Otto ore non sono un giorno

Otto ore non sono un giorno

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Restaurata nel 2017 e presentata nello stesso anno alla Berlinale in una proiezione unica e preziosissima, distribuita in Italia in un cofanetto dvd dalla Ripley e in prima TV su Fuori Orario, Otto ore non sono un giorno è una mini-serie per il piccolo schermo diretta tra il 1972 e il 1973 da Rainer Werner Fassbinder. Una serie familiare che si rivolge al pubblico più vasto possibile, prendendo le distanze dai quadretti perfetti della serialità televisiva ma anche dalla narrazione che ritraeva sempre in maniera cupa e disperata la classe operaia. Operazione culturale e politica, inno sincero al proletariato, Otto ore non sono un giorno danza con inimitabile leggiadria sulle note di Jens Vilhelm Pedersen (Fuzzy), illuminando una volta di più il ricordo di Fassbinder, la sua febbrile creatività, i tesori che ci ha lasciato.

L’amore (non) è più freddo della morte

Le vicende della famiglia Kruger scorrono in parallelo con le traversie lavorative dei suoi singoli membri, in particolare quelle di Jochen, operaio meccanico in una fabbrica. Le storie d’amore nascono, crescono e muoiono nel corso della serie: Jochen e Marion si incontrano casualmente nella prima puntata grazie a una bottiglia di prosecco; i vecchi Oma e Gregor iniziano una relazione mentre Harold e Monika si separano, mentre Monika si avvicina a Manfred. Al contempo seguiamo il mondo del lavoro nelle fabbriche, il rapporto orizzontale tra lavoratori e verticale coi padroni e i dirigenti, ma sono i sentimenti e le relazioni a far muovere la vicenda con un tocco insolitamente leggero e vitale… [sinossi – Ripley’s dvd]
The eight hours of Eight Hours Don’t Make a Day don’t make a day;
they instead untether us, as all great art does, from any linear sense of time.
They are a portal to another side of a pessimistic genius
– and to another idea of what our wrecked labor practices could have been,
and maybe still could be.
– Melissa Anderson, Eight Hours Don’t Make a Day, 4columns.org.

In questa epoca dominata dalla serialità e dalla (ri)scoperta un po’ ingenua delle potenzialità del piccolo schermo, vale la pena sottolineare un concetto semplice, eppure troppo spesso trascurato: a prescindere dal medium di destinazione, un’opera può essere – o non essere – di valore assoluto. Ce lo ricorda Rainer Werner Fassbinder, autore tanto fertile quanto geniale, che infatti si muoveva senza alcun tentennamento tra teatro, cinema e – rombo di tamburi – televisione. Già, proprio il piccolo schermo. Proprio quella scatola magica che, tanto per fare qualche nome, aveva già ospitato Rossellini e le sue opere e che, via via, regalerà agli spettatori più o meno curiosi straordinari lavori di Reitz, von Trier, Teshigahara, Lynch, Kon e via discorrendo. Lo stesso Fassbinder, prima di Otto ore non sono un giorno, aveva già diretto alcuni film TV e, dopo aver dato lezioni di fantascienza con Il mondo sul filo, avrebbe regalato a noi e alle future generazioni Berlin Alexanderplatz, esempio travolgente di serie-mondo.

A mezzo secolo di distanza, tra l’altro, Otto ore non sono un giorno si dimostra perfettamente in linea con una pratica alquanto contemporanea: il binge watching. Perché, è doveroso rimarcarlo immediatamente, la serie di Fassbinder è una sorta di trappola, nonostante l’assenza di cliffhanger. Al «regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, attore, montatore, drammaturgo, regista teatrale e scrittore tedesco»1 bastano infatti poche note. Il suo complice è il compositore danese Jens Vilhelm Pedersen, al secolo Fuzzy, e l’arma del delitto è l’allegra melodia che accompagna la sigla iniziale e anche quella finale. Insomma, si inizia, si finisce, ma non si vorrebbe smettere più, ipnotizzati da questo pifferaio magico. E se nella sigla d’apertura vediamo la città che si risveglia pian piano dal torpore notturno, tra spazzini che puliscono i viali e tram che iniziano la loro corsa, è ovviamente la sigla di chiusura ad ammanettarci al televisore: un quadro fisso di una fabbrica, il buio che è sempre più ammorbidito dal sole nascente, le note allegre di Pedersen. Semplice, immediato, perfetto. E la semplicità, da non confondere con la banalità e superficialità di troppe produzioni televisive (ma non solo), è la cifra stilistica, narrativa e ovviamente politica di Fassbinder, il grimaldello per rendere universale un concetto, un’idea di vita, un ideale di sinistra.

