4:30

Non aveva neanche trent’anni Royston Tan quando la sua opera seconda, 4:30, iniziò a circolare per i festival internazionali dapprima in Asia e quindi alla Berlinale. Il mondo scopriva un giovane e talentuoso regista, in grado qui di lavorare con grande personalità attorno ai concetti di bildungsroman e minimale.

L’appartamento vuoto

Zhang Xiao Wu, un ragazzino abbandonato a se stesso, passa la sua vita tra la scuola e l’appartamento vuoto nel quale vive. La sua vita è sconvolta improvvisamente dall’arrivo di Jung, un coreano trentenne che sta cercando di affrontare i postumi di una storia d’amore. Nel disperato tentativo di relazionarsi con il nuovo venuto, Zhang Xiao Wu fa di tutto per cercare di trovare un punto in comune tra loro due. Anche per questo motivo si sveglia ogni mattina alle 4:30, penetra di soppiatto nella stanza da letto del coinquilino, e si appropria di ogni cosa che può a suo parere permettergli di capire più a fondo il taciturno trentenne: una lattina di birra, un pelo pubico, un mozzicone di sigaretta. Giorno dopo giorno, avvolti dalla sfiancante ripetitività del quotidiano, i due inizieranno a condividere quel sentimento di solitudine che li accompagna e che, in una Singapore livida e statica, sembra essere il destino dell’intera umanità. [sinossi]

Le case vuote, il senso di solitudine, la grande metropoli mega-urbanizzata che ha sepolto sotto il proprio peso l’umanità, gli ultimi scampoli di un mondo perduto, lontano, forse rammentato. L’adolescenza rabbiosa, disillusa, sperduta. 4:30 è il secondo lungometraggio del singaporiano Royston Tan, e apparve in occidente per la prima volta alla Berlinale 2006, a poco meno di tre anni di distanza dal sorprendente e liberissimo esordio 15 (l’ossessione per i numeri da inserire nei titoli è una prerogativa di Tan, come confermeranno i successivi 881, 12 Lotus, 3688, e 24: perfino tra i suoi molteplici cortometraggi ci si può imbattere in un 177155 o in un 033713), che non era stato particolarmente compreso da pubblico e addetti ai lavori nel 2003 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dov’era approdato grazie al lavoro di selezione della Settimana della Critica. Il passaggio da 15 a 4:30 mostrava in maniera lapalissiana un tentativo di scarto, di evoluzione se non la certificazione di una sopraggiunta maturità autoriale: laddove nell’esordio – che era la versione lunga di un cortometraggio dallo stesso titolo già apprezzato e premiato in giro per il mondo – si notava con una chiarezza cristallina l’urgenza di una messa in scena schizoide, umorale, a tratti quasi istintiva nella sua apparente mancanza di logica, con una serie di scarti e rapsodie improvvise che spostavano in un battito di stacchi di montaggio l’azione dall’ipercinesi tipica dell’estetica del videoclip alla posa statica del long take, in 4:30 questa irruenza espressiva viene meno, e l’intero impianto cinematografico si fa molto più stabile e razionale, senza però che l’insieme diventi paludato, o che a seguito di tale scelta espressiva venga meno l’etica che sembra guidare, fin dai cortometraggi degli esordi, il cinema di Tan, cineasta giovanissimo – all’epoca del secondo film appena ventinovenne – che mostrava un approccio estremamente passionale verso i personaggi che prendevano corpo in scena, in un gioco di simpatie (nel senso etimologico del termine) dirompente, e in grado di trascinare con sé lo spettatore.

