Il caso Goldman

Il caso Goldman

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Dodicesimo lungometraggio in trent’anni di carriera per Cédric Kahn, Le Procès Goldman (Il caso Goldman) è un solido dramma giudiziario che fa rivivere i giorni del secondo processo che nel 1976 vide protagonista a Parigi Pierre Goldman, esponente della sinistra rivoluzionaria accusato – a suo avviso ingiustamente – di un duplice omicidio. Kahn sceglie uno stile asciutto, e ragiona sulla labilità del concetto di “vero” e sul suo valore intrinsecamente politico. Apertura della Quinzaine des cinéastes a Cannes 2023.

Il valore testimoniale

Disperato senza fede né legge o testardo perseguitato da uno stato poliziesco e razzista? Il secondo processo a Pierre Goldman, nel 1976, divise la Francia: l’attivista di estrema sinistra andò alla sbarra per quattro rapine, una delle quali provocò due morti. Goldman negò sempre qualsiasi coinvolgimento in quest’ultimo caso. [sinossi]

Se si esclude una breve sequenza introduttiva, in cui il principale avvocato difensore di Pierre Goldman (Georges Kiejman, venuto a mancare ultranovantenne lo scorso 9 maggio, fu un vero e proprio principe del foro in Francia, e difese tra gli altri anche Guy Debord e il suo editore Gérard Lebovici: nel primo volume di Correspondance, pubblicato da Gallimard nel 1978, si può leggere il polemico scambio di lettere che i tre ebbero) è sul punto di abbandonare il ruolo perché pensa che il suo assistito non abbia la benché minima fiducia in lui, Le Procès Goldman (Il caso Goldman) si svolge interamente nell’aula di tribunale – e nella cella lì accanto dove l’accusato passa i minuti e le ore in cui il processo non ha luogo – e segue alla lettera solo ed esclusivamente le testimonianze rintracciate tanto dal pubblico ministero quanto dai difendenti. In una delle primissime battute del film il giudice si rivolge a Goldman e gli chiede di rievocare la sua infanzia e adolescenza: probabilmente la stragrande maggioranza dei registi avrebbe “approfittato” di un appiglio simile per rincorrere l’idea della ricostruzione della vita del giovane Goldman, e quindi oggettivare un momento che non ha verità possibili, ma solo supposizioni. Cédric Kahn, che torna alla regia a quattro anni di distanza da Fête de famille, sceglie invece di non muoversi mai dall’aula del tribunale, di non uscire mai da quel momento, di non provare in nessun modo a forzare la mano attribuendo alle proprie immagini il grado di “verità”. Una scelta che depotenzia in modo volontario qualsiasi velleità spettacolare; chi entra nella sala in cui si svolge Il caso Goldman non deve attendersi testimoni a sorpresa, confutazioni mirabolanti, documentazioni ritrovate all’ultimo istante, arringhe al fulmicotone. Kahn rifugge qualsiasi regola (non) scritta del genere giudiziario e si muove in una direzione apertamente oppositiva.

Certo, si potrà suggerire che ciò accade perché Pierre Goldman venne processato davvero, rischiò realmente di finire in carcere a vita con l’accusa di aver freddato due farmacisti durante un tentativo di rapina (ed è con sardonica mestizia che si apprende dalle fugaci informazioni bianche su schermo nero al termine del film che l’uomo trovò comunque una morte prematura nel 1979 in frangenti su cui non si è mai davvero fatta chiarezza). Ciò accade insomma perché quella raccontata per immagini da Kahn è una “storia vera”. Ma quante volte il cinema si è fatto beffe del concetto di vero? Anche legittimamente, sia chiaro, vista la sua natura ri-costruttiva, e dunque inattendibile per quel che concerne l’attributo di verità; ma allo stesso tempo rivendicando quella discendenza “reale”, e dunque di fatto inattaccabile. Kahn al contrario opta per una macchina-cinema che sia sempre continuamente dialettica; mette le une posizioni di fronte alle altre, e segue il dibattimento in aula come se si stesse facendo un esercizio filosofico. Il suo film, per quanto di certo non sconvolgente sotto il profilo estetico – la forma è quella classica, perfino in gran parte preordinata nel suo schematismo tra frontalità della dichiarazione e controcampo che è anche contro-pensiero –, indaga una possibilità socratica, partendo dal principio che “ὅτι ἃ μὴ οἶδα οὐδὲ οἴομαι εἰδέναι”, l’unica cosa che si sa e di non sapere. In questo modo, di fatto dichiarando che qualsiasi verità espressa come tale ha sempre un fondamento politico, e che solo lo sguardo politico sulla vita e la società ci permette di ribadire una “verità”, Kahn inserisce con forza la rivisitazione di un processo che dilaniò l’opinione pubblica francese quasi cinquant’anni fa – Goldman era un rivoluzionario marxista e sionista, e si riteneva innocente in quanto tale, in una dimensione ontologica – nella contemporaneità, senza mai però deviare dal percorso, senza attualizzare determinate battute o situazioni (come ad esempio fa in maniera improvvida lo scialbo Jeanne du Barry di Maïwenn: se i due film vengono qui accostati è solo per il fatto di aver aperto ufficialmente la selezione ufficiale di Cannes da un lato e la Quinzaine des cinéastes dall’altro).

La Francia del 1976, esattamente come quella del 2023 – ma il discorso ovviamente non vale solo per la realtà transalpina –, è dominata dal pregiudizio, e se si appartiene a una determinata etnia, o a un determinato gruppo sociale è più “facile” essere visti come ladri, criminali, assassini. Goldman denuncia il fatto che la sua accusa si basi semplicemente sul suo essere ebreo, ma non fa distinzione tra se stesso o i suoi amici creoli e venezuelani: il sistema politico, giudiziario, e poliziesco francese ha già il suo colpevole quando si trova di fronte a una persona così. Per quanto tale suggestione trovi conferma in alcune testimonianze del film, Kahn di nuovo si muove in forma puramente dialettica, come certifica l’arringa finale di uno dei due pubblici ministeri che vorrebbero Goldman colpevole per tutti i capi d’accusa: lì forse, più ancora che in tutte le altre dichiarazioni fatte nel corso delle quasi due ore in cui si snoda Il caso Goldman, è possibile rintracciare il senso di un’operazione cinematografica per niente banale, che squarcia il velo dell’ottusità che si cela dietro la bieca dicotomia vero/falso e cerca la stratificazione, e dunque l’umano, la sua dignità e il suo onere.

Info
Il caso Goldman sul sito della Quinzaine.

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