Tutti i film e i drammi che ho scritto erano indirizzati a un pubblico intellettuale Nei confronti di questo si può benissimo essere pessimisti e lasciare che un film si concluda nell’impotenza. […] Nel caso del pubblico più largo, che era quello della mia serie televisiva, sarebbe stato reazionario e pressoché criminale dare un’immagine disperata del mondo. Il primo compito è di tentare di renderli più forti dicendo loro: “voi avete ancora delle possibilità. Voi potete far uso della vostra potenza, perché l’oppressore dipende da voi. Che cosa è un padrone senza operai? Nulla. Ma si può senza dubbio pensare un operaio senza padrone”.2

Sono cinque le puntate di Otto ore non sono un giorno, ma dovevano essere otto. La storia sarebbe finita in modo diverso, con più di una venatura drammatica, ma senza arrendersi, senza chinare il capo. La serie conquistò grosse fette di pubblico, ma fece storcere il naso a destra e – soprattutto – a sinistra, ai sindacati. L’operaio senza padrone, giusto per focalizzarci su una delle questioni più spinose, è infatti un tema che lega poco con la politica, come poco legava questa rappresentazione solare, questa balzana idea di una famiglia povera ma felice. Pennellone dal fascino sghembo, quasi una sorta di Adam Driver ante litteram, Gottfried John incarnava un operaio dai contorni destabilizzanti, ancor più se invaghito e ampiamente ricambiato dalla divina Hanna Schygulla (Marion), nei panni di una donna colta e benestante.
Divertenti, persino spassose, sognanti ma perfettamente ancorate alla realtà, le cinque puntate di Otto ore non sono un giorno non dimenticano niente e lanciano con ammirevole leggerezza una serie di input, in primis la solidarietà tra lavoratori, la forza dell’unione, sia di un gruppo sia di una coppia o famiglia. Fassbinder mette in scena le problematiche operaie ma anche la sempiterna questione femminile, affronta in maniera comica ma assai puntuale il problema degli alloggi, degli affitti, delle pensioni, degli asili. Commedia, dramma, manifesto politico. La serie scritta e diretta da Fassbinder riesce nell’impresa di rispettare le premesse e promesse: è per tutti, è immediata, è divertente ed è pure serissima e incredibilmente stratificata.

Jochen e Marion. Oma e Gregor. Franz ed Ernst. Harald e Monika. Irmgard e Rolf. Questi i titoli delle cinque puntate, che si focalizzano su alcune questioni e soprattutto su alcuni personaggi, anche se il cuore pulsante della serie resta la coppia Jochen-Marion. Il ritmo della narrazione è elevato, denso, e Fassbinder riesce a impreziosire con una soluzione narrativa o visiva ogni snodo: ad esempio, la zoomata sul volto di Jochen nel primo incontro\scontro dai contorni favolistici con Marion. Nel suo sorriso che diventa solare, traboccante vitalità, nel controcampo di Marion e nell’invito alla festa della nonna c’è tutta la cifra narrativa, stilistica e soprattutto politica della serie. C’è quella gioia di vivere che ritroviamo pochi istanti dopo sul volto di Oma (nonna), nel dettaglio della parrucca e dei riccioli, nell’intuizione di Gabi. L’accoglienza della nonna, personaggio tanto eccentrico quanto amabile, una sorta di fatina nella storia orchestrata da Fassbinder, è il modus vivendi che l’autore suggerisce al suo vasto pubblico.

Poco più che ventenne, intriso di talento e immerso nel Nuovo cinema tedesco, cinefilo, capace di unire Straub & Huillet e Douglas Sirk, di raccontare la Storia nel suo divenire tra palcoscenico e piccolo\grande schermo, Fassbinder plasma feuilleton, slapstick e gag visive, melodramma e commedia, capovolgendo quello che la gente si aspettava di vedere sugli operai. Otto ore non sono un giorno viaggia sul filo dell’utopia, persegue una lotta di classe alternativa, allargata, consapevole e ammorbidisce in maniera eclatante la poetica dello stesso Fassbinder, che aveva idee chiarissime anche sul mezzo televisivo e sulle potenzialità comunicative e culturali della scatola magica.
Prodotta dall’emittente pubblica Westdeutscher Rundfunk, la serie fassbinderiana tratteggia senza alcun timore anche preziosismi tecnico-artistici, muovendosi tra quadri fissi e ariosi movimenti di macchina, interni ed esterni, composizioni delle inquadrature (ad esempio, i quadri amorosi di Jochen e Marion che chiudono la prima puntata) e più che impegnative macro-sequenze di gruppo (il matrimonio). Questo e molto altro, con la solita straordinaria coerenza di Fassbinder. Coerenza, creatività e incessante impegno politico: “Sì, pagheremo 217 marchi, non un centesimo di più” dice Oma al suo stralunato Gregor. In quel sorriso, in quel calcolo, c’è tutto.

Note
1 Definizione presa pari pari dalla pagina dedicata a Rainer Werner Fassbinder su Wikipedia.
2 Cfr. Booklet Otto ore non sono un giorno del relativo cofanetto targato Ripley. Le citazioni sono tratte da Robert Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder. Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 2004.
Info
Il trailer di Otto ore non sono un giorno.
Una clip tratta da Otto ore non sono un giorno.

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