Paulina

Paulina

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Opera seconda di Santiago Mitre, già vincitrice alla Semaine de la Critique di Cannes 2015, La patota (Paulina) conferma l’ottimo stato di salute del cinema argentino. Disturbante puzzle/thriller dell’anima su natura e cultura, violenza e colpa, animato da un’esplicita riflessione politica. In concorso a Torino 33.

Prima il pane, poi l’etica

Nell’Argentina di oggi, Paulina abbandona un dottorato per dedicarsi a un’esperienza d’insegnamento in una zona remota del paese, al confine con Brasile e Paraguay. Rifiutata da un ambiente ostile e respingente, la ragazza cade vittima di uno stupro collettivo. Sebbene sconvolta e traumatizzata, Paulina sembra non decidersi a denunciare i violentatori. [sinossi]

Che lettura dare alla violenza, quando prende forma in contesti culturali “altri”? È possibile condannarla applicando le nostre distinzioni più immediate tra bene e male? Come accogliere la violenza, quando si è subita a seguito di tali differenze culturali? Discende sempre da una medesima fonte universale, o piuttosto è la diretta emanazione di una precisa società, anzi di una “mancata società”, in cui non si sa nemmeno giocare alla democrazia durante un’ora di lezione in classe? La patota (Paulina), opera seconda di Santiago Mitre, già in più occasioni collaboratore alla sceneggiatura di Pablo Trapero (El Clan), solleva dubbi che spaventano, si addentra in territori psichici e universali interrogando lo spettatore su quanto di meno dubitabile possa esserci. Spinge soprattutto chi vede verso un’impossibile empatia dalla quale si fugge inorriditi, tanto si allontana da qualsiasi umana consuetudine nell’interpretazione del reale.
Un cinema che osa e rischia crudelmente, interpellando lo spettatore, mettendolo con le spalle al muro riguardo alle proprie certezze più acquisite. Natura, cultura, potere, politica: Paulina, vagamente ispirato a un omonimo classico del cinema argentino anni Sessanta, apre sfide enormi e lascia esterrefatti per lucidità e coerenza. Poco importa se la sospensione dell’incredulità richiesta appaia stavolta più impervia del solito: sta proprio nel presentare un terrificante paradosso, scavando in esso, che Santiago Mitre ci abbandona in una terra di nessuno, dove l’unica certezza è la delirante (eppure lucidissima) determinazione di una donna a non farsi giustizia tramite strumenti che non riconosce.

Un lungo piano-sequenza introduce il film a una prima decisione controcorrente. Nell’Argentina di oggi Paulina decide di abbandonare un dottorato per dedicarsi a un progetto di insegnamento in una zona remota del paese, ai confini con Brasile e Paraguay. Dopo una lunga discussione col padre, giudice progressista, la ragazza parte per la nuova esperienza, ma da subito l’impatto non è dei più facili. La classe di studenti che si trova davanti è ostile e respingente, e parla una lingua distante anni luce dalle facili certezze del politicamente corretto. A seguito di un equivoco, Paulina viene poi violentata da alcuni dei ragazzi. La ragazza tuttavia reagisce nel modo più imprevedibile, rifiutandosi di denunciare i propri violentatori. Man mano, nella rigida e coerente decisione di Paulina emerge la condanna più crudele per tutto un sistema di pensiero fondato sull’ipocrita igiene sociale garantita da false democrazie. A farne le spese emotivamente più devastanti sarà il padre di Paulina, rappresentante istituzionale di quel modello di pensiero.
Come dicevamo, Santiago Mitre punta alla messa in scacco dello spettatore, scommettendo sull’impossibile empatia per una vittima che non vuol ritenersi tale. Tuttavia Paulina fugge dalle soluzioni più semplici, evitando le pastoie del film a tesi o dell’eccessivo didascalismo. Mitre opta per una dolorosa equidistanza, in linea con la messa in crisi di tutto un sistema collaudato di valori. Azione/reazione, crimine/condanna, trasgressione/repressione: ma, sembra voglia dire Paulina tramite la sua paradossale decisione, non si può condannare chi non ha un’adeguata cultura per distinguere tra bene e male. Il colpevole semmai è proprio quel sistema di potere che ha lasciato allo sbando una fetta di mondo. Di più: si spalancano abissi insondabili tra natura e cultura, entrambi in ultima analisi dominati dalla violenza.

Paulina è circoscritto tra due lunghi confronti di Paulina con il padre: momenti drammaticamente intensi e tecnicamente virtuosistici, ma anche i più espliciti di tutto il film, a rischio di didascalismo, nello scontro tra massimi sistemi e interpretazione del reale. Nel mezzo si dipana un puzzle/thriller dell’anima che si affida saggiamente alla frantumazione della linearità temporale e alla scomposizione dei punti di vista, presentando una realtà ricostruita a poco a poco per contributi da angolazioni diverse, eppure sempre insoddisfacenti. Non può esserci risposta definitiva per il costante interrogativo che la decisione “impossibile” di Paulina solleva; il mistero della sua anima e dei suoi tortuosi percorsi di elaborazione del dolore resta per lo più inaccessibile.
Paulina, in buona sostanza, è il tipico film da “falso” realismo etnico, che aderendo per buona parte a retoriche ormai collaudate (location dal vero, attori adolescenti non professionisti, estrema crudezza visiva) finisce per costeggiare territori decisamente alieni a tale tendenza: quello di un cinema fortemente politico che interroga il pubblico su inquietanti relativismi culturali cucendo il linguaggio filmico addosso al proprio racconto. Per un cumulo di certezze morali che a poco a poco si sgretolano, niente è più congeniale infatti di un “giallo” esistenziale in cui conosciamo subito i colpevoli, ma ignoriamo le ragioni della colpa. Che resteranno sempre opache, perché in ultima analisi pure la caparbietà di Paulina rischia di apparire un delirio da sovrastruttura culturale.
Pur accusando qualche calo narrativo nella parte centrale, La patota (in gergo significa “gang”) tiene lo spettatore avvinto da inizio a fine e lo congeda scosso e turbato. Altro buon tassello da un cinema argentino che recentemente sembra godere di ottima salute.

Info
La scheda di La patota (Paulina) sul sito del Torino Film Festival.
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