Copkiller

Copkiller

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Cinema di genere, serie B all’italiana in contesto internazionale e sadomasochismi psico-politici. Harvey Keitel e Johnny Rotten dei Sex Pistols come protagonisti. È Copkiller, una bella sorpresa dal passato di Roberto Faenza. Per la prima volta in dvd in Italia per Mustang e CG.

La squadra narcotici di New York è presa di mira da un serial killer che ne uccide numerosi componenti. Il tenente Fred O’Connor vede eliminati i suoi collaboratori uno ad uno, finché non è avvicinato da un giovane psicotico che dice di essere l’assassino. O’Connor non gli crede e lo sequestra nel suo appartamento. E’ solo l’inizio di un gioco tra gatto e topo, con inversione di ruoli. [sinossi]

Ecco il Roberto Faenza da rimpiangere. Copkiller (1981-83) resuscita dall’anonimato (negli Stati Uniti è finito addirittura tra le opere di pubblico dominio, non coperte da copyright) e ci schiaffeggia in pieno viso. Signori, Roberto Faenza è stato anche questo, e per questa ragione ci troviamo spinti a riflettere su un percorso autoriale realmente sui generis, di quasi impossibile collocazione unitaria. In modo rapido e superficiale si potrebbe concludere che Faenza è partito incendiario e fiero ed è finito pompiere (Rino Gaetano docet), rinunciando semplicemente a più nobili ambizioni in nome delle produzioni internazionali in aria best-seller (Sostiene Pereira, L’amante perduto, Prendimi l’anima, Un giorno questo dolore ti sarà utile e chi più ne ha più ne metta). Un approdo cinematografico che in fin dei conti negli ultimi vent’anni ha mandato tutti scontenti: la critica, che puntualmente rifiuta questo suo cinema pettinato e impersonale, e tutto sommato anche il pubblico, che raramente è accorso in massa.
Copkiller torna a parlarci invece di una coerenza autoriale di fondo, che trova la sua cifra nella dimensione internazionale. A tenere insieme un film tanto diverso come Copkiller con le successive opere dell’autore interviene infatti il comune denominatore dello sfondamento dei confini culturali, della contaminazione internazionale e dei linguaggi cinematografici.
Certo, la contaminazione è condotta verso un pesante debito alle logiche narrative del cinema americano mainstream, ma riguarda soltanto l’involucro narrativo, le macrostrutture del racconto e le sue cadenze. Non riguarda invece il cuore pulsante del film, il suo nucleo nevrotico e digrignato, la raffinatezza del gioco psicologico sul quale s’impernia, e soprattutto le zampate fortemente debitrici verso il giallo all’italiana anni Settanta di stampo argentiano.

Ora Mustang e CG rieditano Copkiller in dvd per la prima volta in Italia riesumando un vecchio master vistosamente malandato, ma l’occasione resta ghiotta per godersi due ore di suspense originale e ben congegnata. Il film è rimasto lungamente irreperibile, lasciando così cadere nel dimenticatoio l’unica esperienza cinematografica di John Lydon, alias Johnny Rotten dei Sex Pistols, coinvolto da Faenza per un’operazione decisamente postmoderna. Si tratta di un’intrigante lettura di cinema internazionale che successivamente guasterà il cinema di Faenza come un fungo inestirpabile, ma che qui, fatta la tara a una certa ovvietà di confezione, trova un punto di fusione originalissimo tra cinema di genere, psicanalisi e psicosi da rockstar. Un cinema contaminato e melmoso, che mostra Johnny Rotten commentato dalla musica di Ennio Morricone in un ambiguo contesto tra alto e basso. Ambizioni alte e bassa exploitation. Harvey Keitel e Leonard Mann (al secolo Leonardo Manzella, presenza ricorrente del cinema di genere all’italiana con tanto di pseudonimo anglosassone), gli interni girati a Cinecittà e gli esterni a New York. E addirittura un cameo di Sylvia Sidney.
Tratto dal romanzo di Hugh Fleetwood “The Order of Death”, Copkiller prende l’avvio dall’indagine su un misterioso assassino di poliziotti, che ha preso di mira i componenti della squadra narcotici di New York. Il tenente Fred O’Connor, poliziotto maniaco dell’ordine sociale, vede eliminati uno dopo l’altro i suoi collaboratori e intrattiene un rapporto ambiguo col collega Bob, con il quale condivide in segreto anche un appartamento sotto falso nome. O’Connor viene avvicinato poi da un giovane squilibrato che dice di essere l’assassino dei poliziotti, e di tutta risposta il tenente decide di sequestrare il ragazzo, convinto che sia soltanto un mitomane. Da lì, la storia prende tutta un’altra piega, avvitandosi in un gioco tra gatto e topo in cui i ruoli finiscono per invertirsi.

