Borsalino

Borsalino

di

Costruito e progettato intorno al fascino divistico d’oltralpe di Jean-Paul Belmondo e Alain Delon, Borsalino di Jacques Deray è un divertissement gangsteristico caratterizzato da grande eleganza profilmica e da un vero e proprio canto audiovisivo innalzato al corpo dell’attore. Presentato in versione restaurata alla Festa del Cinema di Roma 2024 per la sezione Storia del Cinema, in omaggio alla recente scomparsa di Alain Delon.

Irresistibili canaglie

Nella Marsiglia degli anni Trenta i banditi François Capella e Roch Siffredi prima si detestano e si prendono a pugni, poi uniscono le loro forze per una rapida ascesa nel panorama criminale della città tramite stringenti rapporti con la politica e l’imprenditoria locale. Diventare gangster di primo rango comporta però rischi sempre più ampi, e la tentazione dell’individualismo è dietro l’angolo.

Anni addietro vi era un vero divismo europeo. Ne è esempio lampante Borsalino (Jacques Deray, 1970), ispirato a figure realmente esistite negli anni Trenta della città di Marsiglia e in seguito evocate nel romanzo Bandits à Marseille di Eugène Saccomano, in cui uniscono le loro forze nientemenoché Alain Delon e Jean-Paul Belmondo, due degli attori più emblematici della storia del cinema francese, immagini indubitabili di fascino virile, nei quali alla bellezza angelica e cristallina del primo si affianca l’aria da irresistibile canaglia del secondo. Si potevano insomma ideare progetti cinematografici in larghissima parte radicati nell’appeal di due vere e proprie star europee di profilo internazionale e costruire il film intorno a loro, nutrendo ottime aspettative di successo al botteghino. Figuriamoci se poi questa coppia di scanzonati adoni veniva convocata per un gangster movie dai toni divertiti, tutto giocato sull’alternanza tra ironia, malefatte, belle donne e squarci di violenza. Gli ingredienti per catturare l’interesse del pubblico c’erano tutti. Le aspettative non andarono deluse. Borsalino ebbe infatti un ottimo successo, tanto da dare vita a un sequel, Borsalino and Co. (Jacques Deray, 1974), con Alain Delon stavolta protagonista in solitaria. Si potrebbe anzi addurre che la popolarità del film abbia contribuito a una più ampia riscoperta del gangster movie in chiave ironica, genere più volte ripercorso lungo gli anni Settanta in Italia (dove Borsalino fu il settimo incasso della stagione) tramite produzioni come Anche gli angeli mangiano fagioli (E. B. Clucher, 1973) e Bluff – Storia di truffe e di imbroglioni (Sergio Corbucci, 1976), rispettivamente interpretate dall’inedita accoppiata Bud Spencer-Giuliano Gemma e dall’altrettanto inedito duo Anthony Quinn-Adriano Celentano. Fin dalle prime battute Borsalino afferma a chiare lettere l’interesse in buona parte centrato sul corpo del divo. La futura amicizia tra i due malavitosi François Capella e Roch Siffredi (sì, lo pseudonimo del noto pornodivo italiano viene esattamente da qui) ha i suoi prodromi in un primo incontro all’insegna di una silenziosa scazzottata. È una scazzottata-balletto, fatta di gesti coordinati e coreografati, che nella sua notevole estensione temporale vede anche la significativa presenza di due pugni scagliati in simultanea da entrambi. Divismo, buffoneria e gangsterismo: fin dalle note del brillante commento musicale a opera di Claude Bolling tutto giocato su sonorità jazz, Deray sembra tenere presente dinamiche e modalità espressive da comica dell’epoca del muto. L’enfasi sul corpo del divo è poi ulteriormente amplificata da un leit-motiv visivo che insistentemente ritorna lungo tutto il racconto; Delon e Belmondo avanzano spesso dal fondo dell’inquadratura verso l’avampiano affiancati uno all’altro, con passo lento e posizione praticamente frontale rispetto alla macchina da presa, senza che questo risponda a particolari esigenze narrative. Pare di assistere più volte a una sorta di sfilata dell’attore, che trova ulteriore enfasi nell’eleganza dei costumi d’epoca indossati, soprattutto da parte di Delon. Un film-défilé virato al maschile, in qualche modo, di cui si rintracciano ulteriori prove in alcune inquadrature (a volte decisamente inessenziali) che vedono Delon attraversare da un punto all’altro lo spazio profilmico per concludersi poi senza particolari contributi al racconto.

