Saint Omer

Saint Omer

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Tra cronaca, Storia, cultura e Mito, Saint Omer di Alice Diop prende vagamente le mosse da un infanticidio avvenuto qualche anno fa in Francia per condurre un discorso su maternità, tabù, archetipi e modernità. Con tanto di citazione da Medea di Pasolini. Ostico e respingente, ma coerente con le proprie intenzioni. In concorso a Venezia 79.

E di passaggio, Pasolini

Incinta e interessata a un progetto su Medea, la scrittrice francese di colore Rama segue un processo penale contro Laurence Coly, giovane donna di origini senegalesi che ha lasciato annegare in mare la propria bambina di quindici mesi. Condotto secondo una rigida etichetta, il processo si trasforma per Rama anche in un’occasione di riflessione su se stessa, sulla propria imminente maternità, sulla figura della madre… [sinossi]

Medea. Il Mito. La Storia. Per Saint Omer, sua opera prima in fiction presentata in concorso alla 79esima Mostra di Venezia, Alice Diop sceglie di affrontare uno dei tòpoi culturali più assoluti dell’essere umano a tutte le latitudini del pianeta: la maternità, e per converso la sua più atroce trasgressione, il crimine di infanticidio perpetrato ai danni della propria prole. Non è un caso se tale spaventoso atto di violenza costituisca uno dei più rocciosi rimossi e abbia trovato una sua primigenia incarnazione nel Mito di Medea. Diop lo cita più volte, richiamandosi anche al film di Pier Paolo Pasolini (Medea, 1969) che a suo tempo tornò a reinterpretare il profilo della sacerdotessa della Colchide come massima incarnazione di una religiosità barbarica da selvaggio stato di natura. Diop si pone su un triplo crinale: cronaca, intesa anche come dimensione storica, mito, e individuo. È infatti anche da un’esperienza personale che Alice Diop ha preso le mosse per Saint Omer. Nel 2016 si è trovata a seguire il caso di una donna francese di colore, Fabienne Kabou, che ha lasciato annegare la figlia in mare, evocando al processo anche un’oscura dimensione di stregoneria. Tramite l’esperienza di questo processo penale seguito in prima persona Diop sembra aver intrapreso un percorso anche in se stessa, che l’ha condotta a sdoppiarsi nella protagonista di Saint Omer, la scrittrice Rama, incinta e interessata alla figura di Medea, a sua volta insistentemente seduta nel pubblico del processo contro il personaggio fittizio di Laurence Coly. Entrambe donne di colore, entrambe caratterizzate da un’anima divisa in due tra la propria cultura senegalese e la cultura d’adozione della Francia in cui pure sono nate, Rama e Laurence sono una lo specchio dell’altra, tanto che in prefinale si lascia pure intendere come il processo, in fin dei conti, non sia stato altro che una sorta di resoconto interiorizzato da una Rama particolarmente aspra e spietata con se stessa.

Rama è ben istruita e inserita in un contesto occidentale, ma pure l’imputata Laurence sembra desiderosa di crearsi una posizione nei buoni salotti dell’intellettualità francese. Eppure, Laurence allude a forze oscure che nell’omicidio della figlia hanno agito tramite il suo corpo. Eppure, il richiamo di credenze geograficamente lontane arriva a lambire anche quell’ordinatissimo tribunale transalpino. La stregoneria è un goffo tentativo di difendersi dalla legge nascondendo il proprio crimine dietro il dito di una banale suggestione, o davvero fa parte di un tessuto culturale al quale nemmeno Laurence riesce a sottrarsi? In Saint Omer Alice Diop sceglie un linguaggio in qualche modo ambivalente, concreto e fortemente legato a un larghissimo uso del dialogo, e al contempo talmente asciutto ed essenziale, ridotto a pochi elementi ricorrenti di messinscena, da sfociare in conclamata astrazione che sembra spesso evocare dimensioni intrapsichiche. Al fondo si muovono inquieti interrogativi che non riguardano soltanto la doppia anima, “barbarica” e “moderna”, delle due protagoniste. Ancor più profondamente è il rapporto madre/figlia a porsi al centro del racconto, colto esattamente nell’immediato rovesciarsi dei due ruoli. Nella difesa finale è l’avvocatessa di Laurence a dare in questo senso qualche affondo significativo, evocando un’ineluttabile catena della vita nel rapporto tutto al femminile tra esseri procreanti di successive generazioni. Nell’anello di mezzo, nella madre che è stata figlia e che a sua volta si appresta a dare la vita a un altro essere umano (posizione mediana che riguarda qualsiasi donna con prole), avviene di fatto la confluenza di tre vite. L’infanticidio non è altro che la feroce metafora rovesciata della schiacciante responsabilità che la procreazione comporta. Si è responsabili di un’altra vita, totalmente e ineluttabilmente, e lo spettro del dolore, effettivo e figurato, inflitto alla propria progenie è un rischio quotidiano con il quale dover imparare a convivere.

Saint Omer si avvia come un serissimo courtroom drama che attinge direttamente alla vera cronaca per astrarre a poco a poco il proprio discorso verso riflessioni assolute. Sulle prime Alice Diop sembra in cerca di un rigorosissimo realismo, tanto da concedere alle sessioni in tribunale lunghissimi tempi narrativi fondati sull’idea di riprodurre un qui-ed-ora sia pure fortemente drammatizzato. A poco a poco, l’inconsueta dilatazione dei tempi narrativi apre scenari di intensa astrazione, e di fatto Rama sembra finire per condurre una sorta di processo a se stessa. Dalla cronaca si risale verso la psico-antropologia individuale e sociale, giungendo poi alla dimensione del Mito. L’evocazione di Medea di Pasolini sembra una naturale conseguenza, giunge inaspettata ma subito perfettamente ricompresa in un progetto filmico totalmente consapevole di sé. Risiede forse qui il limite del pur apprezzabile film di Alice Diop, nella convinta adesione a un progetto così volutamente cerebrale da non riuscire a sfuggire a una generale rigidità espressiva. Ma l’intelligenza dell’intera operazione è indubbia. Che cos’è del resto la pazzia? È la non-conformità a comportamenti condivisi. La pazzia, in fin dei conti, è uno scontro tra culture, convinzioni, pulsioni e relative risposte. La pazzia è l’insondabile mistero dell’individuo. Come in ultima analisi restano insondabili Laurence e il suo gesto atroce. La stregoneria è in ultima analisi un’ipotesi confortante. Sempre meglio evocare un qualche indefinito agente esterno, piuttosto che dover scandagliare le oscurità della psiche umana.

Info
Saint Omer sul sito della Biennale.

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