Tarda primavera

Tarda primavera

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Secondo film in ordine cronologico a tornare in sala in occasione di alcuni restauri sull’opera di Yasujirō Ozu, Tarda primavera è unanimemente riconosciuto come uno dei massimi capolavori del maestro giapponese, nonché uno dei primi esempi perfettamente compiuti del nuovo stile che egli era andato sviluppando sin dall’epoca del muto, nei suoi numerosi film d’anteguerra. Un cinema che dopo decenni continua a parlare e a emozionare gli spettatori di tutte le età e latitudini.

Immutabilità e cambiamento (il sorriso di Noriko)

Shukichi Somiya, vedovo, vive felicemente con la figlia Noriko che, nonostante abbia l’età per sposarsi, desidera risolutamente continuare a vivere col padre. Tuttavia Shukichi, temendo che la ragazza sacrificandosi per lui rimanga nubile, dopo aver cercato invano di convincerla, le dice di aver deciso lui stesso di risposarsi. Così facendo però suscita lo sdegno e il dolore di Noriko. [sinossi]

Quando Tarda primavera (Banshun) uscì sugli schermi giapponesi era il 19 settembre del 1949 e mancavano ancora due anni e mezzo alla fine effettiva dell’occupazione alleata (ma principalmente statunitense) del territorio giapponese siglata sei mesi prima. Yasujirō Ozu era già famoso e considerato tra i registi più importanti già da tempo, almeno dall’inizio degli anni Trenta, ma i primi due film che diresse dopo la fine della guerra, Il chi è di un inquilino (Nagaya shinshiroku, 1947) e Un gallina nel vento (Kaze no naka no mendori, 1948), dove aveva cercato di mostrare le rovine reali e morali di un Paese ancora in ginocchio, non erano stati un grande successo. Una chiave di volta fu il nuovo sodalizio con lo sceneggiatore Kōgo Noda, insieme al quale Ozu aveva lavorato in modo intermittente sin dall’inizio della sua carriera, compreso il film d’esordio, Zange no yaiba (1927), l’unico jidai-geki (film in costume di ambientazione storica) da lui mai girato e purtroppo andato perduto assieme a tanti altri suoi film muti. Tarda primavera segna l’inizio del loro nuovo sodalizio, che stavolta sarà indissolubile, forte anche dei successi ottenuti, e proseguirà per oltre un decennio, fino a quel 1963 che spense la vita e la carriera del regista.

L’altro incontro fondamentale è quello con Setsuko Hara, all’epoca ventottenne, che aveva esordito alla metà degli anni Trenta per la Nikkatsu, per passare poco dopo alla Toho – dove fu la magnifica protagonista del film di Akira Kurosawa Nessun rimpianto per la mia giovinezza (Waga seishun ni kuinashi, 1943) – e approdare infine alla Shōchiku nel 1947, anche se non in esclusiva (al contrario di Ozu che, salvo rarissime eccezioni, vi lavorò per tutta la vita). Attrice oramai affermata e molto richiesta, Setsuko Hara entrò da subito in sintonia con il cinema di Ozu, incarnandone perfettamente tutte le più sottili sfumature, proprio come l’altro grande attore Chishū Ryū, che invece lavorava con lui sin dagli inizi. Con il nome di Noriko, l’attrice tornerà sul set di altri due dei sei film che girerà per Ozu. Non solo ma il personaggio di Noriko farà da matrice per altri personaggi, compresa la Michiko di Il gusto del sakè (Sanma no aji, 1962), ultimo film del regista.

