The Garbage Helicopter

The Garbage Helicopter

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Presentato nella sezione Voices dell’International Film Festival Rotterdam il debutto al lungometraggio del regista svedese Jonas Selberg Augustsén, The Garbage Helicopter. Nel mondo dei Rom svedesi, il regista compone un guazzabuglio tra Kusturica, il primo Jarmusch, Kaurismaki e soprattutto Roy Andersson. E solo a fatica riesce a smarcarsi da questi pesanti modelli per costruire qualcosa di personale e autonomo.

Il pozzo e l’orologio a pendolo

Nonna Sirpa una mattina si sveglia e pensa: “Rivoglio il mio orologio a pendolo”. È da ben un anno che è stato portato a riparare. Due giorni dopo i suoi tre nipoti sono su una vecchia Saab 900 Turbo con l’orologio a pendolo, diretti dalla nonna. Un assurdo viaggio di 1000 km che li porta tra autostrade abbandonate e punti di interesse come il più grande coltello del mondo per affettare il formaggio. [sinossi]

Costruito con un meccanismo rigido senza alcuna flessibilità, The Garbage Helicopter  – opera prima dello svedese Jonas Selberg Augustsén, presentata all’IFFR 2016 – funziona come una sequenza di brevi sketch separati da lunghe dissolvenze in nero. Massimo è l’artificio nella composizione dell’immagine, statica, ricca di elementi e dettagli in chiave surreale, in bianco e nero. Non è semplicemente per la nazionalità che il film si pone nel solco di Roy Andersson, ma nel concepire una galleria di quadri grotteschi, pur in bianco e nero. Scoppia improvvisamente un incendio, ma tutti quelli che vi assistono rimangono impassibili. E questo è molto nello stile di Andersson, nella sua rappresentazione di una società alienata come quella svedese.
Il briciolo di follia e surrealismo che pervade The Garbage Helicopter, il suo umorismo sottile, ci richiamano a tanto cinema balcanico, anche per l’etnia Rom dei personaggi, per il senso stesso di nomadismo del film, un road movie interminabile lungo il nulla, per riportare indietro un orologio a pendolo rotto perché l’orologiaio non l’ha ancora aggiustato.

Più azzardato il richiamo fatto da molti al primo cinema di Jarmusch: Jonas Selberg Augustsén non riesce a essere così sporco e undreground, le sue immagini sono decisamente ricercate ed eleganti. Ma appare anche una curiosa analogia con un film poco noto se non per i festival cui è passato, Big Significant Things di Bryan Reisberg. In entrambi i casi il road movie passa per tappe fatte di monumenti assurdi, il secchio più grande del mondo, la graffetta più grande, ecc., posti in rotatorie o meno. Ma tra il regista svedese e quello americano l’approccio è diametralmente opposto. Per il secondo infatti si tratta di una “road in nowhere”, una registrazione della vacuità dell’America profonda, per il primo invece il nulla è una creazione metaforica del film. Non siamo in grado di dire se i manufatti mostrati da Augustsén siano reali o fatti costruire per il film, ma la seconda opzione potrebbe essere verosimile.

Il film inizia con l’immagine di un punto di atterraggio di elicotteri, con il tipico disegno a forma di acca. Vi corrono delle alci impazzite. E vi cade improvvisamente un grande container. Per fortuna il regista riuscirà a controllare quella sua vena di follia, evitando di strabordare come in questo inutile incipit. Si rimane sempre in un film sospeso sul niente, come dalle metafore disseminate dal regista. Il suo motore, vero MacGuffin hitchcockiano, è un orologio a pendolo che non funziona e se al limite può funzionare l’orologio, non riuscirà mai comunque a fare il “cucù”.
The Garbage Helicopter è similmente un film ingranaggio, costruito su un meccanismo che non cambia mai, le scenette che si susseguono, che ruota attorno a se stesso e non ci sorprenderà mai. Il tempo che non passa, il pendolo che non va, mentre il film funziona con una narrazione non lineare, fatta di tempi e ritmi diversi. Il pendolo che è uno dei personaggi del film, che finirà anche sul tavolo del commissariato di polizia, come se dovesse essere interrogato.

Il vuoto su cui si costruisce il film è suggerito dall’azione inutile di schiacciare le bolle degli imballaggi pluriball, e dallo stesso titolo, un elicottero che trasporta rifiuti vagheggiato dai personaggi, una cosa che non ha assolutamente senso. Un film cruciverba, come quelli che fanno continuamente i personaggi in automobile, fatto di tante caselline da riempire secondo un meccanismo logico. Un film showroom come in una di queste scene/caselle: una donna entra in una galleria dove è esposta una mostra di fotografie sull’Olocausto, compie un giro nel corridoio dell’esposizione, per poi uscire dalla stessa porta da cui l’avevamo vista entrare. Un movimento semplice e secco in un film che è un puro movimento, senza deviazioni dallo schema. Una galleria di immagini giustapposte. Il cui oggetto, scene dei campi di sterminio nazisti in cui finivano anche i Rom, fa sprofondare improvvisamente un film che si fonda sulla vacuità. Un film di gag comiche in cui emergono i temi dell’identità culturale e il razzismo. Ma in una scena successiva, altre immagini da esposizione spariranno, il nulla torna a trionfare: la galleria espone semplici cornici vuote, contorni di quadri inesistenti. E il pendolo farà infine ritorno a casa. I suoi battiti riprenderanno ad andare ma a non esserci più saranno i battiti della nonna, a sua volta defunta. Tutto sprofonda, ed è destinato a sprofondare, nel vuoto.

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