Belmondo è la canaglia testosteronica. Delon è il damerino quasi effeminato nella sua eleganza da dandy e nelle pose ieratiche da angelo caduto. Su questa endiadi si articola praticamente tutta l’impalcatura narrativa del film, adagiato sul fascino divistico dei due e sulla loro interazione. Perché i due protagonisti (come del resto spesso accade nel gangster movie più classico) sono sì contornati da uno stuolo di belle donne, ma si delineano anche per pressoché asessuati – mai o quasi mai un bacio alle compagne, pochissime le moine e le espressioni di attrazione. Semmai, Capella e Siffredi sono attratti da se stessi, dall’esibizione di sé, con conseguente soddisfazione dell’ego tramite l’incessante crescita del loro potere in città. La sostanza di Borsalino sembra risiedere tutta qui. È un film, infatti, volutamente e ostentatamente tutto di superficie, non particolarmente interessato a scendere nelle profondità dei propri personaggi né a riflettere, in senso storico o universale, sul gangsterismo anni Trenta in quel di Marsiglia. Un divertissement, che con molta nonchalance vola rapido pure sulla solidità della sceneggiatura. L’andamento narrativo è infatti ondivago ed episodico; il racconto non mostra una robusta vettorialità, bensì accumula situazioni una dopo l’altra senza legarle neanche troppo una all’altra. Più volte sorge pure il sospetto a dire il vero che il film avesse in origine una struttura assai più ampia e articolata, e che poi in sede di montaggio si sia cercato di restare nelle due ore di durata con qualche energico intervento di forbice – ipotesi tutta da dimostrare, sia chiaro. In caso contrario, si deve allora semplicemente accettare che Borsalino sceglie di accennare brani di racconto lasciandoli poi inconclusi, di tratteggiare rapidamente personaggi secondari che sulle prime sembrano importanti per poi abbandonarli lungamente e riprenderli a una certa distanza di racconto, di concentrarsi sostanzialmente sulla narrazione di un’ascesa criminale in un certo senso autoreferenziale, fatta di continui strusci con il potere della politica locale e srotolata in mezzo a singole sequenze anche avvincenti e molto ben realizzate – il divertente sabotaggio al mercato del pesce, e ancor di più l’assalto al macello con la carne appesa data alle fiamme – che però restano episodi isolati e inseriti in una catena narrativa frammentaria e dispersiva. Di storicamente attestato vi è invero il disagio di Belmondo, entusiasticamente convocato da Delon (qui anche in veste di produttore) per realizzare il loro primo film insieme come coppia di protagonisti, ma poi costantemente preoccupato di ricevere pari trattamento sul set rispetto al collega, tanto da aver provocato indirettamente la riduzione del ruolo di Delon tramite vari tagli alla sceneggiatura. La vicenda poi ebbe pure uno strascico giudiziario poiché Belmondo riteneva che nella composizione grafica del manifesto del film il suo nome fosse in qualche modo messo in ombra da quello di Delon, citato per due volte visto che si era occupato pure della produzione. Alla luce di tutto questo, quel passo a due, quell’avanzare uno a fianco dell’altro in molte inquadrature, fa quasi pensare metaforicamente (e magari, chissà, anche molto realisticamente sulla base di precise richieste in fase di contratto e di riprese) alla ricerca di un’ossessiva parità di esposizione divistica.

