Tarantola

Tarantola

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Tarantola, angosciante racconto di prede e predatori, è la testimonianza visiva di quanto sia stata coerente e radicata la poetica espressiva di Jack Arnold, pur costretto economicamente nel campo produttivo dei B-movie. Qui ritorna il tema della natura abnorme, del confronto con il “diverso”, e di una scienza che brama risolvere i problemi dell’umanità ma finisce con l’acuirli.

Piccola grande migale

Nel deserto dell’Arizona, il professor Gerald Deemer compie alcuni esperimenti sull’ormone della crescita sperando di trovare un modo per incrementare le scorte di cibo per la popolazione mondiale. Uno dei suoi colleghi muore a causa di una malattia che normalmente ha un decorso di svariati anni, ma che nel suo caso, si sviluppa nel giro di pochissimi giorni… [sinossi]

Scoprendo il cinema di Jack Arnold, morto settantacinquenne trentuno anni fa, si potrebbe arrivare a pensare “chissà cosa avrebbe potuto realizzare se solo non fosse stato confinato nei B-movie e nelle produzioni a basso costo”. Una domanda legittima, per quanto inevitabilmente oziosa, ma che forse coglie solo in parte il senso del ruolo svolto dal regista statunitense. Lo si potrebbe infatti dire anche per Roger Corman – tanto per fare un esempio –, o di Russ Meyer, o ancora di Herschell Gordon Lewis. Eppure uno dei valori concreti nella cinematografia di Arnold risiede proprio nei budget ridotti con cui si confrontò, e non solo per la notoria capacità di estrarre dal film più problematico le risorse per trasformarlo in un’opera di intrattenimento in grado di coinvolgere lo spettatore: quella scarsità di risorse è anche il primo e fondamentale puntello della poetica espressiva di Arnold, il dettaglio che rende i suoi film a sette decenni di distanza dalla realizzazione ancora incredibilmente contemporanei. È ad esempio plausibile ritenere che con produzioni meno avventurose il regista avrebbe avuto a disposizione anche un maggior utilizzo degli studi, facendo diminuire le riprese en plein air che al contrario rappresentano una cifra stilistica notevole del suo cinema. Un cinema dominato da alcuni temi ricorrenti, e che trovano anche in Tarantola (ottava delle sue ventisette regie, rimanendo ai soli lungometraggi cinematografici: allargando il discorso anche ai film televisivi e agli episodi seriali il conteggio sfiorerebbe i novanta titoli) il modo di esprimersi con una compiutezza sublime, senza per questo appesantire mai il racconto.

Incastonato tra due western “morali” come Duello a Bitter Ridge e Tramonto di fuoco (con protagonisti rispettivamente Lex Barker e Rory Calhoun), Tarantola corteggia fin dalla locandina il pubblico potenziale suggerendo l’idea del mostruoso, vale a dire l’animale di proporzioni gargantuesche, e riallacciandosi addirittura a King Kong di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack che da un ventennio a Hollywood fungeva da unico reale paradigma in tal senso – Godzilla di Ishirō Honda, pur distribuito in Giappone nel novembre 1954, non arriverà davanti agli occhi degli statunitensi prima del 1956, nella famigerata versione americanizzata con tanto di Raymond Burr in scena. Sul poster ufficiale si nota infatti una tarantola che tiene tra i pedipalpi il corpo di una bella fanciulla, rimandando la mente cinefila a Fay Wray tra le zampe del gorillone. Nel cinema di Arnold si era già fatto largo il concetto di mostro nel dittico composto da Il mostro della laguna nera e La vendetta del mostro, anche se in quel caso si trattava di un essere parzialmente antropomorfo, non poi così dissimile dall’essere umano la cui entrata in scena nello scenario desertico che rappresenterà il fulcro narrativo del film segna l’inizio di Tarantola. Se però l’ibrido metà pesce e metà uomo è il retaggio di una preistoria che ancora non è scomparsa, e con cui l’uomo moderno potrebbe doversi confrontare, la figura deforme che inaugura le molteplici disavventure di Tarantola è frutto di un esperimento di laboratorio. La scienza in Arnold avrà sempre un ruolo chiave, spinta com’è alla brama di una risoluzione per i problemi che affliggono l’umanità al punto da non rendersi neanche conto dei pericolosi limiti che sta travalicando: qui tale riflessione è costruita tutta attorno al personaggio del dottor Deemer, interpretato da un Leo G. Carroll che a metà anni Cinquanta era già l’incarnazione dell’uomo colto che sfrutta le sue conoscenze anche a scopi non necessariamente nobili (si pensi a Io ti salverò di Alfred Hitchcock, ovviamente, ma anche al modo in cui il regista britannico lo utilizzerà in Intrigo internazionale). Il medico, vero responsabile di tutti i disastri che combinerà la abominevole migale, non è uno scienziato pazzo che ha intenzione di distruggere il mondo, ma sfruttando l’ormone della crescita ritiene sia possibile creare animali da macello dalle dimensioni così considerevoli da essere in grado di risolvere la fame nel mondo. Non a caso ironicamente lo sceneggiato televisivo di Robert M. Fresco – qui sceneggiatore insieme a Martin Berkeley – da cui originò Tarantola si intitolava No Food for Thought.

