Hometown – La strada dei ricordi

Hometown – La strada dei ricordi

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Hometown – La strada dei ricordi è il documentario in cui Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer accompagnano/pedinano Roman Polanski e Ryszard Horowitz nel “ritorno a casa” a Cracovia, sede degli affetti ma anche epicentro del trauma, quello legato alla deportazione nei campi di concentramento e sterminio. Un lavoro di per sé didascalico che viene però innervato dalla straordinaria potenza in scena dei due artisti, memoria che si fa carne e pensiero.

Tornando sulle rive della Vistola

Roman Polanski e Ryszard Horowitz, circa sei anni di differenza, hanno frequentato lo stesso liceo artistico a Cracovia. Polanski (1933) è nato a Parigi, Horowitz (1939), ma entrambe le loro famiglie sono state testimoni della costruzione del ghetto e delle deportazioni nei campi di concentramento dalla città polacca. A fine anni Cinquanta entrambi hanno lasciato la Polonia, trovando affermazione professionale rispettivamente l’uno come regista, l’altro come fotografo (o meglio photocomposer, come si dichiara) negli Stati Uniti (Polanski prima in Europa). Da allora non sono più tornati insieme nella loro città natale, dove, a oltre sessant’anni di distanza, si danno appuntamento. È l’occasione per ricordare, anche quando non si vorrebbe, per ovvi motivi. [sinossi]

Quando il Governorato Generale nazista che gestiva la Polonia istituì nel marzo 1941 il ghetto di Cracovia Roman Polanski non aveva ancora compiuto otto anni, e Ryszard Horowitz doveva spegnere la seconda candelina. Polanski era tornato con i genitori a Cracovia nel 1936, dopo essere nato e cresciuto a Parigi: a spingere il padre e la madre a prendere una simile decisione il sentore di un antisemitismo sempre più crescente nella Francia che pure aveva appena mandato al governo il Fronte Popolare che riuniva comunisti e socialisti. La scelta dei Polanski (il vero cognome del padre era Liebling, quello della madre Katz-Przedborska: l’uomo aveva deciso di mutarlo proprio per non rendere evidenti le sue origini) purtroppo fu decisamente infausta, visto che entrambi i genitori vennero deportati in campi di concentramento e sterminio. Il padre del futuro regista sopravvisse all’esperienza a Mauthausen, mentre la madre venne uccisa ad Auschwitz. Loro figlio, grazie all’operosità del padre, riuscì a scampare alla cattura da parte delle truppe tedesche, passando di famiglia in famiglia, fino a trovare una pur relativa pace nella fattoria di una coppia cattolica, che lo accolse e lo nutrì fino alla fine del conflitto e dell’occupazione nazista. Per quanto fosse molto più piccolo l’esperienza di Horowitz fu assai peggiore, visto che nel settembre 1944, a cinque anni, venne internato ad Auschwitz e da lì riuscì a uscire perché rientrò all’interno della celeberrima “lista di Schindler” su cui si concentrò il film di Steven Spielberg del 1993. Tornare a casa dopo decenni non è mai semplice, ma può essere particolarmente doloroso quando quel luogo porta in sé i segni di un trauma inesprimibile, e forse persino impossibile da descrivere. La voce di Polanski accompagna l’inizio di Hometown – La strada dei ricordi, il documentario diretto a quattro mani da Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer che arriva in sala in Italia in concomitanza con la Giornata della Memoria, istituita per commemorare le vittime della Shoah. La voce di Polanski, si diceva, raggiunge lo spettatore con poche parole che pesano però come macigni: “Sarebbe stato meglio se tutta la mia vita fosse andata diversamente… Tutti hanno problemi ma non hanno il pesante fardello che ho dovuto portare per tutta la vita”.

