Buon giorno
di Yasujirō Ozu
In un Giappone che ha sempre più perso di mira le proprie tradizioni (mantenendo però le più vacue formalità), ed è stato invaso dagli elettrodomestici occidentali, Yasujirō Ozu innalza con Buon giorno un’elegia gioiosamente riottosa ai bambini, unici portatori di eversione in un universo ingessato e che ha eliminato ogni tipo di dialogo.
Il silenzio è d’oro
In un piccolo sobborgo di Tokyo, i ragazzi si recano a casa dell’unico proprietario di una televisione per guardare gli incontri di lotta. Due di loro cercano di convincere in tutti i modi i genitori a comparare un apparecchio televisivo, ma questi, ignorando le loro richieste, li esortano a stare tranquilli. I due fratelli decidono di non parlare più mettendo i genitori in grande imbarazzo, anche di fronte ai vicini che li considerano crudeli nei confronti dei figli. [sinossi]
Quale valore ha un suono? Nel febbraio del 1931 uscì nelle sale giapponesi Tom Sawyer di John Cromwell, con uno scatenato Jackie Coogan nei panni del giovane protagonista delle avventure ideate dalla penna di Mark Twain: la presenza dell’adolescente attore in scena in una certa qual misura andava a chiudere un cerchio ideale all’interno della produzione hollywoodiana incentrata sui più piccoli apertasi – semplificando invero il discorso – con l’allora cinquenne Coogan a fungere da spalla di Charlie Chaplin ne Il monello. L’infanzia del cinema statunitense era terminata, se si vuol procedere sul filo della metafora, e con l’avvento del sonoro si entrava nell’età matura dello sfruttamento commerciale. Il successo di Tom Sawyer e di altre pellicole statunitensi con al centro bambini o adolescenti solleticò non poco le brame delle rampanti case di produzione giapponesi, dove ancora vigeva in realtà il ricorso alla costruzione muta della narrazione: per quanto il primo film completamente sonoro della produzione nipponica sia マダムと女房, vale a dire Madamu to nyōbō, diretto nel 1931 da Heinosuke Gosho e prodotto dalla Shochiku ricorrendo per la registrazione dell’audio al sistema ideato dai fratelli Tsuchihashi, il decennio che in Giappone è segnato dall’invasione della Manciuria vide una netta preminenza del muto – magari con audio post-sincronizzato o con l’aggiunta di un commento di un benshi. Ne è testimonianza tra gli altri il cinema di Yasujirō Ozu, vedette alla Shochiku, che realizzò il suo primo film parlato “solo” nel 1936 quando pose la firma in calce a Figlio unico (一人息子, nella traslitterazione Hepburn leggibile come Hitori musuko). Pochi anni prima, nel 1931, Ozu sottopose alla casa di produzione l’idea di dirigere un film che avesse per protagonisti dei bambini: con il successo del film di Cromwell che aleggiava nell’aria non fu difficile strappare un sì alla Shochiku, e tra novembre 1931 e l’aprile successivo venne alla luce Sono nato, ma… (大人の見る絵本 生れてはみたけれど, cioè a dire Otona no miru ehon – Umarete wa mita keredo – letteralmente “La visualizzazione di un libro illustrato per adulti – Sono nato, ma…”), mesta commedia che è anche tra i primi grandi canti di Ozu sulla disillusione, sul mondo urbano caotico e destinato a ingoiare gli esseri umani che vi vivono, e su quel mondo dei “salariati” che rappresenteranno – come l’intera middle class – il nucleo fondativo dello sguardo del regista sulla sua terra natia. Siamo già dalle parti dello shomingeki, o shōshimin-eiga, il “film borghese” che Ozu aveva imparato da quello che può essere considerato a tutti gli effetti il suo “maestro”, vale a dire Yasujirō Shimazu.