Personaggi e attori che tornano, quasi sovrapponibili, e assieme a loro storie, intrecci e ambientazioni simili. I film di Ozu, a partire in particolar modo proprio da Tarda primavera, si propongono l’uno dopo l’altro come una serie di ripetizioni e variazioni all’interno di un’unica sinfonia, di un universo omogeneo calato in un microcosmo famigliare piccolo-borghese. Con questo film prende dunque definitivamente corpo lo stile classico di Ozu, sviluppatosi nel corso degli anni sin dall’epoca del muto, ma che è andato via via depurandosi, rinunciando, fra le altre cose, a ogni espediente di regia “visibile”: i movimenti di macchina, ma anche l’uso di primissimi piani, dettagli e dissolvenze, tutti dispositivi derivati dal cinema americano che negli anni Trenta Ozu aveva usato in abbondanza. Anche gli eventi narrati si fanno meno eclatanti, più minimalisti e diviene più rigoroso il modo in cui sono trattati. Lo stile di Ozu si esprime infatti attraverso l’uso accorto di determinate strategie formali che orientano i suoi film verso la stilizzazione e l’astratto, quasi un corrispettivo di ciò che dell’interiorità umana rimane inespresso nel suo rapportarsi con il mondo e il tempo. Strategie che, se concorrono a creare un certo grado di straniamento nello spettatore, non danno però mai esito a un’effettiva presa di distanza: semmai il coinvolgimento si fa ancora più profondo e sorprendente. Alcuni esempi: la frammentazione dello spazio negli interni, per il quale sono funzionali la particolare struttura di porte e pannelli scorrevoli (shoji e fusuma) delle case tradizionali giapponesi, con le loro linee verticali e orizzontali, la posizione della macchina da presa “ad altezza tatami”, le inquadrature fisse, l’assenza o il rinvio di establishment shots (totali d’ambiente), le ripetizioni, con o senza variazione, di inquadrature simili, i raccordi “sbagliati” e gli scavalcamenti di campo, e altri accorgimenti cui si accennerà più avanti.

All’inizio di Tarda primavera, l’apparizione di personaggi ed eventi è preceduta da visioni di paesaggi spogli, inanimati: ripetute inquadrature fisse indugiano su una stazione vuota, sui binari deserti; infine gli alberi, attraverso i quali si vede la sommità di un tempio. La stazione è quella di Kita Kamakura, nel nord della città, dove si trovano tre dei cinque maggiori templi locali, fra cui il Kenchoji, uno più antichi templi zen di Kamakura, dove Noriko e sua zia si sono recate in occasione di una cerimonia del tè. Immagini di transizione che ci trasportano dunque nel “mondo degli esseri umani”. Ma una volta giunti al tempio e introdotti due dei personaggi principali, la macchina da presa di nuovo indugia all’esterno: l’erba che ondeggia leggermente nella brezza, il cinguettio degli uccelli. Tutto sembra perfettamente calmo, sereno, armonioso (wa). Immagini che durano sempre qualche secondo in più di quanto ci si aspetterebbe, ritardando e poi rallentando l’azione umana e favorendo perciò la “contemplazione” di uno spazio che vive di una sorta di equilibrio tra immutabilità e divenire, tra ciò che si muove e cambia e ciò che invece permane: l’erba che si muove dolcemente; i binari vuoti in attesa del passaggio dei treni, e così via. È, secondo alcuni studiosi, l’equivalente visivo del termine mu, un concetto del Buddhismo Zen approssimativamente traducibile con “vuoto”, che Ozu volle fosse inciso sulla sua lapide (che fra l’altro si trova proprio a Kamakura, nel tempio Engaku-ji). Ed è, questo, un altro dei procedimenti formali del regista, che tornerà più volte nel corso del film: inserti o transizioni sotto forma di nature morte (vasi, bollitori, panni stesi) o di vedute paesaggistiche, sia naturali (alberi, cielo, mare) sia artificiali (cisterne, ciminiere, insegne, o il vano di una casa momentaneamente disabitato) che quasi mai sono la risultante dello sguardo dei personaggi: esistono e appaiono di per sé.

Da questo iniziale sguardo sul “vuoto” prendono il via le vicende umane. Poco più avanti vediamo Noriko svolgere, in casa, le funzioni di una figlia devota: cucinare, fare la spesa, riordinare gli appunti del padre studioso, Shukichi Somiya (Chishū Ryū) sempre col sorriso sulle labbra. In realtà sembra assumere su di sé anche altri ruoli: segretaria, moglie, persino madre, come quando arriva a rimbrottarlo scherzosamente quando Shukichi vorrebbe mettersi a giocare a Mah Jong col giovane collega Shōichi Hattori (Jun Usami), anziché terminare il suo lavoro. In definitiva, entrambi, padre e figlia, sono felici e fra loro sembra regnare un equilibrio perfetto, una completa armonia (wa, di nuovo). Questo equilibrio però è incrinato dal cruccio del padre, dal suo sentirsi un egoista per il fatto di trattenere la figlia presso di sé e impedirle in tal modo di sposarsi e avere una vita sua. E così ripone le sue speranze nel giovane Hattori. Noriko, da parte sua, è determinata a restare accanto al padre, che non vuole lasciare da solo. Di fatto, il senso del dovere (giri) di Noriko sembra sufficiente ad appagarla o quantomeno prevale sulla ricerca del propria felicità. Bisogna ovviamente contestualizzare questo aspetto nel Giappone di quegli anni, quando il matrimonio era ancora considerato il coronamento della vita di una donna.

