Il Pap’occhio

Il Pap’occhio

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Mustang e CG propongono una nuova edizione de Il Pap’occhio con 2 dischi, editando per la prima volta in dvd anche “Il resto del Pap’occhio”, raccolta di scarti di montaggio. Opera di grande ingenuità stilistica, ma di assoluta libertà espressiva, ricca di profetiche intuizioni culturali.

Renzo Arbore è convocato dal papa per dare il via alla programmazione di una neonata tv vaticana. Lo showman chiama a raccolta tutta la sua brigata reduce da “L’altra domenica”, mettendosi a lavoro sullo show inaugurale della nuova emittente. Tra i tanti, si annida il Giuda Roberto Benigni. [sinossi]

Quant’è bello rivedere un vecchio film che del fare cinema se ne infischia totalmente, ma traboccante di sì tanta intelligenza da riconvertirsi in qualcosa di veramente unico e irripetibile. De Il Pap’occhio (1980) e il suo singolare destino si è già parlato molto. Fu un grande successo di pubblico (sesto incasso italiano della stagione 1980-81), che riuscì a raggiungere tali enormi risultati al botteghino nonostante il breve passaggio nelle sale prima di essere sciaguratamente sequestrato per vilipendio alla religione di Stato. Riapparve in alcune riedizioni anni dopo, per poi assurgere allo statuto di cult movie nel corso dei successivi decenni. Nel rivederlo oggi, si ha anche l’impressione che sia davvero un’impresa disperata risalire a una sorta di “director’s cut”, visto che per i problemi censori incontrati, e per la stessa intima natura proteiforme del film, s’intuiscono tagli e rimaneggiamenti continui.
Tanto per dire, di una delle sequenze più incriminate, a cui Isabella Rossellini fa riferimento negli extra del dvd edito per Mustang e CG, si conserva chiarissima memoria (la Rossellini s’intrattiene col papa in simulati Giardini Vaticani, tra momenti bizzarramente romantici e sottolineature musicali da melodramma anni Settanta), mentre in questa nuova versione dvd non se ne trova traccia.
Si può ipotizzare, insomma, che esistano svariate versioni del film, sfuggite di mano a Renzo Arbore e ai suoi produttori; è lo stesso Arbore, in effetti, a ricordare nei contributi extra che il film venne bloccato e dissequestrato a fasi alterne, dando forma a una dissestata distribuzione a macchia di leopardo con probabili ricadute nell’univocità del montaggio finale. Non potrebbe essere altrimenti per un’opera che nasce come creazione spontaneistica, una sorta di happening totale di cui si possono tralasciare ampie porzioni senza che ne risenta l’impianto globale, idea di compiutezza artistica e stilistica di cui Arbore si è bellamente disinteressato fin dalla nascita del progetto del film.
Basta dare un’occhiata a “Il resto del Pap’occhio” (cumulo di materiali scartati al montaggio, che Mustang e CG propongono per la prima volta in dvd cogliendo l’occasione per una nuova edizione in 2 dischi) per rendersi conto di quanto non fosse previsto un inizio e una fine, una costruzione compatta e univoca, un’esposizione imprescindibile e necessaria di un brano piuttosto che di un altro. Teoricamente Il Pap’occhio poteva durare novanta minuti come mille, andando avanti per trovate estemporanee e incessanti goliardate.

Il primo dato che salta agli occhi è la totale ignoranza di Renzo Arbore in fatto di cinema. Non è né il primo né l’ultimo a esordire al cinema venendo da altri contesti creativi, ma a differenza di altri Arbore mostra di non aver neanche provato a emanciparsi, di non aver voluto “imparare” in alcun modo a fare cinema. Emana insomma una totale e vitalistica ingenuità, che di scavalcamenti di campo e continuità del montaggio non ha sentito parlare neanche per sbaglio. Sarebbe troppa grazia riconoscere ad Arbore una consapevolezza provocatoria di scardinatore del linguaggio-cinema. Tutt’altro, Arbore mostra di sapere a malapena dove piazzare la macchina da presa: certi primissimi piani dell’incipit sono mostruosamente gratuiti, l’uso della presa diretta è talvolta strepitosamente naïf, simile all’approccio di un cineamatore che si pone a girare un filmino privato con un gruppo d’amici (spirito, del resto, perfettamente in linea con le intenzioni di una rimpatriata con l’allegra brigata che aveva animato un caposaldo della riformata tv italiana come “L’altra domenica”).
Come direttore della fotografia Arbore si avvalse nientemenoché di Luciano Tovoli, ma evidentemente prevalse in modo così netto la scapigliata improvvisazione da travolgere anche il consumato mestiere di siffatto operatore. Va però anche riconosciuto che in più parti i confini tra totale ignoranza del mezzo e istinto alla libertà espressiva si fanno molto labili; da un lato, lo stesso rifiuto a “imparare il cinema” appare a sua volta un moto istintivo di libertà (questa è la macchina da presa, e io la uso come mi viene), dall’altro il gioco con le convenzioni linguistiche risulta spesso ben mirato e consapevole, quantomeno nei confronti dei luoghi comuni espressivi. Un’interessante crocevia, insomma, tra ingenuità e intuito.