Come tradizione di gangster movie vuole, l’ascesa nel crimine porta con sé anche un progressivo incarognirsi della violenza, cosicché alla scanzonata prima metà del racconto segue poi una seconda parte più brutale, ma sempre incardinata su una messinscena elegante che tutto sommato si conferma scarsamente interessata a ragionare troppo su quanto narra. A fronte di tutto questo, Deray squaderna invece grande cura del profilmico e una spiccata sensibilità per il colore. Borsalino pullula di eleganti costumi e di conseguenti cromatismi, così come la macchina da presa si compiace spesso di carrellare da dietro pannelli o vetrate variopinte – pratica piuttosto diffusa tra fine anni Sessanta e tutti gli anni Settanta, soprattutto in ambito di cinema italiano. Spesso viene da pensare in effetti che Borsalino sia nutrito di un gusto visivo più italiano che francese, come se l’avesse girato il Mauro Bolognini degli anni Settanta – e talvolta la mente va ad Arabella (1967), uno dei suoi film più misconosciuti, ambientato più o meno nella stessa epoca, imperniato sulla figura di una truffatrice e soprattutto caratterizzato dal medesimo passo ironico e brillante. Malgrado il diffuso sense of humour, Borsalino è a suo modo anche un gangster movie algido e distaccato, che non permette di entrare più di tanto nelle psicologie dei suoi due protagonisti. Modelli perfetti di virilità cinica e canagliesca, Capella e Siffredi danno vita a un bel finale, dove soltanto all’ultima inquadratura si assiste all’unica, vera e timida esternazione d’affetto fra i due – Siffredi appoggia appena la testa sulla spalla del morente Capella. Certo, la fortuna non esiste. La vita del gangster ha un destino abbastanza segnato. E, soprattutto, è bene separarsi, perché inevitabilmente arriverà il momento di sopraffare l’altro, a sancire la fine di quell’Eden fanciullesco che ha caratterizzato la perfetta alleanza fra i due. Con il crescere dell’interesse individuale finisce la purezza dell’amicizia infantile. Borsalino si congeda con questa pregnante riflessione che tuttavia non è stata seminata più di tanto in precedenza lungo tutto il racconto. È di nuovo la sceneggiatura a mostrare una natura proteiforme e imprendibile, caratterizzata da una tale fisionomia fors’anche per rispondere alle richieste contrattuali di Belmondo. Resta (questo sì) la testimonianza di un’epoca cinematografica in cui la forza dell’industria europea era tale da costruire un film per buona parte sul richiamo di due figure popolarissime, collocate in un contenitore narrativo che manteneva comunque una sua indubitabile nobiltà espressiva. Scaramucce fra divi comprese. Ché in fin dei conti contribuivano al fascino e al Mito di figure attoriali contornate dall’aura dell’inarrivabilità. Borsalino conferma anche il puro piacere del racconto in quanto tale. Raccontare e intrattenere.

Info
Il trailer originale di Borsalino.

  • borsalino-1970-jacques-deray-02.webp
  • borsalino-1970-jacques-deray-01.webp

Articoli correlati

Array
  • Festival

    Roma 2024

    Roma 2024 è la diciannovesima edizione della cosiddetta "Festa del Cinema" (ma nel tempo le denominazioni sono cambiate in varie occasioni), e mette in fila ben 143 titoli tra lungometraggi, corti e serie.
  • Festival

    Roma 2024 – Presentazione

    143 titoli tra lungometraggi, corti, e serie. Questi i numeri che certificano Roma 2024 come evento monstre, che tenta di espandersi alla grandezza della città. Ma è questa la soluzione migliore per una kermesse che finora ha faticato a trovare una sua dimensione riconoscibile?
  • Bologna 2021

    La piscina (1968) di Jacques Deray - Recensione | Quinlan.itLa piscina

    di Cult movie erotico-estatico progettato per piacere, La piscina di Jacques Deray è un'esperienza sensoriale straniante, un film bello senz'anima, come i due personaggi incarnati da Alain Delon e Romy Schneider. In Piazza Grande a Il Cinema Ritrovato 2021.
  • DVD

    Morti sospette

    di Mystery metafisico, Morti sospette di Jacques Deray sfrutta il cinema di genere per aprire riflessioni sui limiti della lettura razionale della realtà. In dvd per Sinister e CG.