Lo schema proposto da Kudla e Kokoszka-Romer è abbastanza semplice, e molto lineare: prendere due artisti di fama internazionale cresciuti a Cracovia ma destinati a raggiungere il successo espatriando (entrambi raggiunsero anche gli Stati Uniti d’America, ma sviluppando con la nazione nordamericana un rapporto diametralmente opposto: reprobo Polanski agli occhi degli statunitensi, che da decenni vorrebbero poterlo estradare, mentre Horowitz ha acquisito la cittadinanza) e riportarli a casa, nella terra natia. Un luogo dove i due insieme non sono più stati dall’inizio degli anni Sessanta, un’era geologica fa, quando la Polonia era ancora parte integrante del Patto di Varsavia e rispondeva dunque agli imput sovietici – i due ricordano le canzoni dedicate a Stalin che gli venivano insegnate a scuola nei primi anni dopo la guerra. Ma c’è un dettaglio, forse ignoto ai più, che rende Hometown più prezioso. Polanski, praticamente abbandonato dal padre che aveva deciso di risposarsi, venne accolto in casa Horowitz, e per alcuni anni crebbe proprio con colui che sarebbe stato uno dei pionieri della fotografia digitale e del photocomposer. Questo particolare fa sì che una parte delle memorie dei due anziani artisti sia condivisa, e nasconda in sé un afflato fraterno, che riporta l’odore di una casa, la disposizione dei mobili, e il soffocante peso di ritrovarvisi di nuovo all’interno, ora che tutto è cambiato, e che la stragrande maggioranza degli affetti non è più in vita. Splendido in tal senso il ricordo che Polanski fa del funerale del padre, sul finire degli anni Settanta, con tanto di viaggio picaresco dalla Francia alla Polonia, attraversando la Cortina di Ferro. Un racconto in bilico tra la tragedia e la farsa, con un tocco di grottesco che riporta alla mente molto cinema di Polanski (il quale dopotutto all’occupazione nazista della Polonia ha dedicato uno dei suoi capolavori, Il pianista, incentrato sulle vicessitudini di Władysław Szpilman, uno dei più noti “Robinson di Varsavia”). Ecco dunque che un documentario canonico, anche poco ispirato da un punto di vista strettamente cinematografico (al punto che Polanski non sa trattenersi dal riprendere i due registi per dirgli cosa avrebbe effettivamente senso inquadrare), riesce a trasformarsi in una memoria intima, delicata, ovviamente tragica eppure in grado di cogliere anche dettagli sulla contemporaneità, come ad esempio il centro di Cracovia lindo e pinto ma in realtà trasformato in un turistificio senza identità, e quindi senza vita.

Ritrovatisi a Cracovia insieme, tra la memoria di un cinema che non c’è più – l’Apollo, dove Polanski ricorda di aver visto innumerevoli volte Biancaneve e i sette nani di Walt Disney –, i due fratelli non di sangue progressivamente si “allontanano” nella memoria, ognuno rintracciando le briciole della propria, cercando segni nella città e nelle campagne circostanti, e approcciandosi in maniera dissimile al trauma della deportazione, dello sterminio, dell’annullamento di un popolo (Horowitz per di più è stato cresciuto da genitori religiosi, tutto l’opposto di Polanski che era figlio di due agnostici: la sequenza in sinagoga rimarca questa distanza culturale). Hometown mostra, grazie alla generosità in scena dei due protagonisti, i mille rivoli in cui può perdersi o ritrovarsi la memoria, e il valore che essa acquisisce, oltre al peso a volte insostenibile che porta con sé. Sono Polanski e Horowitz poco per volta a prendere in mano il film, sradicandolo dai registi che diventano quasi meri esecutori di inquadrature – con un abuso, purtroppo sempre più diffuso, dei droni – e costruendoselo addosso, con i corpi anziani ma ancora in splendida forma che diventano essi stessi il simbolo di una resistenza alla barbarie, politica e culturale, e al desiderio malcelato di lasciar sopire la memoria.

Info
Hometown – La strada dei ricordi, il trailer.

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