Nella celebre sequenza in cui Noriko e Hattori si recano al mare in bicicletta, lei lo punzecchia e sembra quasi flirtare, tanto che siamo portati a credere che fra i due è finalmente scattato qualcosa. Mentre pedalano, a un certo punto sono inquadrati in due primi piani distinti, entrambi dal basso, con visibile solo il volto e la parte superiore del busto stagliati contro il cielo. Sembrano volteggiare da fermi, come se quello stato di momentanea gioia volesse eternarsi, imprimersi nella loro memoria per sempre. A questa sensazione concorrono le immagini del cielo sereno e luminoso e del mare che scorre di lato alla strada su cui i due pedalano. Subito dopo, l’immagine simbolica e connotativa delle loro biciclette abbandonate all’inizio della spiaggia, ritte una accanto all’altra, sembra ribadire e incoraggiare l’aspettativa di questa unione. Aspettativa che verrà però delusa: più avanti infatti scopriremo che Hattori sta per sposarsi. E’ la stessa Noriko a rivelarlo al padre, in tono sereno e quasi scanzonato, aggiungendo anche di non essere mai stata interessata a lui. Ma è davvero così? Sulla spiaggia abbiamo visto Noriko felice, per nulla timida, prendersi anche delle confidenze nei confronti di Hattori (ma forse proprio perché non lo ama).

Più avanti i due giovani si rincontrano a Tokyo e Hattori le propone di andare a teatro insieme, ma Noriko declina, dicendo che non vuole mettersi in mezzo a due persone che stanno per sposarsi. Dunque è consapevole delle inclinazioni di Hattori nei suoi confronti (per quanto mai esplicitamente espresse), ma non lascia intendere se le ricambia oppure no. E così, mentre il giovane siede in teatro, il cappello posato sulla sedia accanto alla sua rimasta vuota, lei si allontana sola per le vie della città con passo lento, e appare pensierosa. E’ inevitabile dunque chiedersi se Noriko sia davvero sincera nel suo disinteresse per Hattori, o se sia talmente decisa a non voler abbandonare il padre da scartare ogni altra alternativa.

Ad osservarla bene, Noriko è un personaggio pieno di contraddizioni. Il suo aspetto esteriore è quello di una ragazza moderna: veste abiti occidentali, i suoi capelli sfoggiano una permanente alla moda (attributo che probabilmente fa parte del look stesso dell’attrice, a giudicare da altri film del periodo) ed è abituata a dire ciò che pensa senza tanti problemi. Eppure sembra attaccata ai valori tradizionali: non beve sakè e trova immorali gli uomini che si risposano, una posizione alquanto conservatrice: questo aspetto emerge in una scena antecedente che si svolge a Ginza, in cui Noriko incontra Onedara (Masao Mishima), un vecchio amico del padre, e insieme vanno a mangiare in un ristorantino. Onedara, che è un tipo gioviale e spiritoso, si è risposato e Noriko, per quanto bonariamente, lo rimprovera asserendo di trovarla una cosa immorale. L’uomo scoppia a ridere. Questa conversazione leggera è la prima incursione nel tema dominante del film, che riemergerà più avanti ma con un tono decisamente drammatico. Nel frattempo Noriko subisce i tentativi di persuasione da parte di alcune amiche e soprattutto della zia Masa (Haruko Sugimura), che è anche colei che le mette la pulce nell’orecchio su un eventuale rimatrimonio del padre con una donna di nome Akiko (Kuniko Miyake). Davanti a questa prospettiva, l’atteggiamento di Noriko muta drasticamente e il suo sorriso fin qui quasi costante si spegne.

