La stazione

La stazione

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Per General Video e CG torna in dvd La stazione, esordio alla regia di Sergio Rubini, anche protagonista accanto a Margherita Buy ed Ennio Fantastichini. Un’originale commistione di generi per un cinema italiano agli albori della ripresa. Da riscoprire.

Nello scorcio di anni tra fine Ottanta e inizio dei Novanta, periodo drammatico per il nostro cinema a livello produttivo e distributivo, iniziarono a fiorire piccoli e timidi esordi registici, sorretti da una gracile ma assai volenterosa nuova generazione di produttori che cercavano di ridare fiato a una realtà cinematografica nazionale assai sconfortante. In qualche modo si ripartì letteralmente da zero; orizzonti ristretti, film umili ma per questo non del tutto privi di ambizione, location ridotte, e tutta una nuova generazione di attori, per lo più di solida formazione teatrale. In pratica, l’embrione del cinema medio italiano come poi si è venuto codificando nei successivi vent’anni, man mano che l’industria riprendeva fiato e poteva permettersi produzioni più ricche.
In tal senso ricoprì un ruolo importante tutta una serie di film tratti da un nuovo teatro italiano affermatosi negli anni Ottanta, estremamente minimale e in certa misura antidrammatico, fondato sulla chiacchiera informale e su piccole schermaglie tragicomiche.
Se volessimo trovare un film-simbolo a fare da cesura verso questa ricodificazione del nostro cinema medio, probabilmente identificheremmo in Piccoli equivoci (1989), opera prima di Ricky Tognazzi, una tappa a suo modo fondamentale. Il film era tratto da un testo teatrale di Claudio Bigagli e non faceva mistero alcuno della sua derivazione. Unità d’azione, spazio e tempo, per raccontare sei personaggi ciarlieri tra le quattro pareti di un appartamento. Di certo non era un’idea di cinema che poteva mandare in visibilio chi ama la settima arte per le sue specificità linguistiche, ma si profilava come un modus operandi estremamente funzionale al povero contesto produttivo del tempo. Poche location, pochi attori, costi fortemente contenuti, per una riscoperta del privato e del sottovoce. Vero è che questo cinema incontrava enormi problemi di visibilità nelle sale, ma per il momento poco male: da qualche parte si doveva pur ricominciare.

La fonte più utilizzata per il cosiddetto “cinema carino” italiano di quegli anni fu il corpus teatrale di Umberto Marino, che di lì a poco si dette a sua volta alla sceneggiatura e regia cinematografica. Anche La stazione (1990), esordio alla regia di Sergio Rubini prodotto da un giovane Domenico Procacci, proveniva dal teatro di Marino, ereditando dalla sua fortunata rappresentazione pure i tre protagonisti (Rubini, Buy, Fantastichini). Tuttavia il testo teatrale de La stazione aveva avuto una genesi piuttosto particolare, tanto che la sua paternità è da spartire in qualche modo tra Marino e Rubini, che aveva fornito il soggetto attingendo alle memorie di capostazione di suo padre.
Nel contesto del nuovo cinema italiano di derivazione teatrale La stazione si presenta come un’operazione ancora più radicale, in cui le ristrettezze contingenti sembrano in realtà passare in secondo piano rispetto a precise scelte autoriali. In pratica l’unità di luogo, rispettata pressoché in toto, rinchiude tre soli personaggi per una lunga nottata piovosa all’interno di una piccola stazione ferroviaria della provincia presumibilmente pugliese, in un’ottica di teso dramma claustrofobico che da scanzonato e “boulevardier” si trasforma per piccoli passi e svolte successive in cupo e angosciante.
Certo, l’estrema economia dei mezzi necessari è frutto dell’adozione fedele di una struttura teatrale, ma Rubini è forse l’unico tra gli esordienti del suo tempo a piegare tale fonte a una personale idea di cinema, e il passaggio da un codice espressivo all’altro risulta assai meno pedissequo di quanto si possa pensare. La storia del cinema è costellata di capolavori fondati sull’idea dei pochi personaggi confinati in uno spazio chiuso: vedendo La stazione non si ricava un’impressione totalizzante di “teatro in scatola”, bensì di cinema girato in aria di claustrofobia, con precise ricadute in ambito di stile e linguaggio.