Si faccia un balzo in avanti di ventisette anni. È il 1959, da appena un anno (Fiori d’equinozio) Ozu si è confrontato con il colore – che in Giappone è stato sperimentato per la prima volta nel 1951 da Kinoshita con Carmen torna a casa (カルメン故郷に帰る, Karumen kokyō ni kaeru) – affidandosi per la fotografia al fedelissimo Yūharu Atsuta. Il regista giapponese, che sta scandagliando con una precisione certosina il mondo a lui contemporaneo, squadernando il Giappone post-bellico con una forza gentile e una adesione ai suoi personaggi che ha pochissimi eguali nell’intera storia della Settima arte, desidera tornare alla riottosità dell’infanzia, spalancando gli occhi sull’oggi con lo sguardo dei bambini. Non è errato, come si legge un po’ ovunque, affermare che Buon giorno (お早よう, Ohayō) sia un remake “mascherato” di Sono nato, ma…, eppure allo stesso tempo si tratta di una affermazione semplificante, e che merita un approfondimento per quanto breve. C’è uno spunto, un’idea, che Ozu riprende a distanza di quasi tre decenni e che innerva con forza la spina dorsale di Buon giorno: i due bimbi protagonisti, contrapponendosi al mondo degli adulti in cui volenti o nolenti sono costretti a vivere, entrano in sciopero. Se nel 1932 la contestazione prevedeva di rifiutare il cibo, nell’opulenza nipponica del 1959 tale atto sarebbe letto in modo meno eversivo, e dunque Ozu decide che Minoru e Isamu – i bimbi della famiglia Hayashi – smetteranno di colpo di parlare. L’atto di ribellione del cinema di fine anni Cinquanta, quando oramai non si può neanche pensare di “rifiutare” il colore, sta nel ritorno al muto, nella rinuncia effettiva e assertiva della tecnologia contemporanea per ritrovare la purezza – come sempre, in Ozu, anche e prioritariamente interiore – di un tempo passato. Archeologia in piena regola ora che il Giappone ha abbandonato la sua fase militarista (è stato anche privato dell’esercito per legge), è riemerso dalle macerie dei bombardamenti atomici, e si è lanciato nel rutilare del Capitalismo occidentale. La dialettica costante nel cinema di Ozu dopo la fine della Seconda guerra mondiale tra l’archetipo culturale nipponico e l’immagine della modernità importata dall’occupante statunitense viene forse parzialmente meno in Buon giorno, e d’altro canto Minoru e Isamu sono solo due bimbetti, nati dopo il Ningen-sengen, la dichiarazione della natura umana dell’imperatore promulgata da Hirohito come parte del discorso di Capodanno del 1946. Sono moderni senza neanche volerlo. Ammutolirsi per scelta, trasformando una commedia contemporanea in un film in tutto e per tutto muto, è un vero atto rivoluzionario (pur nella reazione ai “tempi moderni”). Il fatto che ciò accada l’anno prima dell’avvento “ufficiale” della Nuberu bagu di cui sarà massimo e principale cantore Nagisa Ōshima – nel 1960 il regista di Furyo (戦場のメリークリスマス, Senjō no Merī Kurisumasu) dirige sia Racconto crudele della giovinezza (青春残酷物語, Seishun zankoku monogatari) che Notte e nebbia del Giappone (日本の夜と霧, Nihon no Yoru to Kiri) – la dice lunga sul rapporto sempre fertile in Ozu tra classicismo e innovazione, tra ciò che è (o che è stato) e la volontà di non prendere parte all’oggi in modo statico, sterile, vacuo, preordinato.
