Sick of Myself

Sick of Myself

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La viralità e il bisogno di apparire per essere sono al centro di Sick of Myself, opera seconda del giovane norvegese Kristoffer Borgli presentata in Un certain regard al Festival di Cannes 2022, una commedia nera cinica ma mai gratuita e in odore di horror, non priva di qualche difetto, ma pienamente centrata sul contemporaneo.

La pelle che abito

Una giovane donna assume deliberatamente un farmaco pericoloso per ottenere l’attenzione che desidera. All’inizio funziona, ma poi deve fare i conti con conseguenze indesiderate. [sinossi]

Presentato al Festival di Cannes 2022 nella sezione Un Certain Regard, Sick of Myself – secondo lungometraggio del norvegese Kristoffer Borgli – è una black comedy sull’ansia da prestazione di un desiderio di apparire che appare sempre più una malattia (sessualmente) trasmessa. O meglio condivisa. Una commedia cinica ma non gratuita, anche perché Borgli, più che inserirsi nelle fila peculiarmente scandinave dei fustigatori/moralizzatori della società dei vari Vinterberg e Östlund, sembra maggiormente interessato alle metamorfosi indotte dal virus per eccellenza del contemporaneo: la viralità. Sia in DRIB che in Sick of Myself, infatti, vediamo persone inserite in un contesto in cui l’esserci è oramai anteposto all’essere. E questo esserci è per l’appunto virtuale: passa per uno schermo, per una connessione, viaggia mediante fibra, è, letteralmente, etimologicamente virale in quanto contrapposto proprio a un reale, esistente, sostanziale. Persone che inseguono i propri simulacri, che non riescono più a percepire se stesse se non tramite la propia immagine riflessa, riferita, condivisa e likata.

Se Amir, il protagonista di DRIB, appariva però in qualche modo cosciente di questo meccanismo, osservatore ironico ma anche attore intrapplato della catena di eventi da lui stesso messa in moto – il film si proponeva come un mockumentary su un personaggio “reale” (le virgolette sono qui più che mai d’obbligo) interpretato dallo stesso Amir Asgharnejad, youtuber assunto da una multinazionale di bibite dopo essere divenuto virale per delle risse di strada da lui stesso provocate e rivelatesi poi interamente artefatte – Signe è invece una “ragazza malata” (questa la traduzione letterale del titolo originale norvegese) non tanto o non solo del male misterioso provocatole dall’inquietante farmaco russo da lei clandestinamente assunto, ma di un protagonismo ormai fuori controllo che la porta incontro a conseguenze terrificanti. Tuttavia non è peregrino sottolineare come, guarda caso, la malattia che Signe si procura riguardi proprio la pelle, ovvero l’estremo confine del corpo, quello più proiettato verso l’esterno. Perché tutto, in lei, rimarca un tentativo estremo e disperato di proiettarsi al di fuori di sé, a tal punto che infine la pelle si riempie di piaghe, si lacera e infine cede. Questa pelle troppo sottile e costringente per contenere un’identità sempre più labile e instabile, votata a quella illusoria trascendenza garantita dai follower e dalle condivisioni.

Un film in questo senso dunque cronenberghiano (senza voler suscitare ingenerosi e impietosi paragoni) pienamente calato nella contemporaneità, la stessa che vede il web popolato da giovani ed emeriti sconosciuti che, inseguendo una fama effimera, compiono ogni genere di challenge dagli esiti spesso autolesionistici (ad esempio il caso eclatante della Blue Whale), quando non fatali (le esperienze di autoprivazione dell’ossigeno, denominate black out o chocking game). E cambia poco il fatto che qui Signe si ingozzi di pillole non perché irretita da una di queste gare mortali bandite su internet, ma in maniera del tutto autoindotta. Il sintomo da cui è colta è infatti il medesimo: la necessità di dare prova della propria esistenza, di essere ammirata dagli altri, certo, ma, ancor prima, di essere vista. Ottenendo in tal modo la certificazione della propria esistenza.

