Pearl

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Pearl è il prequel di X, e in qualche modo è a sua volta una “sexy horror story”: Ti West racconta le radici del male, per le quali però non è necessario focalizzare l’attenzione sulla Prima Guerra Mondiale o sulla pandemia di “spagnola”, ma basta recarsi in una fattoria abitata da immigrati tedeschi, da dove la giovane Pearl sogna di fuggire per inseguire i suoi sogni cinematografici. Fuori concorso alla Mostra di Venezia, avrebbe meritato di partecipare alla corsa per il Leone d’Oro, non fosse altro per la straordinaria interpretazione di Mia Goth.

I’m Gonna Be a Star

Ambientato durante la prima guerra mondiale, il film si incentra sulla giovinezza di Pearl, antagonista del film precedente. Pearl è desiderosa di diventare famosa ma è costretta a vivere presso la fattoria di famiglia e a prendersi cura dei genitori infermi, di cui desidera la morte. L’ambizione della donna sfocia presto nella pazzia, portandola a compiere crimini orribili proprio mentre tenta una carriera nel mondo dello spettacolo. [sinossi]

Coraggio. Ci vuole coraggio, o forse sventatezza, ad andare volontario in Europa mentre si combatte la Prima Guerra Mondiale, come sceglie di fare Edward, il marito di Pearl. E ci voleva coraggio anche a compiere il percorso inverso, e a trasferirsi dalla Germania di fine Ottocento al Texas rurale, come fatto dai genitori di Pearl. Ci vuole coraggio anche a decidere di portare avanti una fattoria quasi interamente da sola, ed è quello che fa quotidianamente la madre di Pearl, visto che di aiutanti non c’è più l’ombra, un po’ per la guerra un po’ per la “spagnola”, l’influenza che ha colpito anche suo marito rendendolo completamente inabile, costretto su una sedia a dondolo. Ci vuole anche coraggio ad avere come unico vero animale domestico un gigantesco alligatore, cui dare in pasto magari un’oca un po’ troppo insolente. Lo stesso slancio di coraggio sarebbe stato opportuno l’avesse anche la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, perché è davvero un peccato che Pearl, con cui Ti West ordisce il prequel di X – A Sexy Horror Story, sia stato relegato a proiezione di mezzanotte, tagliando quasi completamente fuori la stampa (che ha avuto una proiezione la mattina in sala Volpi, in contemporanea con un film del concorso – Argentina, 1985 di Santiago Mitre – e con un fuori concorso imponente come Master Gardener di Paul Schrader. La collocazione del film di West in competizione non solo avrebbe arricchito una corsa al Leone d’Oro che nei primi giorni al Lido è apparsa un po’ asfittica, stanca, prevedibile tanto negli esiti estetici quanto sotto il profilo contenutistico, ma avrebbe consentito allo slasher di diventare davvero “materia per tutti” (il teen-horror di Luca Guadagnino si muove in ogni caso nei territori del cinema autoriale più consono, al di là del giudizio che si voglia dare al film). In più la presenza nella competizione principale di Pearl avrebbe permesso a Mia Goth di concorrere per la conquista della Coppa Volpi, e la sua è davvero l’interpretazione più esaltante vista per ora a Venezia. Goth, che qui al contrario di X riveste un solo ruolo ma è anche autrice della sceneggiatura insieme al regista, è l’elemento centrale del film, e non tanto perché il suo sia il personaggio cardine: è lei, con le sue espressioni eternamente mutevoli in grado di passare dal perturbante al comico nell’arco di pochi secondi (si veda l’inquadratura finale del film, sopra la quale scorrono i titoli di coda), a monopolizzare lo sguardo dello spettatore e allo stesso tempo a contenere l’intero senso del film.

Che il film di West sia un prequel è ovvio, ma il regista lo esplicita fin dalla prima inquadratura, che da un lato guarda – si può fare altrimenti? – all’immortale incipit di Sentieri selvaggi, e dall’altro ripropone ciò che si vedeva all’inizio di X. Se lì però c’era già la mattanza, in questo caso il terreno che divide la stalla dalla casa è lindo e pinto, magari un po’ bruciato dal sole ma nulla più. Inizia dunque prima dell’orrore, Pearl, e lo spettatore già sa che dovrà scoprire quale molla omicida scattò nella testa di questa ragazza vanitosa, esuberante, e convinta di poter diventare una stella del cinema. Ecco dunque che torna l’elemento metacinematografico, che nel film dello scorso anno era rappresentato dalle riprese di un porno, da girare per l’appunto nella fatiscente fattoria, affittata per l’occasione; nel 1918 il porno già esiste, e Pearl lo scopre grazie all’amicizia con un proiezionista, che le permette di vederne uno in forma del tutto privata e le regala anche il fotogramma di uno dei film preferiti della giovane, dove si vede un gruppo di ballerine di fila esibirsi in quelle che all’epoca erano considerate “follies”. Una follia per una folle, associazione di idee che non lascia scampo a interpretazioni. Divisa tra una vita familiare che la angoscia, ivi compreso l’eventuale ritorno dalla guerra del pur adorato marito Edward, che vorrebbe dire rimanere alla fattoria e prenderla in gestione quando i genitori non ci saranno più, e il sogno di diventare una stella della Settima Arte, e di esibirsi a New York, Pearl è già scissa psicologicamente ed emotivamente. A questo si aggiunge il già citato amore per la mattanza degli animali. Con grande intelligenza West gioca a carte scoperte con l’immaginario cinematografico, e così se nel precedente film guardava a Tobe Hooper, tanto per Non aprite quella porta quanto per Quel motel vicino alla palude, qui i colori rimandano ai mélo di Douglas Sirk, ma ancor più alla parte non in bianco e nero de Il mago di Oz, e non è casuale che in una sequenza la ragazza si ritrovi a ballare e a baciare uno spaventapasseri in mezzo a un campo di granturco. Non è un musical, Pearl, ma si muove a ritmo di una danza schizofrenica, inseguendo le corse in bicicletta della ragazza che durante una trasferta in città vuole ritagliarsi il tempo per recarsi in un cinema.

Come se l’orrore fosse la prima e più barbarica delle coreografie, Ti West danza insieme alla sua protagonista, accompagnandola nel sabba infernale dal quale non avrà scampo nessuno, a partire da lei stessa. Sa dopotutto di potersi affidare completamente a Mia Goth, che gestisce in modo straordinario anche un complicato monologo/confessione, e sa incarnare in modo perfetto il disagio mentale, fisico, emotivo, velleitario, di una ragazzina che non è mai cresciuta, non sa affrontare la realtà – il germe della pandemia di cui tutti sono terrorizzati non la sfiora neanche per un momento nel pensiero, così come la guerra che è lontana e sfumata, al punto che il suo sogno è proprio tornare in Europa, ma con il proiezionista –, e la sfuma in nuvole pirotecniche e al limitar del technicolor. Nel ludico svolgersi di questo psicodramma trova comunque spazio l’orrore, e la violenza: così forconi, coltelli da cucina, accette, camini accesi e acqua che bolle possono diventare in quattro e quattr’otto armi letali. Tra le visioni più convincenti della Mostra numero 79 (insieme a The Kingdom Exodus di Lars von Trier, ma in quel caso era davvero impossibile pretendere una partecipazione in concorso, vista la natura seriale dell’opera), Pearl è il lavoro più riuscito di Ti West, che sembra aver trovato finalmente la propria strada, e la propria dimensione autoriale. Se sia o no soprattutto merito di Mia Goth lo scopriremo in futuro.

Info
Pearl sul sito della Biennale.

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