Pour la France

Pour la France

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Il cuore di Pour la France, con cui Rachid Hami prende parte al concorso di Orizzonti, risiede nell’intimità familiare del regista: il film nasce infatti dalla tragica scomparsa del fratello di Hami, morto nel 2012 all’accademia militare di Saint-Cyr, dov’era matricola. Hami riesce a tramutare questo dolore personale in un racconto universale sulla ricerca della giustizia, e sulla capacità di saper soffrire con e per qualcuno. Un lavoro onesto, doloroso, trattenuto, in cui risplende l’ottima interpretazione di Karim Leklou.

Codice del disonore

Aïssa, un giovane ufficiale di origini algerine perde tragicamente la vita durante un rito di iniziazione delle matricole nella prestigiosa accademia militare francese di Saint-Cyr. Mentre la morte devasta la sua famiglia, sorgono controversie sui piani per il funerale di Aïssa quando l’esercito rifiuta di assumersi la responsabilità. Ismael, il ribelle fratello maggiore, cerca di tenere unita la famiglia mentre lotta per ottenere giustizia per Aïssa. [sinossi]

C’è un tratto comune che lega Pour la France, terzo lungometraggio per il regista francese algerino di nascita Rachid Hami, e quello che è oramai diventato un classico del dramma giudiziario hollywoodiano, vale a dire Codice d’onore di Rob Reiner. In entrambi i casi infatti la narrazione ruota attorno alla morte di un giovane militare per colpa dei suoi commilitoni, che applicano una legge non scritta nei codici dell’arma: nel film diretto da Reiner e sceneggiato da J.J. Abrams si tratta del “codice rosso”, un provvedimento disciplinare non ufficiale, mentre per Pour la France del bizutage, prova d’iniziazione cui devono sottoporsi le matricole dell’accademia militare e che è gestita, a pochissimi passi dal nonnismo, dalle reclute del secondo anno. Questo tratto comune si disperde però ben presto, per una differenza abissale che divide concettualmente le due opere: Reiner dirige a soggetto, su una trama congegnata fin nei minimi dettagli e che troverà l’acme nell’ammissione di colpevolezza di un luciferino Jack Nicholson estorta con furbizia dall’avvocato Tom Cruise. Non c’è nessun colpo di scena in Pour la France, non è previsto nessun ripensamento tardivo, e i colpevoli non saranno neanche mai giudicati, nonostante l’indignazione oltre che della famiglia della vittima anche del responsabile dell’accademia stessa. A quanto prevede il codice militare due settimane di sospensione dal servizio basteranno a indirizzare sulla diritta strada le matricole che hanno “sbagliato”. Rachid Hami dopotutto non si è lambiccato sulla sceneggiatura per trovare i ritmi impeccabili, fornire agli attori le battute giuste nel momento giusto, ma ha operato un esercizio sulla propria memoria. Perché la storia che racconta è quella di suo fratello Jallal Hami, costretto mentre era matricola a gettarsi con i suoi pari in uno stagno nel cuore della notte, e trovato poi morto annegato. Era il 2012, Hami aveva già esordito al lungometraggio con Choisir d’aimer, drammatica storia d’amore con protagonisti Leïla Bekhti e Louis Garrel. La morte di Jallal scosse l’opinione pubblica francese, ma è evidente come per il fratello maggiore fossero enormi le difficoltà psicologiche ad affrontare un film su questo caso.

Non è dunque una cronaca dei fatti, Pour la France, e anzi tutto l’aspetto giudiziario resta fuori dal contesto narrativo, che si limita – per quel che concerne il rapporto con le forze armate francesi – agli incontri in cui i vertici dell’esercito disattendono in continuazione le promesse fatte precedentemente: Aïssa (questo il nome di Jallal nella finzione scenica) non potrà essere sepolto né a Les Invalides né al cimitero militare, perché la sua morte per quanto tragica non è avvenuta combattendo all’estero. Non è dunque avvenuta “per la Francia”, come d’altro canto avrebbe desiderato lo stesso Aïssa, che si confida col fratello a Taiwan, dove sta studiando per il master dopo la laurea in Scienze Politiche conseguita a Parigi. Non interessa a Hami rimembrare la morte, ma semmai celebrare con dolore la vita. Ecco dunque il racconto dei due bambini ad Algeri, quando nel 1992 lasciano la natia Algeria con la madre – incinta del loro fratellino – mentre il padre militare decide di rimanere lì (ma se ne andrà anche lui successivamente, pur senza mai recuperare un rapporto con la famiglia); ecco le schermaglie, il distacco tra i due fratelli, Aïssa così serio e studioso, e perfettamente integrato nella Francia che dichiara di amare come propria nazione, e il disilluso Ismaël, che a più di trent’anni non ha ancora trovato un vero motivo per stare al mondo e si arrabatta tra lavoretti non sempre legali. In questa dicotomia si risolve il conflitto forse insanabile di Pour la France, che è sì conflitto intimo ma si allarga in realtà a una riflessione sul concetto di patria, di appartenenza, e dunque di sacrificio.

Hami posa sulle cose uno sguardo tenero, che non si nasconde di fronte al trauma ma cerca sempre di renderlo cinema, evitando qualsiasi tipo di spettacolarizzazione o di pornografia del dolore. Mentre il montaggio si muove vorticosamente tra presente e passato, tra il quotidiano vegliare la salma del defunto e il ritorno indietro nel tempo attraverso la memoria, lo stile del regista si mantiene sempre trattenuto, limpido, onesto, quasi il film fosse a sua volta una forma di terapia, la possibilità di condividere il proprio dolore con gli altri. Non firma un film rabbioso, Hami, per quanto l’indignazione verso il modo in cui fu trattato il fratello dopo la morte si percepisca con forza, e la sua è una scelta difficile e coraggiosa, che merita profondo rispetto. L’ottima interpretazione di Karim Leklou, che interpreta Ismaël, vale a dire l’alter ego del regista, arricchisce e stratifica un lavoro di suo interessante, e sinceramente commovente. Viene da pensare alla presenza sempre a Venezia nel concorso principale di Athena di Romain Gavras, con quella banlieu iper-spettacolarizzata, i rapporti tra fratelli tagliati con l’accetta, la rinuncia totale alla lettura psicologica dei personaggi. Viene da pensare ad Athena, e a come sia stato possibile per la Mostra donargli uno spazio più centrale rispetto a Pour la France. Ma forse è meglio non porsi certe domande.

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