Un vizio di famiglia

Un vizio di famiglia

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Esce in sala il film francese Un vizio di famiglia (L’origine du mal) di Sébastien Marnier, già presentato a Venezia Orizzonti Extra. Un thriller che si basa su ambiguità, truffe e menzogne in un contesto altoborghese in conflitto tra patriarcato e matriarcato. Il meccanismo narrativo a incastro non sempre è perfetto, ma il film riesce a mantenere una sufficiente sospensione dell’incredulità.

Un affare di donne

In una lussuosa villa sul mare, una giovane schiva e modesta si ritrova in compagnia di una bizzarra famiglia: un padre sconosciuto e ricco, la sua stravagante consorte, la figlia ambiziosa, un’adolescente ribelle e la loro inquietante cameriera. Qualcuno mente. [sinossi]

«Che cosa fanno i tuoi genitori?» chiede l’aristocratico padre del protagonista di Love Story, interpretato da Ryan O’Neal, quando lui presenta in famiglia la sua fidanzata di umile origine. «Mio padre fa i biscotti», risponde la ragazza, e il genitore, pensando che le sue relazioni umane non possano che avvenire tra gente altolocata, le chiede: «Qual è la sua azienda?». La giovane, imbarazzata, comprendendo il clima classista, risponde: «Panificio Phil» suscitando l’indignazione dei genitori che impediranno quell’unione con una proletaria. In una simile situazione si trova Stéphane/Nathalie, protagonista di Un vizio di famiglia (L’origine du mal), ora nelle sale italiane, presentato a Venezia Orizzonti Extra. La giovane donna fa l’operaia in un conservificio, passa il tempo a inscatolare sardine. Quando si trova nella famiglia di Serge, anziano imprenditore di successo che vive in una villa-castello che si affaccia sul mare di Provenza, e le viene chiesto che lavoro faccia, lei risponde che lavora in un conservificio, e l’anziano patriarca le chiede se abbia fondato lei l’azienda. A differenza della protagonista di Love Story, Stéphane risponde affermativamente e si inventa una storia di socie e finanziamenti. Si tratta della sua prima menzogna che si palesa nel film, ma fino a questo punto possiamo pensare che l’abbia fatto per non sentirsi a disagio, e non essere malgiudicata, al cospetto di quell’ambiente classista. Tuttavia la sua prontezza di riflessi nel mentire dovrebbe rappresentare un segnale. Un vizio di famiglia si costruisce sulle ambiguità, sulle bugie della protagonista e sui suoi intrighi, in una narrazione avvincente a disvelamenti graduali, indizi centellinati, dove però non tutto è convincente. Ci sono delle forzature come la facilità con cui la vera Stéphane riesce a evadere dalla prigione, e pure a entrare nel giardino della dimora dei Dumontet. Ma il meccanismo narrativo complessivo è solido e funziona, anche se qualche ingranaggio scricchiola.

Qual è l’origine del male cui allude il titolo originale? Il film potrebbe suggerire la borghesia, il patriarcato ma anche la donna. L’aspetto più geniale è la descrizione della famiglia Dumontet in chiave estremamente grottesca, una famiglia di mostri, di vipere. Sembra un horror, un castello stregato. Sembrano le streghe della scuola di danza di Suspiria, o la famiglia Addams: non a caso le vignette di Charles Addams volevano rappresentare una satira della famiglia borghese. Notevole è il decor della casa, espressione della fantasia bizzarra e kitsch della moglie di Serge, Louise eccentrica anche nel vestirsi al funerale. Un’accumulatrice collezionista compulsiva che ha trasformato la casa in un wunderkammer tra animali impagliati, oggetti d’arte e piante carnivore, e soprattutto lo sterminato scaffale di videocassette dove sono immagazzinate annate intere di programmazioni televisive. L’anziano Serge rappresenta un decadente capitalismo patriarcale che aveva una parvenza di volto umano: lui stesso rivendica l’umanità del suo approccio con i lavoratori, deprecando la gestione aziendalista disumana, di stampo americano, della figlia. Gli agenti che arrivano alla fine riconoscono che il ricco imprenditore abbia fatto cose buone per la comunità. La dicotomia vecchio/nuovo capitalismo si mescola con un conflitto tra patriarcato e un nuovo soggetto fatto di donne al potere. Praticamente non ci sono personaggi maschili nel film, a parte Serge, il padre padrone da abbattere. Serge incarna in pieno una antica mentalità maschilista: ha dato alle figlie, femmine, nomi maschili, non ha voluto che la moglie facesse un lavoro. Ha avuto tante donne fuori dal matrimonio ed è morboso con Stéphane/Nathalie. L’unico figlio maschio forse è morto o forse è scappato e forse è gay. Il film inizia in uno spogliatoio femminile, e altre scene si svolgeranno in spogliatoi del carcere femminile. Sono donne le agenti del penitenziario, l’avvocatessa e il giudice nella scena del processo. Persino le immaginarie socie in affari di Stéphane/Nathalie sono donne. Tutto questo in una società aperta, dove a una detenuta è concesso avere momenti di intimità con la propria compagna che va a trovarla. Come interpretare il repentino capovolgimento della deposizione in tribunale di Stéphane/Nathalie, che testimonia contro il padre dopo aver concordato con lui il contrario? Se non con il suo istinto a coalizzarsi con il mondo femminile, vedendo l’opportunità e cogliendo l’occasione di dare la spallata definitiva al mondo patriarcale, e a vivere in un mondo di sole donne, in un antro delle streghe.

Sébastien Marnier riesce a porsi al di sopra della morale: nessuno si salverebbe tra i personaggi eppure ci fa stare, hitchcockianamente, dalla parte della criminale, truffatrice e assassina, fino all’ultimo. E fa largo uso di split screen, a volte multipli, per dare un senso, schematico, dei giochi di potere, dei facili spostamenti di posizione come con delle pedine, dei rapporti di forza mutevoli tra i personaggi. Per tracciare un affresco, nel solco di Chabrol, della vecchia e della nuova borghesia.

Info
Il trailer di Un vizio di famiglia.

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