La luce necessaria – Conversazione con Luca Bigazzi
Il libro-intervista a Luca Bigazzi, edito da Artdigiland e scritto da Alberto Spadafora, permette di approfondire la figura del maggior direttore della fotografia italiano degli ultimi trent’anni.
Paesaggio con figure, Giulia in ottobre, L’aria serena dell’Ovest, Morte di un matematico napoletano, Un’anima divisa in due, Lamerica, L’amore molesto, Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte, Così ridevano, Fuori dal mondo, Pane e tulipani, Le conseguenze dell’amore, La guerra di Mario, Romanzo criminale, Il divo, Lo spazio bianco, Io sono Li, L’intervallo, La grande bellezza, Belluscone, una storia siciliana… Questa non è solamente la lista di molti dei film più significativi del cinema italiano degli ultimi trent’anni, è anche la lista di una parte dei film che hanno avuto come direttore della fotografia Luca Bigazzi. Basta dunque un elenco siffatto per farsi un’idea di come non si possa parlare del nostro cinema più recente prescindendo da una figura come la sua. Ecco perché va accolta sicuramente con favore la pubblicazione del libro-intervista a lui dedicato: La luce necessaria – Conversazione con Luca Bigazzi, edito da Artdigiland e curato da Alberto Spadafora.
Milanese, classe 1958, Bigazzi è per principio restio a conversazioni e interviste, ritenendo che a parlare debbano essere soprattutto i registi più che i direttori della fotografia. Eppure vale la pena di dissentire, non solo in virtù dell’utilissima mole di informazioni e di ricostruzioni storiche che emergono dal presente volume, ma anche perché dovrebbe essere dovere di una cinematografia che si rispetti quella di dare identico valore e peso – o quasi – a ciascuno dei mestieri che ruotano attorno alla macchina-cinema (ed è in tal senso, tra l’altro, che recentemente abbiamo pensato di inaugurare una serie di interviste dedicate ai mestieri del cinema). Basti pensare agli Stati Uniti, dove è pratica assodata riconoscere un ruolo fondamentale alla figura del direttore della fotografia e dove le pubblicazioni in tal senso sono numerosissime e di ottimo livello (una per tutte: il volume di interviste collettaneo Masters of Light). Inoltre, per intuire quanto sia importante il DOP si ricordi solamente che quello che viene riconosciuto come il capolavoro sommo della storia del cinema, Quarto potere, non sarebbe stato lo stesso film se un bel giorno Gregg Toland non si fosse presentato da Welles per dirgli che aveva desiderio di lavorare per lui. Il più grande direttore della fotografia dell’epoca permise così a Welles di avere la strumentazione e la competenza tecnica necessarie per realizzare ogni sua spericolata intuizione visiva.
Dunque un libro su un direttore della fotografia è senz’altro un contributo necessario e indispensabile per chiunque voglia approcciare in maniera più articolata i meccanismi cinematografici. E tanto più un libro su Bigazzi permette, come s’è già detto in apertura, di ripercorrere in filigrana gli episodi salienti del nostro cinema più recente. Un cinema che si è trovato – nel momento in cui ha esordito Bigazzi, vale a dire nella prima metà degli anni Ottanta – ad essere sovente relegato quale ruota di scorta del mezzo televisivo e che, pur tra mille incertezze e difficoltà, ha cercato di incidere nell’immaginario collettivo. Un cinema che ha cominciato per motivi vari a non essere più all’altezza della sua nobile tradizione, ma che – giustamente – ha anche provato a sganciarsi da certe abitudini consolidate. E se è solo con gli anni Ottanta, ad esempio, che diventa pratica comune – come lo era già da tempo nel resto del mondo – la registrazione del sonoro in presa diretta (abbandonando quasi definitivamente il doppiaggio), in quello stesso periodo – in modo quasi parallelo – si procede nella direzione di un maggior realismo fotografico. E di questa tensione, senz’altro, Bigazzi è il maggior artefice.
La formula della cosiddetta luce necessaria, come già in modo esplicito vuole intendere il titolo del libro, va dunque intesa come un’illuminazione il più semplice possibile con cui dare forma a un set e a un film. Una prospettiva che è quella della semplificazione e dell’alleggerimento dei mezzi e che era in piena sintonia con l’epoca. Era proprio in quegli anni, infatti, che – grazie a macchine da presa più leggere e a strumentazioni ridotte – si poteva cominciare a fare cinema in modo autarchico e indipendente. Così fece Silvio Soldini in Paesaggio con figure (1983): un’avventura durata quattro mesi e girata in 16mm. che segnò anche l’esordio di Bigazzi. I due non avevano alcuna esperienza in campo cinematografico e, senza produzione, riuscirono a mettere in piedi un film che poi venne selezionato al Festival di Locarno. E, proprio l’esigenza di una troupe ridotta (perché non si poteva pagare nessuno), spinse Bigazzi – che aveva già delle competenze in ambito fotografico – a lavorare sul naturalismo della messa in scena e a svolgere anche il ruolo dell’operatore, un agire che poi sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica.
