Gold

Con Gold Anthony Hayes tenta il bizzarro sposalizio tra Erich von Stroheim, John Steinbeck, e lo scenario post-apocalittico, senza però trovare un adeguato respiro narrativo e un proprio punto di vista. Il film si trasforma così, per chi si sa accontentare, in un onesto b-movie tutto incentrato sulla presenza scenica di un volitivo Zac Efron.

Rapacità

Mentre attraversano il deserto australiano due uomini si imbattono nella più grande pepita d’oro mai stata trovata. Uno dei due andrà a cercare i mezzi per estrarla, l’altro resterà da solo a sorvegliare l’oro in una lotta disperata contro la natura che lo circonda, l’assenza di cibo e acqua e i suoi stessi demoni. [sinossi]
People just ain’t no good
I think that’s well understood
You can see it everywhere you look
People just ain’t no good
Nick Cave and the Bad Seeds, People Ain’t No Good

Il 4 dicembre del 2024 ricorreranno i cento anni dalla prima proiezione pubblica di Greed (Rapacità), il capolavoro di Eric von Stroheim: non c’è dubbio che in ben pochi, eccezion fatta per una piccola fetta di cultori, festeggerà l’anniversario, eppure non sono molti i film della sua epoca in grado ancora a un secolo di distanza di far pesare in modo così compiuto e persistente il proprio immaginario, e la propria lettura morale. Quel finale, con Mac che solo nel deserto scandisce – attraverso le didascalie, ovvio – “Cielo, che Paese!” prima di essere raggiunto da Marcus e ammanettato con lui morire disidratato e sfiancato proprio come il suo uccellino in gabbia, resta una delle epifanie più sorprendenti, incredibili, e indimenticabili della storia del cinema. Si dovrebbe studiare in tutte le scuole di regia e sceneggiatura Greed, magari accompagnandolo con la lettura di McTeague, il romanzo di Frank Norris che von Stroheim adattò insieme a Joseph Farnham (che provvide anche all’epico montaggio). Impossibile non correre con la mente al film posando gli occhi su Gold, secondo lungometraggio da regista per il quarantacinquenne attore australiano Anthony Hayes – l’esordio, Ten Empty, è “vecchio” di quattordici anni –, che raggiunge le sale italiane in piena estate, proprio quando i pochi spettatori rimasti fedeli alla sala si aspettano per tradizione una lunga sequela di horror e thriller: si muove in qualche modo, seppur lateralmente, in tale campo anche Gold, che pure guarda apertamente a von Stroheim, con tanto di replica perfino delle bestie selvagge che insidiano il protagonista nel bel mezzo del deserto (un crotalo, e uno scorpione, con Hayes che per valorizzare il contesto australiano aggiunge anche i dingo) e soprattutto del medesimo dilemma morale. Come reagire, tra sodali, di fronte a una enorme fortuna? Per Hayes non si tratta di monete d’oro, ma di una pepita come non se ne sono mai viste, di dimensioni a dir poco megalitiche. I due uomini che la trovano, incapaci di spostarla anche solo di un millimetro, prendono una decisione: uno dei due resterà a fare la guardia solo soletto, l’altro andrà a procurarsi un mezzo in grado di raccogliere il masso d’oro.

Inutile sottolineare come il film si concentri solo ed esclusivamente sul personaggio destinato alla guardia instancabile della pietra preziosa: tra stanchezza, disidratazione, e una stabilità mentale non proprio impeccabile ci vorrà poco perché l’uomo si lasci trascinare nella paranoia, tra un’allucinazione e l’altra. A fronte di un’operazione in fin dei conti così inusuale è davvero un peccato che Hayes non si sia nemmeno sforzato di creare dal punto di vista della scrittura una rotondità credibile ai personaggi in scena, di cui lo spettatore ignora praticamente tutto, soprattutto quel passato che però torna sibillino ad attizzare la mente del protagonista. Non che si pretendesse la sottilissima analisi socio-psicologica di von Stroheim, ma Gold da un punto di vista prettamente narrativo perde quasi subito d’interesse, eccezion fatta per quell’incipit – dopo una scritta che annuncia al pubblico come gli eventi si svolgano in un futuro non troppo lontano dalla contemporaneità – in cui il protagonista viaggia su un treno merci, seguendo la moda dei morti di fame che durante la Grande Depressione cercavano disperatamente di abbandonare la propria terra oramai inutilizzabile per cercare fortuna in occidente, nell’assolata California. È come se Hayes volesse trovare un bizzarro punto d’incontro tra von Stroheim, John Steinbeck (viene alla mente in modo inevitabile Furore, ma sotto il profilo cinematografico oltre a John Ford anche il Martin Scorsese di Boxcar Bertha), e lo scenario post-apocalittico che spesso ha trovato patria e ospitalità proprio nelle lande desertiche dell’Australia. Peccato che quest’intuizione, sempre per via di una scrittura buttata via, non venga più presa in considerazione, facendo sprofondare ben presto Gold in un thriller prevedibile, prodotto di medio cabotaggio senza infamia e senza lode, onesto b-movie adatto per l’appunto a una destinazione estiva.

Tra un’allucinazione, una chiamata al walkie talkie, la minaccia di un animale e le angosce della notte solitaria nel bel mezzo del nulla, Gold scivola via senza imprimersi nella memoria ma in modo innocuo, mettendo in luce semmai l’ottima performance attoriale di Zac Efron, costretto praticamente a reggere da solo l’intero impalco strutturale. Quel racconto che poteva aprirsi a una visione morale dell’umanità di oggi – ridotta invece a una mera corsa al potere dell’oro senza discernimento alcuno – si trasforma dunque nell’elegia del corpo dell’attore, della necessità del fisico come elemento di scena, e del suo progressivo deterioramento come principale e fondativo punto di caduta del genere thriller. Hayes dirige con professionalità, affidandosi per lo più a una fotografia elegante per quanto vagamente monocorde – opera di Ross Giardina. L’impressione è che in mano a un autore un po’ più consapevole Gold sarebbe potuto diventare un piccolo brillante esempio di pauperismo produttivo. La speranza è che almeno la carriera di Efron sfrutti l’occasione per uscire dal deserto in cui negli ultimi anni è stata confinata.

Info
Il trailer di Gold.

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