È il desiderio di “soffrire con” che porta Tan a descrivere un mondo a parte, quello della città/stato Singapore, dove gli esseri umani sono destinati alla desolazione, persi in un universo dai contorni fin troppo definiti, gabbia fisica che si trasforma ben presto in gabbia spirituale. Era così per gli adolescenti senza arte nè parte di 15 ed è così anche per Zhang Xiao Wu, il ragazzino abbandonato a se stesso dalla madre che funge da effettivo protagonista di 4:30. Nel descrivere la straziante routine nella quale passa le sue giornate Xiao Wu, Tan lavora continuamente di sottrazione, circoscrivendo l’azione a pochi luoghi simbolici e prediligendo inquadrature fisse, semplici, scarne, scabre ed essenziali. L’intento, esibito quanto riuscito, è quello di costringere lo spettatore ad avere una percezione limitata della “realtà” in cui vive il ragazzino: il tratto di strada da percorrere per arrivare a scuola e nel quale svolgono gli esercizi fisici un gruppo di buddisti, l’angolo fuori dalla classe nel quale viene ripetutamente messo in punizione, il negozio di alimentari dove vengono acquistate le tagliatelle in scatola (in pratica l’unico cibo mangiato dai due protagonisti), il baracchino del venditore ambulante di gelati. Perfino l’appartamento nel quale convivono Jung e Wu all’inizio viene celato nella sua totalità dalle scelte registiche di Tan. In un film che è dunque un viaggio di scoperta (del sé in relazione all’altro, della propria condizione di solitudine), anche il pubblico riesce ad avere una visione d’insieme solo in maniera relativa e soprattutto poco per volta, in un crescendo emozionale che è uno dei punti di forza di 4:30. La spinta verso un rapporto umano e il tentativo di costruire una relazione che assomigli anche solo vagamente a quella padre/figlio classicamente intesa, portano Zhang Xiao Wu a cercare il senso della convivenza nei frammenti di vita di Jung che riesce a mettere insieme: nelle lattine di birra che il trentenne si scola ogni sera fino a ubriacarsi regolarmente, addirittura nei peli pubici, il piccolo abbandonato può ritrovare la realtà (impossibile) di un legame affettivo che non ha mai avuto. Wu che si fotografa a letto accanto a uno Jung profondamente addormentato rappresenta con poetica semplicità la disperata voglia di un’intimità che è ignorata da una generazione – e forse anche più d’una – lasciata letteralmente a se stessa. Jung e Wu, entrambi alieni a un mondo tonitruante e ipercinetico, sono vittime sacrificali destinate alla sconfitta, perché la loro ribellione alla prassi, alla norma, all’ovvio è troppo silenziosa, dominata dall’oblio e dalla solitudine.

Ma più che una critica alla società contemporanea, o specificatamente a quella di Singapore, Royston Tan sembrava già all’epoca voler mettere in scena dei microcosmi umani che, per scelta o per necessità, non hanno preso parte al processo di omologazione; inconsapevoli schegge impazzite che pur volendosi far notare (e l’esuberanza fanciullesca di Zhang Xiao Wu è ben più che una vaga indicazione) non hanno ancora la forza per dire la loro sul palcoscenico della società. Resta loro la via del silenzio, come per Wu e Jung: la loro è una delle storie d’amore inespresse più dolorose e catartiche che abbia avuto modo di mettersi in luce nella produzione cinematografica dei primi anni del terzo millennio. Perché non c’è più una reale possibilità di salvezza per i due protagonisti e quella che vivono è una semplice illusione di normalità. La vita li schiaccia, lasciandoli soli e disperati a dipingere di nero gli ultimi sprazzi di luce. Con 4:30 Royston Tan fece un balzo avanti notevole nel proscenio internazionale e iscrisse il suo nome tra i giovani virgulti da tenere d’occhio nel panorama asiatico: anche per questo è doloroso rendersi conto che quasi vent’anni dopo quelle promesse non siano state mantenute, se non in modo sporadico e forse solo in piccola parte. Rivedere 4:30 permette di trovarsi a tu per tu con uno sguardo in grado di trattare l’adolescenza con mano inusuale, seguendo direttrici estetiche chiare e a tratti forse perfino troppo riconoscibili ma con un naturale istinto di ribellione, e di insubordinazione alle regole, tanto della società quanto del cinema. Nella sua posa à la Tsai Ming-liang 4:30 è una tenera e liberissima elegia al diritto universale di essere coccolati, tenuti tra le braccia, amati. E in un’epoca di grandi aridità e astrazione rammentare una poesia sentimentale tanto netta e disperata fa venire un naturale groppo alla gola.

Info
Il trailer di 4:30.

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