Come in effetti succede davvero raramente in questo campo, Bigazzi è sia l’operatore principale che il direttore della fotografia di tutti i suoi film. Anzi, addirittura – come dice nel libro – il suo vero interesse è fare l’operatore, tanto che il piazzare le luci nel modo giusto riveste una parte minima del suo tempo ed è un atto preliminare all’attività che davvero lo appassiona: quella di studiare le inquadrature in un set praticabile in tutto il suo spazio. Contrario alla pratica, un tempo usuale, di studiare delle luci ad hoc per ogni singola inquadratura, Bigazzi – nell’ottica di un maggior realismo e per potersi spostare meglio sul set con il suo mirino – arriva perciò a preferire un’illuminazione diegetica, in cui le fonti di luce entrino a pieno titolo a far parte della scenografia (e, in tutto questo, non fa eccezione La grande bellezza; basti pensare in tal senso al modo in cui è illuminata la macro-sequenza della festa).
Non sorprende allora che, al momento di parlare di filiazioni e influenze, Bigazzi – in una tradizione di cinematographer ricchissima come la nostra – citi l’illuminazione ‘debole’ di Gianni Di Venanzo, dedicandogli – nelle prime pagine del libro – un elogio con particolare riferimento alla fotografia di Le mani sulla città di Francesco Rosi e al suo stile documentaristico.
A questa sua opzione “semplificatoria”, Bigazzi ha accompagnato anche, nel corso della sua carriera, il coraggio di scelte che sono arrivate a contrastare drasticamente delle tradizioni consolidate. L’esempio culminante appare in tal senso il lavoro fatto per Morte di un matematico napoletano (1992) di Mario Martone. Anzi, probabilmente il film d’esordio del cineasta napoletano segna per Bigazzi il punto di svolta. Questi, infatti, in accordo con Martone, decise di mettere sull’obiettivo un filtro giallo che normalmente era usato solo per i film in bianco e nero. Incontrò così l’opposizione netta del laboratorio di sviluppo e stampa romano, che avrebbe voluto imporre che quel tono di colore venisse aggiunto in post-produzione. Il risultato fu notevole: grazie a questa intuizione, Morte di un matematico napoletano è caratterizzato da una particolare desaturazione dell’immagine – quasi da fotografia d’epoca – che contribuisce alla perfetta coerenza artistica della pellicola.
Quella fu per Bigazzi la prima grande vittoria contro le tradizioni cinematografare romane, una vittoria che gli permise di imporsi definitivamente sulla scena nazionale.
Velocità, meticolosità, sprezzo delle regole consolidate, notevole predisposizione ad adattarsi anche di fronte ai budget più bassi: sono queste, al di là di un talento innegabile, le caratteristiche che hanno fatto sì che Bigazzi diventasse il più importante direttore della fotografia degli ultimi trent’anni del nostro cinema. Ed è, inoltre, grazie a queste sue attitudini che Bigazzi è anche il direttore della fotografia perfetto per un esordiente (dall’Andrea Segre di Io sono Li – forse il suo lavoro più bello – al Leonardo Di Costanzo di L’intervallo). Grazie a tutto ciò, Bigazzi domina ormai incontrastato il panorama della fotografia in Italia. E non è un caso allora che – in mancanza di nomi paragonabili a lui in questo settore – negli ultimi anni la sua collaborazione più stretta si sia sviluppata con un cineasta dalle ambizioni smisurate come Paolo Sorrentino, il cui modo di concepire il cinema tra l’altro va in direzione esattamente opposta a quella della ‘semplificazione’ e della naturalezza dell’immagine propugnata da Bigazzi come una missione. “È stato il produttore Nicola Giuliano a obbligarci a lavorare insieme” – racconta in proposito dell’incontro con Sorrentino, avvenuto in occasione de Le conseguenze dell’amore (2004) – “Ci eravamo entrambi irritati durante un sopralluogo in cui Paolo mi chiedeva una cosa che io ritenevo inconcepibile: dato che sono sempre stato propenso alla semplicità, non volevo impegnarmi a filmare qualcosa che mi sembrava impossibile. In realtà, lui aveva ragione e io avevo torto. Era assolutamente possibile realizzare quello che in un primo momento mi era sembrato impossibile”. Da lì in poi, tra i due si è sviluppata una intensa e proficua collaborazione che, solo apparentemente, nasce da pulsioni contrastanti. Sia Sorrentino che Bigazzi puntano evidentemente a dare un respiro internazionale al nostro cinema e, con la vittoria agli Oscar de La grande bellezza (al di là del giudizio di merito sul film), è innegabile che siano riusciti a raggiungere questo obiettivo
Allo stesso tempo, il modo di concepire il cinema di Sorrentino gli fa preferire ovviamente il 35mm, mentre Bigazzi per sua predisposizione naturale tende a privilegiare il digitale: “Con la camera digitale si applicano le stesse lenti e si mantiene la stessa resa cromatica. Ma la lettura delle ombre è maggiore. Per come lavoro io, sempre ai limiti della sottoesposizione e con poche luci, corro spesso il rischio che nelle ombre non ci sia nessun segnale. Invece col digitale la lettura dei neri è più precisa e sensibile. Il digitale è ciò che meglio si adatta alla mia inclinazione professionale”.In questo discorso, da noi affrontato più volte (basti leggere cosa dice in proposito Paolo Cherchi Usai in una delle interviste che gli abbiamo fatto), si riscontra dunque in Bigazzi un’opinione per certi versi non troppo dissimile da quella che abbiamo riscontrato al momento di intervistare il regista e direttore della fotografia hongkonghese Yu Likwai, secondo cui chi difende la pellicola lo fa per difendere una concezione elitaria del cinema.
