Flow

Presentato con riscontri evidentemente più che positivi nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2024, Flow proietta il più che talentuoso animatore e regista lettone Gints Zilbalodis in una nuova dimensione. Già autore di vari cortometraggi, ma soprattutto del sorprendente lungometraggio Away, Zilbalodis conferma tutte le già fertili premesse e si candida a essere uno dei protagonisti del futuro panorama internazionale del cinema d’animazione.

Quattro animali in barca (per tacer del cane)

Il mondo sembra volgere al termine, brulicante delle vestigia della presenza umana. Un piccolo gatto nero conduce la sua vita solitaria ma, poiché la sua casa è devastata da una grande alluvione, trova rifugio su una barca popolata da varie specie, con le quali dovrà fare squadra nonostante le loro differenze. Nella barca solitaria che naviga attraverso paesaggi mistici traboccanti, affrontano le sfide e i pericoli dell’adattamento a questo nuovo mondo… [sinossi]

Boooom. È più o meno questo l’impatto visivo ed emotivo di Flow, gigantesco passo in avanti di Gints Zilbalodis, che già col suo primo lungometraggio Away aveva raccolto attenzioni e premi – Annecy, Anima Mundi, FEFFS. In Italia, tra gli altri, si era visto al Trento Film Festival. Per dire. Una prima differenza tra Flow e Away, fondamentale, la sottolinea lo stesso cineasta lettone sul palco della sala Debussy: questa volta non è solo. Già, questa volta ha alle spalle altri mezzi, sostegno economico e soprattutto pratico. Dalla folle dimensione indie e solitaria di Away alla coproduzione con la Francia di Flow il passo è lungo, ma Zilbalodis mantiene per fortuna fede a una poetica, a uno sguardo e a una sensibilità narrativa che nella sua opera prima non era solo di comodo, non era una costrizione.

Ritroviamo, a parte l’amabilissimo gatto nero, questa linearità narrativo-estetica, il viaggio come nucleo fondante della messa in scena, come traccia da seguire, spesso inseguire. Si procede in avanti in Flow, come in Away. Poi, certo, a volte si deve tornare sui propri passi, ma in entrambi i casi i protagonisti, gli spettatori e la macchina da presa virtuale devono seguire questa sorta di flusso, sono chiamati a proiettarsi costantemente in avanti, a scoprire senza soluzione di continuità nuove porzioni di una terra sconosciuta. Il senso di stupore è infatti ininterrotto, tambureggiante.
Se in Away la storia era ispirata ai sogni e alle fantasie della veglia, in Flow la dimensione è comunque intrisa di suggestioni fantastiche, forse post-fantascientifiche, sicuramente catastrofiche – siamo alle prese con un mondo che viene sommerso, ma una civiltà precedente (la nostra?) era già scomparsa, e altri sconquassanti mutamenti sono alle porte. Al di là dei rumori naturali e ovviamente delle musiche (in parte composte dallo stesso Zilbalodis, questa volta affiancato da Rihards Zaļupe), regna il silenzio. Flow non ha dialoghi, come già succedeva in Away, ma in questo caso la presenza umana è azzerata. La parola è morta da tempo. E, per fortuna, gli animali non sono antropomorfizzati.

La questione dell’antropomorfizzazione è ovviamente centrale. Un gatto, un cane, un lemure, un pacioso capibara, un principesco volatile (un ciconide?) e una megattera (o balenottera, qui brancoliamo nel buio). Ognuno con le tipiche caratteristiche ricorrenti, anche comportamentali. Il cane, che inizialmente è parte di un branco, è un golden retriever. La scelta non è casuale. Nel costruire questa sorta di novella Arca di Noè, Zilbalodis cerca di abbracciare metaforicamente tutti i continenti, qualsiasi provenienza geografica, mettendo insieme animali più comuni come cane e gatto (qui nelle sua più che funzionale versione nera) e altri più esotici dal punto di vista europeo come il capibara – punto di riferimento politico della pellicola, collante morale di un gruppo eterogeneo e apparentemente destinato al fallimento.
Abbacinante nel suo vertiginoso fotorealismo (o, meglio, nell’impressione del fotorealismo), Flow riesce a mascherare i limiti della sua computer grafica. Come? Mostrandoceli, senza alcun pudore. Si veda ad esempio il gatto. Il suo pelo. Imperfetto ma perfetto, il trionfo del pixel come copertura. Un po’ come per la pionieristica animazione limitata di Hanna-Barbera o della Filmation, Zilbalodis sceglie su cosa puntare esteticamente, trova scorciatoie grafiche, elementi sacrificabili. Sarà poi il contesto, la velocità, la complessità cromatica delle inquadrature e il carico emotivo a farci guardare al gattino con altri occhi. Anche nei suoi difetti, Flow è un film avvincente, una sorta di aggiornamento tecnico, estetico e morale del L’incredibile avventura (The Incredible Journey, 1963), proiettato su larga scala e con la consapevolezza che nel frattempo il mondo è radicalmente cambiato. A parte la computer grafica, qui finalmente usata in maniera ammirevole, sono mutate le nostre prospettive, il rapporto con l’ambiente, con la natura. E, nel frattempo, abbiamo anche visto La collina dei conigli (Watership Down, 1978) e The Plague Dogs (1982). Certo, senza uomini tra i piedi, tutto sembra possibile, quantomeno più facile.

Info
La scheda di Flow sul sito del Festival di Cannes.

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