Pare che Faenza si sia ritrovato a girare Copkiller all’estero per una sorta di esilio a seguito di Forza Italia! (1977), virulento e corrosivo documentario che l’autore dedicò al potere democristiano e che uscì nelle sale a ridosso del sequestro Moro, finendo per sparire rapidamente dalla circolazione per questioni di “decoro”. In effetti Copkiller ha tutto l’aspetto dell’opera d’occasione, messa insieme per contributi eterogenei e impensabili. Un film di “sottobosco”, che assembla Harvey Keitel, abituato in quegli anni a girare di tutto con ampie sortite anche in Italia, e molto pregresso del cinema di genere italiano, ivi compresa un’aria generale di serie B. Ma è proprio dal terreno della serie B italiana che il film di Faenza trae la sua forza e la sua ragion d’essere, mostrandosi per una sorta di sua avvincente rilettura psicanalitica.
Il tenente O’Connor di Harvey Keitel può essere facilmente ricondotto ai numerosi modelli di poliziotti psicotici anni Settanta (da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri a La polizia ringrazia di Stefano Vanzina, e così via con le decine di epigoni) in cui l’idea dell’ordine compensa torturanti sensi di colpa e frustrazioni. Faenza mette in scena con piena franchezza il progressivo stabilirsi di un rapporto servo-padrone tra due forme di psicosi, una specchio dell’altra, in cui le componenti di sopraffazione sono platealmente esteriorizzate secondo le linee di uno schietto cinema di genere, che si ancora agli schemi del giallo per tenere desta l’attenzione ma che a poco a poco si dedica a tutt’altro.

O’Connor prende il giovane maniaco a pugni, lo imprigiona, lo fa mangiare da una ciotola come un cane, gli dà ordini perché è “suo”, ma al contempo ne subisce tutto il fascino contorto e digrignato, spaventosamente disegnato nel volto imperturbabile di Johnny Rotten. Più di tutto, ciò che eleva Copkiller dal prodotto seriale o blandamente internazionale risiede proprio nella scelta della rockstar come coprotagonista, attivatore di uno strano/doppio transfert. La follia è l’irruzione del caos nell’ordine paranoide propugnato dal tenente O’Connor; il volto di Johnny Rotten è l’incarnazione del fantasma che alberga nell’uomo d’ordine. E il rock è la manifestazione di una primitiva istanza che, se arginata da sovrastrutture mentali fascistoidi, dà vita alla follia stessa. Così, l’iniziale rapporto poliziotto-criminale si tramuta in un angosciante legame concentrazionario in cui sadismo e masochismo si danno la mano e si scambiano di ruolo, e Copkiller si riconverte in una “storia d’amore” vagamente bondage, in cui il conflitto tra sensi di colpa omosessuali e ordine sociale presta il fianco alla manipolazione.
In prima battuta si direbbe che Faenza richiede allo spettatore una notevole sospensione d’incredulità. Può risultare difficile accettare infatti che un poliziotto così scafato si lasci manipolare agilmente da un giovane sciroccato; la risposta è però da trovarsi non soltanto nella deriva psichica cui il tenente va incontro, ma anche nella necessità di espiazione e confessione di un uomo torturato dal senso di colpa (“Tu hai bisogno di confessare”, ripete più volte il ragazzo) e soprattutto nella progressiva attrazione che O’Connor prova per il suo prigioniero-carceriere.

Secondo tale linea di ragionamento, Copkiller si profila come un film assai più politico di quanto possa sembrare a un primo sguardo. È sintomatico anzi che abbia visto la luce agli inizi degli anni Ottanta, quando il decennio italiano in stato di polizia stava volgendo al termine. Dopo i poliziotti tutti d’un pezzo anni Settanta, Faenza riflette in qualche modo sul recente passato, scava all’interno del “poliziotto marcio”, ne mette in luce mistificazioni, violenze e contraddizioni, formulando ipotesi sull’universale tensione alla sopraffazione che non anima soltanto gli ordini costituiti, ma anche i suoi prodotti deviati (il giovane psicotico è l’erede di una famiglia facoltosa). A differenza del pamphlet polemico, Faenza sceglie la strada del cinema di genere contaminandolo col Kammerspiel e mischiandone con disinvoltura i rispettivi stili. Ai brani efficacemente claustrofobici nell’appartamento di O’Connor si alternano zampate in puro stile slasher italiano anni Settanta (i macrodettagli sulle gole tagliate dei poliziotti assassinati), mentre le musiche di Morricone sono perfettamente competenti in ambito di cinema di genere, ancorché talvolta invadenti e ridondanti. Del cinema di serie B Copkiller conserva anche il gusto per le “zeppe” narrative non del tutto necessarie (il personaggio di Nicole Garcia: una coprotagonista femminile di bell’aspetto non poteva di certo mancare), e il finale è onestamente bruttarello, didascalico e tirato troppo per le lunghe. Ma resta comunque la grande sorpresa di ritrovare un Roberto Faenza intelligentemente morboso e provocatore, ottimo orchestratore di suspense e attese, sorprese e false piste narrative, animato anche da un acuto spirito metropolitano nelle riprese di una New York oscura e notturna. Un Faenza che ha il coraggio di girare un “filmaccio”, sporco e sbilenco, che assomma disinvolte brutture da cinema seriale a un intreccio realmente originale e intrigante. E un Faenza politico più che mai. Perché niente è più politico dell’amore, quando piegato a logiche produttive di dominio e sopraffazione.

Extra
assenti.
Info
La scheda di Copkiller sul sito di CG Entertainment.
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