Al netto di tutte queste osservazioni ed opinioni, va ricordato però che un cinema come il nostro non riesce più a incidere sull’immaginario collettivo nazionale. Le eccezioni ci sono, naturalmente, e – oltre al solito La grande bellezza – tra i film fotografati di recente da Bigazzi vien da citare anche – su un terreno completamente diverso (e per noi preferibile) Belluscone, una storia siciliana di Franco Maresco. E, a proposito della mancanza di incisività del nostro cinema, vale la pena di citare un aneddoto che Bigazzi ricorda con dolore e amarezza: si girava all’epoca a Torino Così ridevano di Gianni Amelio e, dopo una intera notte di lavoro, la troupe fu impegnata fino al primo mattino in una sequenza ambientata a bordo di un tram. Fu così che capitò di incrociare i lavoratori del mercato di Porta Palazzo. Questi, rabbiosi, presero ad insultare tutti con il classico invito di “andare a lavorare”. Ecco allora il segno più evidente della crisi che attraversa il nostro cinema, laddove con crisi si vuole intendere il termine in senso più ampio e stratificato, una crisi che è anche mancanza di riconoscimento di un valore e di un peso all’interno della società. Al di là di un cinema che, in epoca berlusconiana, è stato distrutto nelle sue fondamenta e al di là di una considerazione anche banale, come quella che in fin dei conti sono pochi i veri capolavori di questi decenni (e sono pochi perché tutto è collegato in un circolo vizioso), quel che ci sentiamo di dire è che manca la volontà e la forza di incidere nella società anche perché mancano – o sono perlopiù silenti – dei personaggi che, attraverso il cinema, entrino nel dibattito pubblico, che facciano – in qualche modo – politica. Non basta, secondo noi, quel che dice Bigazzi che, venuto da esperienze di militanza di sinistra alla fine degli anni Settanta, ora sente di poter fare politica attraverso il suo lavoro di direttore della fotografia, lavorando ad esempio al fianco degli esordienti o rifiutando contratti milionari che lo porterebbero fuori dall’Italia. Servirebbe qualcosa in più per dare dignità all’esterno a questo settore. Non sappiamo bene cosa, ma di fronte a tagli continui e di fronte alla considerazione sempre minore che viene data al cinema e all’industria culturale (ora che il berlusconismo è diventato renzismo), “indignarsi non basta”, per ricontestualizzare delle parole di Pietro Ingrao.
La luce necessaria si chiude con un indispensabile corollario, quello delle opinioni di amici e colleghi di Bigazzi, non necessariamente apologetico ma anzi stuzzicante, perché finisce per dare alla sua figura un tono quasi enigmatico alla Quarto potere, alla No trespassing, come del resto, forse, deve essere sempre, per mantenere la giusta distanza nei confronti del proprio oggetto d’osservazione. Ecco che allora La luce necessaria, anche grazie al contributo decisivo di quest’ultimo capitolo (in cui, tra gli altri, parlano di Bigazzi: Sorrentino, Soldini, Martone, Arcopinto, Servillo, Amelio, Maresco, ecc.), diventa una sorta di autobiografia non solo di Bigazzi, ma di tutto il cinema italiano degli ultimi trent’anni, sviluppatosi in una lotta quotidiana e stremante per poter emergere, per potersi affermare e per poter sopravvivere.