Se di cibo per le popolazioni indigenti ne verrà ben poco da Tarantola, vista anche che l’esplosione del laboratorio segreto di Deemer avviene anche abbastanza presto nel corso della narrazione, che si concentra quindi sulle gesta efferate dell’aracnide fuori misura, di spunti di riflessione Arnold ne dissemina a bizzeffe. C’è la riflessione sull’atto umano cui lo stesso è costretto a porre rimedio potendo però a quel punto contare solo sull’istinto di distruzione – e l’utilizzo del napalm nel finale già preconizza l’orrore cui l’aviazione statunitense sarà condotta di lì a un decennio –; la lotta impari tra uomo e natura, con la seconda che è più antica, più ferale senza dover ricorrere ad artifici, e anche per una volta incredibilmente più “grande” (la dimensione minuta del protagonista Matt Hastings e della sua amata Stephanie “Steve” Clayton rispetto al ragnone anticipa a sua volta due delle sequenze più mirabili e studiate dell’intera filmografia di Arnold, vale a dire i combattimenti che il protagonista di Radiazioni BX: distruzione uomo dovrà affrontare con il gatto di casa – nascondendosi nella casetta delle bambole – e quindi proprio con un aracnide: lì però è l’uomo a rimpicciolire, qui l’elemento animale a espandersi a dismisura). Arnold, regista ben più stratificato di altri che interpretarono la fantascienza del periodo come un’occasione per leggere la contingenza storica della Guerra fredda e semmai la memoria tragica dell’olocausto nucleare, riesce a infondere pietas anche nella visione della tarantola, che non ha colpe dell’essere così smisurata, e non fa altro che agire secondo gli schemi naturali. Ecco dunque che l’eroica sequenza dell’aviazione che può finalmente bruciare il mostro di eroico dimostra di possedere ben poco: non si esce mai dalla visione di un film di Arnold completamente rilassati, non c’è mai davvero da gioire anche quando il lieto fine impera. Lo dimostrerà nonostante si tratti di una farsa il sottostimato Il ruggito del topo, ma tale sensazione è presente anche durante la visione di Tarantola, e accompagna ogni singolo elemento della scena, a partire da quel paesaggio così brullo e privo di speranza che sembra quasi anticipare la desertificazione della vita sulla Terra (non che su altri pianeti se la passino poi meglio, a vedere Destinazione… Terra! del 1953). Straordinario esempio di cinema intellettuale costruito ad altezza drive-in – arricchito da effetti speciali di eccezionale impatto –, Tarantola è la fiammeggiante dimostrazione di come Hollywood potesse essere fucina di autori anche fuori dal flusso principale dell’industria: Jack Arnold, come il coevo Jacques Tourneur, è stato ineffabile cantore delle zone d’ombra, del rimosso, del misterioso che si può nascondere tra le rocce del deserto o nelle acque limacciose di una laguna, e che è sempre in parte anche lo specchio dell’umano, suo completamento e dunque suo antagonista.

Info
Il trailer di Tarantola.

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