La canzone perduta

La canzone perduta

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La tragedia dei curdi, l’alienazione metropolitana, un villaggio smarrito nella memoria, una lingua a cui aggrapparsi per conservare e tramandare la propria identità culturale. Premiato in vari festival, La canzone perduta di Erol Mintas racconta solitudine e confusione esistenziale nella Turchia di oggi.

Parlo quindi sono

Costretto a lasciare il proprio villaggio a seguito di persecuzioni contro i curdi, Ali vive con l’anziana madre a Istanbul da molti anni. Insegna lingua curda ai bambini e scrive libri nel proprio idioma nel tentativo di conservare un’identità culturale. Sua madre Nigar non si arrende all’idea di vivere in città e ogni mattina si sveglia decisa a ritornare al proprio villaggio. La sua alienazione andrà incontro a un processo inarrestabile. [sinossi]

Dei curdi si parla sempre troppo poco. In Occidente se n’è scoperta mediaticamente l’esistenza alla fine degli anni Ottanta, quando Saddam Hussein conduceva un atroce genocidio nei confronti dei curdi iracheni. In Italia ebbero una fiammata di popolarità per Abdullah Ocalan, leader curdo che nel 1998 esplose tra le mani di Massimo D’Alema, appena insediato Presidente del Consiglio e invischiato in una complicata richiesta d’asilo politico (che, manco a dirlo, non fu soddisfatta). Non sarà certo questo breve pezzo a colmare una lacuna culturale così profonda, né può farlo un solo film, La canzone perduta di Erol Mintas, che arriva adesso nelle sale italiane con due anni di ritardo dopo aver vinto numerosi premi in giro per festival, trionfatore al Sarajevo Film Festival e al Festival del Cinema Europeo di Lecce.
Popolo millenario, i curdi hanno alle spalle e tuttora nel loro presente una storia secolare di diaspora e persecuzione, all’eterna ricerca del riconoscimento di un proprio territorio unanimemente chiamato Kurdistan ma ancora frammentato tra più stati mediorientali, senza che nessuno mostri la minima intenzione di cedere un metro di terra per la fondazione di un vero stato curdo. L’indipendentismo, anche sotto forma di guerriglia e terrorismo, è costantemente andato incontro a feroci repressioni, con violentissime punte di genocidio fisico e culturale. È uno degli elementi che sottotraccia emerge anche in La canzone perduta, opera che si sofferma sulla condizione dei curdi turchi, seconda etnia del paese per numero sottoposta a una feroce sottomissione culturale, laddove la stessa lingua curda è stata soggetta a divieto d’uso.

La canzone perduta parte esattamente da qui, ovvero dal disperato attaccamento alle proprie radici culturali tramite la perpetuazione della propria lingua, identificata non soltanto nelle lezioni tenute dal protagonista Ali a classi di bambini ma soprattutto nella canzone del titolo, oggetto delle ricerche senza esito di un’anziana madre (e per compensazione ci penserà uno zio a incidere su nastro canzoni nel loro idioma). Il territorio è quello dell’enorme metafora per successivi gradi di sineddoche: la canzone che la madre di Ali vorrebbe riascoltare non è altro che il frammento di un intero sistema linguistico a rischio di rimozione, e la lingua è a sua volta parte di un tutto culturale. Canzone-lingua-cultura: a rischio di sparizione vi è quindi un intero sistema antropologico.
Ed è probabilmente già sparito il villaggio al quale l’anziana madre di Ali vorrebbe ritornare, dopo che a seguito delle persecuzioni degli anni Novanta la famiglia è stata costretta a ripiegare a Istanbul. Nella metropoli turca l’anziana signora Nigar va incontro a una progressiva alienazione, incapace di adattarsi a un nuovo contesto e nuovi ritmi, vittima di un devastante sradicamento che dal disagio e dall’insonnia la conduce ai bordi della follia. Suo figlio Ali tiene lezioni di lingua curda in un costante clima di sospetto e tensione: controlli della polizia, discriminazioni sul lavoro, criminalizzazione degli scioperi. Intanto scrive libri nella propria lingua nativa per contribuire alla sopravvivenza dell’idioma e recalcitra all’idea di diventare padre. E alla sua classe di bambini racconta non a caso favole folcloriche su corvi e pavoni, tutte incentrate sul tema della diversità.

A un primo sguardo La canzone perduta sembra affidarsi a un noto percorso da “neorealismo mediorientale”, fondando come di consueto la propria estetica sulla durata, i dialoghi (finto-)improvvisati, la luce naturale, il passo della quotidianità, la macchina a mano e i piani-sequenza. Ma a cambiare di segno è innanzitutto l’ambientazione metropolitana, che viene a raccontare efficacemente il profondo disorientamento di chi, perdendo il proprio villaggio, ha perso un intero orizzonte esistenziale. Nel racconto delle condizioni dell’anziana madre Mintas mostra le sue cose migliori, dando piena espressione a un processo di alienazione urbana tramite piccoli cenni progressivi fondati sull’idea del pedinamento e dello “starci”: restare dentro a una situazione allungando i tempi narrativi, cercando i segni del mutamento interiore in impercettibili segnali esterni. Un’esitazione, l’ennesimo sedersi annoiati sul divano, le lunghe notti a fumare ad occhi spalancati nel buio. Talvolta emerge anche la notazione umoristica, come per il buffo rapporto della signora Nigar con le sonorità heavy metal. Nota dominante resta il conflitto tra il vecchio e il nuovo, tra una tradizione a rischio di estinzione e una modernità a suo modo omologante. E come spesso accade nel cinema del Medioriente entra in crisi il concetto stesso di drammatizzazione, dal momento che in un progetto scopertamente finzionale resta comunque evidente il parziale utilizzo di attori non professionisti, dei quali la carica drammatizzante e consapevolezza narrativa appaiono sempre molto ambigue (basti pensare alla sequenza di zio Agid che registra su nastro il proprio canto).

Nel frattempo La canzone perduta racconta anche in filigrana strane contraddizioni. Emerge una Turchia vistosamente moderna e al passo coi tempi occidentali, ma decisamente allarmante sotto il profilo dei diritti. È in un racconto di piana quotidianità che viene infatti ricollocata la breve sequenza in cui Ali vede recapitarsi dal direttore della scuola una lettera dove gli viene richiesto di redigere una difesa per aver partecipato a uno sciopero. Così come il controllo poliziesco in classe è mostrato come perfettamente riassorbito nel flusso della norma. Erol Mintas mostra una notevole sobrietà di sguardo e la capacità di dare profonda sostanza a un cinema politico evitando le strade dell’attacco diretto. Tra un tè preso in compagnia e due risate rivedendo una vecchia comica di Chaplin, da La canzone perduta passa un lamento sulle proprie radici, un desiderio d’identità, una disperata ricerca di continuità culturale. E, di traverso, qualche cartolina impietosa dalla Turchia di Erdogan.

Info
Il trailer di La canzone perduta su Youtube.
La scheda di La canzone perduta sul sito del distributore Lab 80.
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