Da parte sua, Shukichi si rivela una figura piuttosto moderna. Ama teneramente sua figlia ed è felice di averla accanto, ma si preoccupa per lei. Inoltre mostra un’attitudine aperta verso i giovani e le nuove tendenze. Questo è un aspetto importante per rimarcare il fatto che questo film, come i successivi di Ozu, nonostante quanto detto fin qui, non sono però mai avulsi dalla realtà del Paese e dai rapidi mutamenti che vi stanno avvenendo. Semplicemente Ozu non è interessato a fare proclami o a soffermarsi in modo diretto sulla situazione politica e sociale del Giappone, preferisce lasciar trapelare dei rapidi accenni che difatti ritroviamo anche qui. Di Noriko ad esempio veniamo a sapere che, durante la guerra, ha lavorato alacremente e, nei giorni liberi, andava in giro cercando di procurarsi il cibo per la famiglia, finendo per ammalarsi, presumibilmente di tubercolosi (a Tokyo era andata anche per misurarsi la VES). Quanto a Shukichi, quando in una delle prime scene sua sorella Masa gli racconta con sdegno di essere stata a un matrimonio in cui la sposa ha mangiato troppo, sporcando il sashimi di rossetto e bevendo persino il sakè (il che “non sta bene”), l’uomo sorride mostrando indulgenza verso i nuovi costumi dei giovani, meno attaccati alle tradizioni. Comunque sia, è Masa a incalzarlo affinché parli con sua figlia per convincerla a sposarsi. Dopo averlo fatto e aver scoperto che Hattori è già fidanzato e che Noriko non sembra interessata ad altri, il padre decide di forzare un po’ la mano. Ma lo scopriamo solo in quella che è la scena decisiva, un colloquio padre-figlia che rappresenta il climax drammatico dell’intero film.

È sera, i due sono in casa. Noriko non sorride e non parla. Da diversi giorni appare scostante nei confronti del padre, ed è ragionevole pensare che sia la prima volta che ciò accade. L’abbiamo vista addirittura cambiare lato della strada mentre i due camminavano vicini, di ritorno dallo spettacolo di teatro Noh, in cui il piacere della visione si era improvvisamente interrotto, per Noriko, nel momento in cui aveva scorto fra il pubblico Akiko, la donna che il padre forse sta per sposare. Il volto di Noriko a quel punto era diventato una maschera di dolore. E’ come se la ragazza si sentisse in qualche modo tradita. Quella sera, quando il padre comincia a parlarle, insistendo con tono calmo affinché lei prenda almeno in considerazione un nuovo candidato proposto sempre dalla zia, Satake, appartenente a una buona famiglia, Noriko improvvisamente lo affronta, chiedendogli se è vero che ha intenzione di risposarsi con Akiko. Non si tratta di un’unica domanda, ma di una raffica di domande brevi, come se Noriko, faticando a venire a patti con la realtà, non potesse tollerare di scoprire la verità tutta insieme, ma solo un pezzo alla volta. A tutte le domande, Shukichi risponde con un cenno assertivo del capo accompagnato da un verso di conferma. La scena è mirabile anche per come è girata: da un certo punto in poi, il campo/controcampo diventa frontale, di 180 gradi, e così entrambi gli interlocutori, a turno, guardano in prossimità dell’obiettivo della macchina da presa. E’ una tecnica “eterodossa” rispetto alle normali convenzioni dei raccordi di sguardo, che Ozu tuttavia infranse ben presto nella sua carriera, tant’è che se ne trovano esempi ricorrenti sin dai film muti, e fa sì che lo spettatore sia in qualche modo lui stesso l’interlocutore di volta in volta dell’uno o dell’altro dei due personaggi, chiamato in causa, al centro del fuoco di fila delle domande di Noriko, e delle risposte laconiche del padre. Shukichi in realtà le sta mentendo, e con grande, malcelata fatica: non ha nessuna intenzione di risposarsi, ma vuole che lei vada per la sua strada. Ma questo Noriko verrà a saperlo solo dopo essersi sposata, ed è una scena che lo spettatore potrà semmai figurarsi nella sua mente, a film già finito. Ad ogni modo, in questa scena il coinvolgimento emotivo – nel primo momento apertamente di crisi, che giunge peraltro quasi a metà film – è totale. Alla fine Noriko, si alza, rabbiosa, trattenendo a stento le lacrime e corre in camera sua. Ed ecco come Ozu risolve la sequenza: il padre la segue su per le scale, col suo andamento calmo. Si affaccia nella sua stanza dove lei è seduta a un tavolino dandogli le spalle e da lì si limita a invitarla a tornare a parlare con la zia di quel giovane. Conclude dicendo: “Ah, domani farà bel tempo”. E se ne va. A quel punto Noriko, per la prima volta, scoppia a piangere a dirotto.