La vicenda narra dell’incontro tra Domenico, un modesto e insignificante capostazione di provincia costretto al turno di notte, e una bella ragazza di buona famiglia, Flavia, in fuga da una festa glamour dove il fidanzato Danilo vorrebbe costringerla a partecipare a maneggi finanziari. Dalla piccola stazione passano treni in transito per tutta la notte, e Flavia deve aspettare fino alla mattina per potersene andare. L’occasione è buona per darsi alle chiacchiere e a una progressiva confidenza tra la ragazza e il funzionario, finché non sopraggiunge il fidanzato di lei, furibondo, che dà vita a un assedio sempre più angosciante della stazione, difesa da Domenico con le unghie e con i denti. Il treno della mattina e un provvidenziale tavolo difettoso chiuderanno la strana parentesi esistenziale.
In primo luogo, il Rubini autore risulta assai accorto nella gestione dei tempi narrativi. È innegabile che la scansione dei dialoghi conservi spesso tratti teatrali (lunghe battute con alcune sporadiche manifestazioni di monologo); è altrettanto vero che il progressivo mutare dei rapporti tra Domenico e Flavia è raccontato senza forzature e con molta finezza, con accenti per nulla didascalici sulla loro diversa estrazione sociale.
Spesso si è rintracciato ne La stazione un racconto nettamente separato in due tempi, ai limiti dell’incoerenza schizoide: una prima parte di commedia “carina”, una seconda di thriller psicologico. In realtà il tessuto espressivo dell’esordio di Rubini appare assai più composito e interessante. Da subito il non-luogo della stazione ferroviaria assume i contorni di un territorio liminare, in cui le esistenze dei personaggi entrano in stand-by o sono costrette all’insensatezza della coazione a ripetere. In tal senso la definizione del personaggio di Domenico, metodico e maniacale più per necessità che per passione (deve ammazzare il tempo nei solitari turni di notte, e l’unico modo è crearsi una serie di schiaccianti abitudini) è caratterizzato da volenterosi accenti beckettiani. È l’essere umano che ha perso la propria qualità, che svolge un lavoro insensato e inutile (“Ci sono i binari… A servire, tu non servi a niente”), ma che deve continuare a svolgerlo con tutta la necessaria esposizione di riti meccanici e ormai privi di significato. In tale direzione è da leggere anche l’enfatica sequenza dell’arrivo del treno in mezzo alla pioggia, una parentesi di sospensione narrativa in aria di metafisico esistenzialismo.
Di certo Rubini e Marino non cercano la totale astrazione beckettiana; il loro è un progetto di teatro/cinema popolare e accessibile, per cui al contributo di sequenze espressive si affianca il solido supporto di un pertinente monologo che più esplicito non si può. Ciò non toglie che per queste ragioni La stazione appaia comunque animato da un’ispirazione universalizzante che travalica decisamente gli asfittici confini delle piccole produzioni italiane dell’epoca. Un sentimento di disperata solitudine che pare volersi ricondurre a un’ontologica condizione umana.

Rubini mostra poi più decisamente di padroneggiare specifici strumenti di cinema nell’ultima avvincente mezz’ora, in cui le blande chiacchiere tra Domenico e Flavia, animate da una crescente e reciproca simpatia, lasciano il posto al thriller. L’arrivo di Danilo dà luogo in prima battuta a un teso confronto di psicologie e rapporti di forza (Flavia sembra succube del fidanzato, mentre Domenico è fisicamente più debole di Danilo), per sfociare poi in un parossistico crescendo di angoscia e violenza.
Il debito verso Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah è fin troppo scoperto; uomo mite e metodico, Domenico dà libero corso al suo lato più oscuro solo quando viene colpito nel suo inattaccabile territorio. Asserragliato dentro la stazione in mezzo alle minacce di Danilo, Domenico sfiorerà l’omicidio nel momento in cui l’avversario dà fuoco alla sua automobile.
Rubini mostra una non comune sensibilità per il linguaggio: il montaggio si fa sempre più spezzato, i contre-plongés sono piazzati al punto giusto, e c’è posto anche per due o tre veri tuffi al cuore in perfetto stile da thriller americano, ben sostenuti da effetti audio. In prefinale, quando il film arriva a sfiorare una dimensione horror, interviene poi una buffa risoluzione che riporta il racconto coi piedi per terra, nella sua cornice di commedia “carina”. Ma nei suoi estremi scarti di tono La stazione trova un suo particolarissimo equilibrio, ben coadiuvato da un generale e sottaciuto sentimento romantico che trova compimento nel bel finale.
Buon cinema insomma, con particolari valori aggiunti se ricondotto al contesto nazionale del tempo: benché palesemente debitore verso la fonte teatrale, Rubini mostrò fin da subito di nutrire ambizioni diverse, anche piuttosto aliene alla tradizione cinematografica italiana.
È curioso semmai constatare a posteriori che, pur sostenuto da una produzione decisamente più povera, La stazione resti nettamente superiore ad alcune prove successive del Rubini regista. Ed è piacevole riscoprire anche tre giovani attori che successivamente diventeranno punti fermi della nostra produzione: oltre allo stesso Rubini, Margherita Buy è giovane, bellissima e di grande freschezza attoriale, non ancora prigioniera del neo-accademismo italiano a cui successivamente è stata condannata, mentre Ennio Fantastichini cesella un bel villain, ruolo a cui a sua volta resterà legato. Tutti e tre chiusi in quella piccola stazione, a cercare una risposta alla solitudine dell’uomo, e trovandola tragicamente solo nella violenza.

Extra:
Un approfondimento critico a cura di Valentina Pattavina.
Info:
La scheda di La stazione sul sito di CG Home Video

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