Ed è nella piena aderenza al punto di vista della sua protagonista che Borgli – seppur a una distanza di sicurezza offerta da un black humour perlopiù ben dosato – riesce a evitare le trappole insiediose del film a tesi, della metafora fin troppo esplicita. Quando sentiamo Signe, risvegliatasi in ospedale dopo il ricovero d’urgenza, chiedere come prima cosa “La gente chiede di me?”, la nostra reazione è combattuta tra un ghigno derisorio e una fitta di malessere per via della totale trasparenza con cui la ragazza manifesta una volta di più questo suo sentirsi invisibile a se stessa. “Non proprio”, le risponde il fidanzato, Thomas. “E’ perché sono qui ancora da poco”, replica lei, poco convinta. A sua volta, Thomas è un sedicente artista divenuto famoso (ha conquistato anche la copertina di un’importante rivista) per le sue creazioni, delle sedie di design che sono in realtò frutto di un ladrocinio da lui commesso in un locale. I due, immersi in una relazione più di facciata che disfunzionale, fanno a gara per primeggiare, per oscurarsi a vicenda, parassiti l’uno nel corpo dell’altra. A un certo punto, mentre si trovano su un autobus, nel momento in cui Thomas scorge una donna che osserva il volto di Signe nascosto dalle bende, stringe a sé la sua ragazza con gesti teneri e affettuosi – un’affettuosità che, nell’intimità della loro casa, non le dimostra mai – al solo scopo di suscitare ammirazione e consenso in quell’osservatrice occasionale. Attraverso Thomas, il regista sembra togliersi più di un sassolino dalla scarpa su certi presunti artisti, sempre più simili a influencer, che infestano il mercato dell’arte (e come dargli torto). Ma si prende gioco anche del politicamente corretto tramite una rivista di moda che vuole realizzare un servizio sulla deturpata Signe con l’intenzione di farne una modella, campionessa di una bellezza diversa e alternativa.

C’è da dire che non sempre Borgli riesce a evitare tentazioni e scorciatoie: nell’unica scena in cui Signe e Thomas fanno l’amore, lei si eccita a sentirgli dire frasi come “mi occuperò di te”, come fossero frasi sporche, o nel farsi raccontare come sarebbe il suo funerale se lei morisse. Oppure la scena in cui, alla riunione di medicina alternativa, la madre di Signe sparge il suo vomito in terra e il moderatore ne raccoglie dei brandelli per poi annusarli. Lo stesso vale per la poca originalità di una colonna sonora di archi stridenti spudoratamente simile a quelle usate da Ari Aster nei suoi film. Tuttavia la progressione narrativa che porta Signe a divenire sempre più incapace di distinguere tra la realtà e le proprie proiezioni mentali, tramutandola in una sorta di Amélie all’incontrario, che anziché trasformare la vita degli altri in favole, trasforma la propria in un incubo, ha una sua innegabile e spietata efficienza: una parabola pungente e urticante, pienamente centrata sul contemporaneo. Tanto più che, molto intelligentemente, il regista non fa nulla per distinguere visivamente i due spazi (né alterando tonaità o colore della fotografia né in altro modo), rendendoli di fatto perfettamente contigui ed entrambi plausibili. Più che Amélie, un riferimento più preciso potrebbe essere quello riguardante un altro grande mitomane del grande schermo, il Billy Fisher di Billy il bugiardo (Billy Liar, 1963, John Schesinger), un giovane impresario delle pompe funebri senza nessun talento se non quello di rendersi protagonista assoluto di ogni genere di avventura immaginaria. Dalla medietà e mediocrità inglese che si andava riversando sugli schermi con i cosiddetti film kitchen sink del primissimo Free Cinema, a quella di esseri virtuali in cerca di una conferma della propria esistenza. È questo, sembra dire il giovane regista, il vero panorama horror sull’oggi, e ne prende atto realizzando immagini che in alcuni momenti sfiorano il gore: la scena in cui Signe, risvegliandosi, si ritrova con la guancia deturpata incollata al tavolino ne è forse il migliore e raccapricciante esempio.

Davvero ottima l’interpretazione dell’attrice protagonista, Kristine Kujath Thorp. E c’è anche un cameo dell’attore trieriano (nel senso di Joachim, non di Lars) Anders Danielsen Lie nel ruolo di un medico che, durante una delle allucinazioni di Signe, le annuncia l’arresto e l’immediata esecuzione. Lo stesso Borgli, che appariva anche in DRIB, si ritaglia il ruolo del regista di spot di moda.

Info
Sick of Myself, il trailer.

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