto il suo esordio – poco meno di un decennio prima Carlei era stato uno dei registi di Juke Box, bizzarro e non completamente riuscito esperimento collettivo che aveva visto al lavoro tra gli altri anche Valerio Jalongo, Antonello Grimaldi, e Daniele Luchetti –, l’aver in qualche misura dirazzato dalle radici italiane, aver cercato di emulare Hollywood. Un’accusa non dissimile da quella che un decennio più tardi marchierà a fuoco anche Gabriele Muccino, non a caso un cineasta che esattamente come Carlei ha saputo costruirsi una carriera credibile dall’altra parte dell’oceano (ma su questo punto si tornerà più avanti, in conclusione di analisi). Di fronte a La corsa dell’innocente storse il naso una critica che mal digeriva “steadycam, flying camera, dolly, riprese in deltaplano”, quasi fossero testimonianza di una mancanza di sguardo, o di uno sguardo troppo semplice perché spettacolare. Certo, non manca di ridondanze la regia di Carlei, ma si tratta di una retorica voluta, ricercata, del superamento dei vincoli di realismo del cosiddetto “cinema sociale” a favore di una narrazione non priva di lirismi favolistici.

Carlei tratta la sua vicenda tragica e violentissima come una fiaba, un viaggio tanto nell’inconscio quanto nell’inconsapevolezza (il suo protagonista è un semi-analfabeta, e non ha alcuna capacità di comprendere davvero il mondo che lo circonda), e lo fa ricorrendo a tutto l’armamentario d’immaginario che può sostenerlo in questo percorso. Il suo percorso è diritto, afferma che la vittima di un sistema di violenza non può che nascondersi e fuggire per tutta la vita, perché non esiste reale scampo a una simile situazione. Si erge all’altezza del suo personaggio, e ne sposa la visuale: la sua lettura delle ‘ndrine e del loro sistema mafioso è perfino in anticipo sui tempi, ma scarta dalla rappresentazione usuale nel cinema tanto dell’epoca quanto a lui successivo. Cristaldi cercò di costruire attorno al film il suo tipico apparato di senso, a partire dalla presentazione all’interno di un festival internazionale. La Mostra di Venezia lo accolse come evento speciale fuori concorso (in competizione c’erano Fratelli e sorelle di Pupi Avati, La discesa di Aclà a Floristella di Aurelio Grimaldi, e soprattutto Morte di un matematico napoletano di Mario Martone), evitandogli dunque la “riserva indiana” Vetrina del cinema italiano, sezione creata appositamente per proteggere la produzione nazionale: lì il pubblico incrociò Il trittico di Antonello di Francesco Crescimone, Nero di Giancarlo Soldi, Tutti gli uomini di Sara di Gianpaolo Tescari, Volevamo essere gli U2 di Andrea Barzini, Un’altra vita di Carlo Mazzacurati, Verso sud di Pasquale Pozzessere, Quattro figli unici di Fulvio Wetzl, Donne sottotetto (Centro storico) di Roberto Giannarelli, Manila Paloma Blanca di Daniele Segre. La presentazione come evento speciale doveva servire a La corsa dell’innocente per trovare una propria collocazione altra rispetto al cinema italiano a lui coevo, ma la scelta non sortì l’effetto sperato. Il cinema italiano che si lasciava alle spalle il decennio della crisi non aveva spazio per il popolare, non nella sua accezione più semplice, e a pagarne le conseguenze fu Carlei. Dopotutto a proteggerlo non c’era più neanche il suo padre cinematografico: Franco Cristaldi era morto a Montecarlo il primo luglio, due mesi prima della sua presentazione al Lido. A prenderne il testimone fu l’altro produttore del film, Domenico Procacci con la giovanissima Fandango, fondata nel 1989 e qui alla sua seconda produzione (la prima era stata La stazione di Sergio Rubini): fu lui negli anni Novanta a ereditare l’idea di cinema di Cristaldi – e non è un caso che abbia lanciato Muccino –, anche se non ne confermò l’assoluto rigore. Ma dopotutto il cinema era cambiato, e con lui la produzione: la morte di Cristaldi in tal senso acquista un valore metà metaforico metà reale di fine di un’epoca.

Info
La corsa dell’innocente, il trailer statunitense.

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