The President

The President

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Mohsen Makhmalbaf inaugura la sezione Orizzonti a Venezia con The President: una fiaba moderna, di spirito apolide e afflato universale. Prevedibilmente didascalico, debolmente ambiguo, troppo spesso adagiato su facili soluzioni.

Dittatori non si nasce

La storia è ambientata in un paese caucasico di fantasia. Il Presidente è un dittatore che a seguito di un colpo di stato si mette in fuga insieme al nipote di cinque anni. I due intraprendono un viaggio attraverso le terre che un tempo il Presidente governava. Ora, travestito da musicista di strada per non farsi riconoscere, l’ex dittatore entra in contatto con il suo popolo e lo conosce da una nuova prospettiva, quella di persona comune di cui la gente si fida e a cui confida le proprie difficoltà a vivere governati da un dittatore. Quando la sua vera identità viene scoperta e è costretto a scappare, viene inaspettatamente aiutato dalla gente che aveva voluto la sua caduta. [sinossi]

Le storie più semplici sono le migliori. Così dice la tradizione; così da sempre l’essere umano parla di piccole grandi verità tramite la novella, la fiaba, il racconto morale, scritto e orale.
The President di Mohsen Makhmalbaf, che ha inaugurato la sezione Orizzonti, ricorda forme di racconto antiche, in cui l’ampia metafora, il racconto tramite figurazioni “altre”, l’episodicità esemplificativa tentano un discorso universale tramite enormi archetipi narrativi. Da anni artista apolide fuoriuscito dall’Iran, in cui è stato inserito nel novero tristemente ampio degli autori messi all’indice dal regime, Makhmalbaf ha spaziato nei paesi più diversi per continuare a fare cinema, e stavolta è approdato in Georgia grazie alla consueta formula della co-produzione europea. In Georgia ha girato un film nella lingua locale con attori e maestranze georgiane, senza però ancorarsi nel tessuto del racconto ad alcuna precisa coordinata spazio-temporale.

The President potrebbe svolgersi ovunque e in qualsiasi tempo: un exemplum, per l’appunto, che non rinnega la rigidità del racconto morale né il suo programmatico didascalismo. Un approccio universale che tuttavia non rinuncia a restare ben saldo nella realtà. Se di “fiaba moderna” si tratta, prende comunque luogo e immagini in un armamentario figurativo aspro e diretto, che si fa forte di macchina a mano, luce naturale, paesaggi reali, sempre più brulli e deserti nel procedere del racconto. Sembra di assistere all’innesto di una fiaba arcaica, di solida struttura narrativa, sul tronco espressivo del cinema iraniano come l’abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni.
Sposando la metafora universale, Makhmalbaf non rinuncia al suo impegno civile, poiché The President viene a sostenere con forza un discorso pacifista sovranazionale, che tenta di scavalcare le contrapposizioni immediate per andare verso una riflessione ontologica sulla violenza.

Il Presidente dittatore, che vede scoppiare sotto i suoi occhi una rivoluzione popolare contro il suo regime, può addirittura incarnare il potere di tutti, veramente tutti. Non è necessario pensare ai paesi in cui l’assolutismo politico è palese e dichiarato: basta andare in paesi dalla buffa democrazia, come in Russia, in certe repubbliche caucasiche, o magari restare anche in Italia, che con grande fatica ed enormi compromessi si sta lasciando alle spalle un ventennio di libertà condizionate. L’anziano dittatore universale si trova così a fuggire dal suo paese, portandosi appresso un nipotino che non ha accettato di scappare all’estero con il resto della famiglia. Passando da una peripezia all’altra secondo un collaudato schema di road movie picaresco, ricorrendo a strumenti antichi come il travestimento e la falsa identità, il dittatore viene a contatto diretto con tutti i disastri provocati dal suo regime alla povera gente, mentre dallo sguardo innocente del nipotino riverbera lo stupore per il male. Si badi bene, il male in assoluto, che provoca ribrezzo sia quando si manifesta a scapito dei ribelli, sia quando prende forma contro i fedelissimi del dittatore.

Per il dittatore la fuga verso il confine si tramuta in una sorta di espiazione, man mano più crudele quando il pirandelliano caso lo mette a confronto con una prostituta a cui ha rovinato la vita in gioventù, e soprattutto con il dissidente assassino di suo figlio. Così come il tono del film s’incupisce progressivamente, trascolorando dal grottesco della prima parte verso il dramma della seconda. Perché, come ha detto lo stesso Makhmalbaf in conferenza stampa qui a Venezia, “Ogni dittatore è anche buffo. Visto da lontano fa paura. Visto da vicino fa ridere”. Tutto verissimo e inconfutabile. Riguardo a The President, però, restano dubbi più radicali. Non convince più di tutto il tipo d’operazione. Certo vi sono illustri esempi di altissima arte riguardo a dittatori buffi e/o umanizzati (Chaplin, Lubitsch, per non parlare dello sbrindellato ed esilarante Baron Cohen), ma la chiave vincente di quelle operazioni risiedeva nella totale adesione a un universo altro, in cui la messa in burla era feroce e diretta, e la violenza non era mai esplicita, ma saggiamente ed espressivamente inserita nei rapporti di forza tra i personaggi. Si fa più fatica invece a credere a un dittatore che si commuove per il nipotino, che si macera nei sensi di colpa per le violenze commesse, che assiste dolorosamente alle infinite conseguenze della violenza da lui messa in atto.

In tal senso, gli scarti di tono appaiono o troppo meccanici o troppo ingenui, e si recepisce con difficoltà un film che mezz’ora prima ci ha fatti ridere, per poi mostrarci più tardi stupri di guerra e vendette a suon di forcone. E’ altrettanto vero che, come Makhmalbaf afferma e come si evince dal suo film, la violenza genera solo altra violenza, e che soltanto il perdono può sfociare in un serio processo democratico e di pacificazione. Ma la sua fiaba è troppo poco “fiaba” per poterci far credere al suo protagonista. Il racconto esemplare, come dicevamo, porta con sé inevitabilmente l’assunzione di un messaggio e di una morale da trarre, per cui non ci stupiamo del conclamato didascalismo (quale film di diretto impegno civile non lo è?), ma piuttosto delle facili soluzioni a cui Makhmalbaf ricorre troppo spesso. L’approdo finale al dramma si riconverte per lo più in spudorato melodramma, dalla coppia di sposi novelli vittime di violenza da parte dei ribelli alla famiglia sterminata dal reduce torturato che ritorna a casa. E il ricorso alla figura del bambino non è quasi mai davvero funzionale, ma soltanto esemplificativa.

Negli intenti Makhmalbaf pare cercare un’ambiguità di quesiti morali su violenza e vendetta che però si dileguano totalmente in un facile e unilaterale pacifismo. O meglio, non facile, perché la pace non è mai tale. Semmai facile a dirsi, difficilissimo a farsi. E se ogni tanto possiamo anche commuoverci per il nonno dittatore in pena per il nipotino, quella commozione ci spaventa un attimo dopo. Perché è vero che i mostri alieni non esistono e anche i dittatori non lo sono. Ma crediamo di non sbagliarci a dire che non esista o sia mai esistito al mondo un solo dittatore con la coscienza del protagonista di The President. Se così fosse, si sarebbero comportati diversamente.

Info:
La pagina dedicata a The President sul sito della Biennale
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