È significativo il fatto che, così come non vedremo mai Shukichi dire alla figlia che non si risposerà, così non vedremo mai Satsuke, il futuro marito di Noriko, ma solo i preparativi del matrimonio. Questi sono preceduti però da un viaggio a Kyoto dove padre e figlia si confrontano un’ultima volta, nella loro stanza d’albergo, in un’atmosfera di ritrovata armonia (ancora: ripetizioni e variazioni) nella loro stanza d’albergo. Noriko ha recuperato il suo bel sorriso e sembra serena. Eppure anche questo è un momento altrettanto, se non più, struggente, proprio in virtù della maggiore compostezza dei due, e anche perché è l’ultimo viaggio che faranno insieme. Una donna che si sposava, infatti, entrava a far parte della famiglia dello sposo, con tutte le responsabilità che questo comportava, e presumibilmente avrebbe avuto meno tempo per fare o ricevere visita ai propri genitori: a questo tema e alle sue dolorose implicazioni Ozu dedicherà uno dei suoi più acclamati capolavori, Viaggio a Tokyo (Tōkyō monogatari, 1953). La prima sera i due si coricano. Noriko vorrebbe parlare col padre, ma questi è già addormentato. Al buio, lo sguardo della ragazza si ferma su un vaso vuoto (ancora una natura morta, un “oggetto di meditazione”) mentre fuori la sagoma nera di una fronda, visibile attraverso la parete di carta di riso, si agita nella notte. In seguito, la mattina prima della partenza, mentre fanno i bagagli, Noriko parla al padre a cuore aperto, come una bambina, gli confida che lei è felice anche così, insieme a lui, e vorrebbe che tutto restasse com’è. Il matrimonio è oramai deciso, lei lo sa, eppure sente il bisogno di esprimergli i suoi sentimenti. Shukichi le parla a lungo, ribadendo serenamente ciò che già le ha detto in precedenza, ciò che lei oramai sa. Stavolta infatti Noriko accetta senza discutere, è come se quel dialogo si fosse già svolto dentro di lei, mentre osservava quel vaso la notte prima. Eppure, di nuovo, non sappiamo cosa realmente nasconda il suo sorriso: è per un proprio desiderio che alla fine ha accettato il matrimonio combinato con Satsuke? Oppure vuole solo esaudire il desiderio del padre, confermando così ancora una volta l’amore profondo che ha per lui?

Il cambiamento. L’impermanenza. Tutto deve necessariamente cambiare, anche se “lì fuori” fondamentalmente nulla cambia. Noriko ha raggiunto la sua “tarda primavera”, quell’età in cui deve necessariamente fare la sua vita prima che sia troppo tardi; diversi anni dopo Setsuku Hara interpreterà un’altra madre rimasta vedova che farà lo stesso con la figlia e rimarrà sola: è Tardo autunno (Akibiyori, 1960), quasi un remake del film del 1949). Il tardo autunno qui è invece quello del padre di Noriko il quale, senza nessuna intenzione di risposarsi, dopo il matrimonio e la partenza della figlia (che avvengono per ellissi, sottolineando con ciò la preminenza dei sentimenti rispetto agli eventi), rimane solo. Il motivo dunque per cui i personaggi di Ozu appaiono, la loro unica ragione d’esserci, sembra essere quella di una momentanea crisi che scombina l’ordine delle cose, l’improvvisa increspatura delle onde di un lago provocate dal lancio di un sasso. Subito dopo, quelle onde sono riassorbite nell’immobilità del lago. È così che Ozu osserva sia il “braccio di ferro” fra tradizione e modernità, sia più in generale l’umano affannarsi, nell’illusione che agendo – o rifiutandosi di agire – si possa cambiare l’ordine fondamentale delle cose. Ma infine ci si rassegna, potremmo dire con stoicismo. Oppure con quel sentimento che i giapponesi chiamano mono no aware, un’accettazione dolorosa o nostalgica in cui però risiede anche la bellezza. Cosicché alla fine il sorriso, il pianto i momenti di rabbia, tutto viene riassorbito nello scorrere delle cose, nell’avvicendarsi delle stagioni che tanto spazio hanno nei titoli dei film del dopoguerra del grande maestro giapponese. Un’impermanenza che è solo l’altra faccia di un’imperturbabile immutabilità: l’essere umano non può che prenderne atto e proseguire il proprio cammino.

ps. La versione di Tarda primavera che esce in sala è quella del restauro in 4K effettuato dalla Shōchiku e già distribuita dalla Tucker nel 2015.
Info
La scheda di Tarda primavera sul sito della Tucker.

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