Stranger

Stranger

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Presentato nella Proxima Competition del 58° Karlovy Vary International Film Festival, Stranger è un lavoro del filmmaker Yang Zhengfan, cineasta che si divide tra la nativa Cina e gli Stati Uniti, un film a episodi ognuno dei quali ambientati in una stanza d’albergo. Tra alienazione, claustrofobia e spaesamento l’autore costruisce una metafora della Cina contemporanea come un universo chiuso e asfittico.

Questo albergo non è una casa

Sette episodi, ognuno ambientato in una diversa stanza d’albergo, sette storie brevi, alcune umoristiche e assurde, altre struggenti e misteriose. Una cameriera che fa le pulizie; due individui interrogati dalla polizia; una festa di matrimonio; una coppia che vuole emigrare negli USA e fa le prove per un interrogatorio con il funzionario dell’immigrazione; una ragazza indaffarata al cellulare mentre è in quarantena; un artista di strada si mette il costume. [sinossi]

Con le riforme economiche della fine degli anni Settanta, anche in Cina si è sviluppato un sistema turistico-alberghiero. Le stanze d’albergo come non luoghi, dove le persone sostano transitoriamente, dove tutti sono stranieri, sono oggetto dell’ultimo lavoro del filmmaker e artista visivo Yang Zhengfan, Stranger, presentato nella Proxima Competition del 58° KVIFF. Si tratta di un film in sette episodi costruiti su un meccanismo predefinito: ogni segmento è ambientato in una diversa stanza d’albergo, e girato con un unico pianosequenza. E ogni pianosequenza varia a seconda della situazione, passando da inquadrature fisse dei primi due episodi e dell’ultimo, alla macchina a mano mai ferma nella stanza dell’artista di strada, a movimenti di macchina contenuti per esplorare l’ambiente, al movimento geometrico attorno alla stanza alla festa di matrimonio, con il ribaltamento continuo tra la fila dei fotografati, accanto agli sposi, e quella attorno al fotografo, con le persone che entrano e escono nel campo fotografico. Quest’ultimo episodio, il terzo, segue i primi due a inquadratura fissa, ed è un superamento della stessa, in particolare del secondo dove il secondo livello, quello dei polizotti, rimaneva fuori campo, in una rotazione da ruota viennese, con la musica del Second Waltz di Dmitri Shostakovich, il che permette anche di svelare un retroscena grottesco: lo sposo e un invitato che si palpeggiano reciprocamente il sedere di nascosto.

«Non mi è permesso lasciare questa stanza» dice la ragazza in quarantena. È un’atmosfera di confinamento, al di là del lockdown, che pervade tutti gli episodi, di claustrofobia, di impossibilità di uscire come in una cappa in stile L’angelo sterminatore. Per Yang Zhengfan, che si divide tra la nativa Cina e gli adottivi Stati Uniti, da cui può guardare la patria con un occhio privilegiato (Burn the Film, la sua casa di produzione ha sede a Chicago), tutto ciò è una metafora della Cina come di un grande sistema chiuso, di un grande albergo dalle stanze chiuse a chiave. Il sottotesto politico è esplicito nel secondo segmento, quello dell’ispezione improvvisa con il successivo interrogatorio delle forze di polizia, e il quarto, quello della coppia che pianifica l’immigrazione negli USA. Questo episodio è anche l’unico con un’uscita – la scena esterna dell’aiuola con gli alberi della fine del sesto episodio è comunque vista dal vetro della finestra –, forse onirica, dalla stanza e dall’albergo-Cina. Il tutto avviene con l’apertura di una grande tendone, come un sipario, che magicamente disvela l’immagine di un aeroporto con i voli in partenza per l’America. Le tende a mo’ di sipario tornano nel film, soprattutto nel suo epilogo, una scena in puro stile La finestra sul cortile: tante finestre di un palazzo, tante stanze di un albergo, tanti schermi possibili per altrettante storie. Chi cammina, chi salta, chi parla e chi danza, e c’è anche un misterioso uomo in tuta isolante. Tutte queste finestre prima o poi si chiudono tirando una tenda, su tutti questi teatrini cala il sipario.

Info
Stranger sul sito di Karlovy Vary.

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