Nel 1959 la carriera del regista sta volgendo al termine non per motivi di superamento da parte delle intenzioni dell’industria ma solo perché il lungo rapporto con l’alcol, così radicato da essere presente in scena nel corso della carriera (anche in Buon giorno c’è una scena di ubriacatura, con il rischio anche di sbagliare casa tornando da una serata passata al bancone di un bar), arriverà nell’arco di tre anni a reclamare un conto molto salato. Eppure il cinema di Ozu già all’epoca, e ancor prima, appare sempre fuori da ogni tempo, eternamente moderno ma anche antichissimo. Una questione più che altro estetica, prima ancora che narrativa o di “senso”. C’è il formalismo, nemico giurato di ogni autore che lavori sulle immagini, siano essere immote o in movimento: e c’è la forma, che è appannaggio non di tutti, perché è contraddistinta da una consapevolezza del mezzo così profonda da superare i confini dell’arte per accedere al campo filosofico. Certo, ci si potrebbe rifugiare anche nella lettura di Buon giorno nell’ideogramma Mu (“nulla”, “vuoto”) che campeggia sulla tomba di Ozu in quel di Kamakura, per ragionare sulla levità nel lavorare di sottrazione presente anche nella più elaborata costruzione d’inquadratura – la profondità di campo in Ozu assume un valore spaziale che è anche antropologico, sociale, politico, emotivo, narrativo –, ma l’impressione è che in questa soave commedia il gioco prospettico della fotografia sia la scelta del regista di rappresentare un luogo che esiste nel tempo ma resiste nell’umanità, con le persone che muovendosi sono l’unico elemento reale a rendere vivo il quadro, per quanto perfetto esso sia. In tal senso basterebbe il montaggio della prima sequenza per rendere evidente la presa di posizione di Ozu, e il suo fondamentale lavorio all’interno degli schemi sia del cinema giapponese che in quelli – che pure magari lo scoprirono a posteriori – della produzione mondiale. Il moderno entra in ogni inquadratura, con gli elettrodomestici (la televisione poi svolge proprio un ruolo fondamentale all’interno della sceneggiatura), le bevande alla moda, il treno, ma il montaggio è oramai tutto nel piano sequenza a macchina fissa. Che bisogno c’è d’altro quando il montaggio lo si può reperire già all’interno della stessa inquadratura, con le figure in campo lunghissimo magari chiuse nello spazio scenico dal filare di case, o dai panni a stendere?
Certo, al centro del discorso c’è ancora e ci sarà fino alla fine la raffigurazione plastica di una nazione nel pieno di una crisi d’identità che non ha alcun modo di sperare in una ricomposizione del trauma, dettato com’è esso dall’evolversi stesso della Storia e dal progredire del Tempo. Ma Ozu sceglie la via della commedia dal ritmo incalzante, approfittando anche della splendida colonna sonora di Toshiro Mayuzumi che per una volta prende il posto di Kojun Saitō, fedele sodale del regista che tornerà a comporre per lui già nel successivo Erbe fluttuanti (浮草, Ukikusa); una commedia che sembra lo sposalizio tra Charlie Chaplin, il Jean Vigo di Zero in condotta, Jacques Tati, e che utilizza lo slapstick senza però rinunciare al sonoro. Si torna alla domanda con cui si è aperta proprio questa disamina: quale valore ha un suono? Ecco dunque che se il mondo moderno zittisce i giapponesi con i suoi rumori (i clacson, il frastuono che arriva tramite il tubo catodico dalla televisione), ci si può ribellare – rimanendo in silezio, ovviamente – con i rumori corporei, gag scatologiche che contrappuntano con grazia greve l’elegia ai più piccoli di Buon giorno. L’inno non al moderno, ma direttamente al futuro. La vita, Ozu l’ha insegnato da sempre, è deludente, ma una giornata può ancora essere bella.
Info
Il progetto dedicato a Ozu sul sito della Tucker Film.
- Genere: commedia
- Titolo originale: Ohayō
- Paese/Anno: Giappone | 1959
- Regia: Yasujirō Ozu
- Sceneggiatura: Kōgo Noda, Yasujirō Ozu
- Fotografia: Yūharu Atsuta
- Montaggio: Yoshiyasu Hamamura
- Interpreti: Chishū Ryū, Haruko Sugimura, Keiji Sada, Koji Shitara, Kuniko Miyake, Kyoko Izumi, Masahiko Shimazu, Taiji Tonoyama, Tsūsai Sugawara, Yoshiko Kuga
- Colonna sonora: Toshiro Mayuzumi
- Produzione: Shochiku
- Distribuzione: Tucker Film
- Durata: 94'
- Data di uscita: 12/12/2023