Come è ben noto, Il Pap’occhio vede un neoeletto papa Wojtyla, pontefice moderno e al passo coi tempi, così affascinato dal mezzo televisivo da designare Renzo Arbore come direttore artistico per la fondazione di una tv vaticana. Arbore sbarca così in Vaticano (ricostruito nella reggia di Caserta) con tutta la sua banda cialtronesca per dare il via alla programmazione della nuova emittente, lavorando innanzitutto a un grande show inaugurale. A tramare contro di lui vi è un oscuro “cardinale Richelieu”, recalcitrante e restio alle innovazioni, che trova un perfetto alleato in Roberto Benigni, comunista invidioso del successo di Arbore che si trova a ripercorrere le tappe del Giuda traditore. Dopo una serie di esilaranti provini, lo show inaugurale avrà luogo, scatenando l’ira del sommo editore Domeneddio.
A suo modo Il Pap’occhio mostra una vaga costruzione narrativa (negli extra, Arbore tiene molto a sottolineare che fu comunque scritta una sceneggiatura iniziale con la collaborazione di Luciano De Crescenzo) che si adagia in una versione goliardica della Passione, con tanto di riproduzione dell’Ultima Cena e relativo richiamo al tradimento di Giuda e il canto del gallo. Solo che in questo caso il Gallo è un cantante di balera che si offre di esibirsi, i trenta denari diventano trenta gettoni del telefono, l’orto non è più del Getsemani ma dei Jazzemani (un gruppo di suonatori fanatici del jazz) e la crocifissione corrisponde al pecoreccio show inaugurale della tv.
Di tale costruzione di massima, tuttavia, Arbore si serve come puro canovaccio, esponendolo al continuo bombardamento di guizzi e trovate del momento, permettendosi pure il lusso colto di un coro di uomini di colore che cantano in napoletano, commentatori del film in aria di classicità greca.
Nella sua natura del tutto sui generis, Il Pap’occhio somiglia più di tutto a una sorta di “mockumentary” sulle fasi di realizzazione dello show inaugurale, di cui si seguono i retroscena, le difficoltà e i disarmanti provini. E, pur conservando una sua unicità, è evidente che il film di Arbore respira l’aria di libertà produttiva ed espressiva tipica del cinema indipendente italiano sul finire degli anni Settanta. La stessa radicale libertà grammaticale e lo stesso istinto anarchico (ma con un evidente surplus di consapevolezza, beninteso) che animavano gli esordi di Nanni Moretti o il primo film di Giuseppe Bertolucci, Berlinguer ti voglio bene (1977), a cui viene immediato pensare visto il coinvolgimento in entrambi i casi di Roberto Benigni con alcuni dei suoi migliori contributi, ben lontano dall’immagine d’imbonitore di salotti chic dei suoi anni più recenti.

La partecipazione di Benigni a Il Pap’occhio meriterebbe un intero capitolo a parte; nel profluvio di contributi esilaranti ed eterogenei, alcuni dei suoi interventi conservano un’evidente autonomia rispetto al resto, vere e proprie parentesi a cui Arbore concede tutto lo spazio necessario per seguire le immense capacità d’improvvisazione di un giullare apollineo e dionisiaco al contempo. In un film che ad oggi si presenta con un montaggio di 92 minuti, Benigni occupa ben 9 minuti di monologo continuato, esibendosi per la prima volta nel celebre schema affabulatorio del Giudizio Universale, che negli anni a seguire riproporrà più volte cambiandone la sostanza in relazione alla contingenza storico-politica.
Qui però assistiamo alla sua versione più pura: non riferimenti all’attualità, non sberleffi al Berlusconi di turno, bensì una preziosissima affabulazione sui massimi sistemi che si erano scontrati in tutto il Novecento occidentale, e che nella fattispecie degli anni Settanta italiani avevano raggiunto gli apici più virulenti e anche sanguinosi. Ma al di là dei giochi tra religione e marxismo, emana più di tutto una spiritualità profonda e terrena, diretta derivazione di quella cultura contadina in qualche modo sincretica dalla quale Benigni proveniva.
Sempre a Benigni è riservato un frammento molto divertente, che introduce al senso più profetico de Il Pap’occhio: passeggiando per gli appartamenti papali, Benigni si trova per caso a passare davanti alla finestra dell’Angelus indossando la papalina del pontefice. A ogni singolo passaggio, la folla raccolta in piazza si lancia in un boato sempre più assordante. Tra le tante profezie dell’arte proteiforme di Arbore, con Il Pap’occhio egli fu tra i primi a intuire la deriva della cultura dell’immagine di cui nel 1980 eravamo solo agli albori. Basta vedere una papalina sventolata alla finestra per delirare davanti a un pontefice pre-mediatico, non più tenuto nascosto per difenderne la sacralità in Terra, bensì esibito e digitalizzato perché la massa, come San Tommaso, ormai crede solo a ciò che vede. È un discorso che informa tutta la creatività di Arbore e che non a caso troverà la sua massima espressione nella geniale parodia dei quiz di “Indietro tutta!”. Un discorso costantemente metalinguistico, che ne Il Pap’occhio si fa forte di una collaborazione estremamente produttiva tra cinema e tv, non (ancora) vissute come entità in concorrenza bensì come linguaggi da contaminare fertilmente. Un esperimento mai più ripetuto in Italia, un travaso positivo di creatività televisiva in ambiente-cinema, per lanciare un allerta non tanto sul demone-tv, ma sul demone-immagine che già tuonava all’orizzonte.

Negli extra Arbore si prodiga a rimarcare la natura de Il Pap’occhio di satira garbata e rispettosa, poco più di uno scherzo tra amici che non aveva alcuna intenzione di offendere. È un atteggiamento che fa parte, in fondo, dello stesso personaggio Arbore, sempre assai mellifluo nelle sue esternazioni e volenterosamente accomodante, il suo versante forse meno simpatico. Nei fatti, però, la satira de Il Pap’occhio è spudoratamente e sanamente aggressiva, non arretra davanti a niente e attacca spesso in modo frontale, a testa bassa. Qualcosa di neanche vagamente immaginabile nel cinema e nella tv italiana attuale. Oggi nessuno avrebbe il coraggio di assoldare un sosia del papa, renderlo personaggio attivo di un film e metterlo in burla con tanta goliardia (il Michel Piccoli di Habemus papam si muove su tutt’altre coordinate); nessuno lancerebbe le sorelle Bandiera dentro a uno show vaticano, vestite da suore, rimodellando la celeberrima “Fatti più in là” con il refrain “Nell’aldilà”.
E, spulciando ne “Il resto del Pap’occhio”, si hanno altre belle sorprese, che dispiace non trovare nel montaggio definitivo del film: un acido monologo di Benigni sulla Genesi, e soprattutto un sulfureo frammento di Mario Marenco che, rubacchiando negli appartamenti vaticani, scopre un carteggio tra papa Pacelli e Mussolini in cui il Duce invia al pontefice una camicia nera, confezionata appositamente da donna Rachele, da indossare almeno una volta alla finestra in omaggio alla rivoluzione fascista. Satira vera, graffiante, che ferisce a unghie sfoderate con notevole coscienza storico-culturale.

A fronte di tutto questo, nei provinandi da “Corrida” che passano al vaglio di Arbore sfila anche un decennio di cultura italiana: dai cantautori depressivi all’attrice impegnata (un bel cameo di Mariangela Melato), da emergenti soubrettone a cantanti neomelodici in aria di lacrima-movie (“Non correre papà / la mamma è morta già sull’autostrà”). La tv ovviamente sceglierà solo il peggio nell’ordine di una nuova logica da spettacolo-spazzatura. E intanto Renzo Arbore evoca con altissimo acume afrori di una morte culturale, in cui la fame d’immagini, e di diventare immagini, coinvolge tutti in uno psicodramma collettivo.
Così, in un happening tanto slabbrato e sformato, che contiene cose sublimi e anche pessimi momenti (il tormentone di Andy Luotto con la statua di San Simeone è abbastanza penoso), genialate e freddure, ritroviamo un pezzo d’arte che stenta a essere cinema, ma ce ne importa meno che ad Arbore. Solo immaginare Renzo Arbore sul set che grida “Azione!” a Martin Scorsese, comparsa di lusso poiché all’epoca marito di Isabella Rossellini, costituisce di per sé una performance concettuale. E tanto ci basta.

Extra:
“Quel Pap’occhio di 30 anni fa”, un lungo e ben documentato contributo di interviste a Renzo Arbore, Isabella Rossellini, Luciano Tovoli, Mariangela Melato, Michele Serra…
Info:
La scheda di Il Pap’occhio sul sito di CG Entertainment
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