Farrebique

Farrebique

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A settant’anni dalla prima assegnazione di un premio FIPRESCI, Cannes Classics omaggia il primo trionfatore. Farrebique di Georges Rouquier è un rarissimo esempio di come documentario e finzione siano due categorie del tutto superflue.

Une vie de campagne

Nel corso di un anno, tra il 1944 e il 1945, Georges Rouquier ha condiviso la vita di una famiglia di contadini, la sua, nella fattoria Farrebique a Goutrens, nella Rouergue. Il film mostra una vita ritmata dalle stagioni, dalla vendemmia in estate al rito del nonno che taglia e distribuisce i pezzi di pane per la cena. Rouquier evoca anche le difficoltà di una simile vita alla soglia della sua trasformazione per l’arrivo dell’elettricità e della modernità. In Farrebique, Rouquier mostra la bellezza di queste persone, i loro gesti semplici, la vicinanza ai loro animali e alla natura, la loro vita aspra. [sinossi]

Tra gli oggetti più preziosi della bella selezione di Cannes Classics per la sessantanovesima edizione del festival transalpino, rientra senza dubbio di diritto Farrebique, oggetto difficile da maneggiare – soprattutto per l’epoca in cui fu ideato e realizzato – partorito dalla mente di Georges Rouquier, regista per lo più dimenticato in particolar modo dalle generazioni più giovani. Amico e in alcuni casi sodale di Jacques Demy e Chris Marker (al quale “presta” la voce per Lettre de Sibérie), Rouquier fece irruzione sulla scena cinematografica nazionale proprio con Farrebique, quando non aveva ancora quarant’anni. Per quanto con il passare del tempo questo particolare ibrido tra finzione e documentario sia assurto al ruolo di classico del cinema francese, la sua prima apparizione a Cannes, nel 1946, fu a dir poco tumultuosa: apertamente denigrato da una parte della critica e dei suoi colleghi, Farrebique fu escluso dalla competizione ufficiale e relegato al fuori concorso, all’epoca zona poco apprezzata e suguita dei festival. Solo l’aver ricevuto il premio FIPRESCI, creato ad hoc proprio per l’occasione – motivo in più per alimentare la polemica montante –, permise al film di raggiungere il grande pubblico.
La RKO ne acquistò infatti i diritti, e Farrebique si ritrovò in programmazione a Parigi, al cinema Madeleine, in coabitazione con il disneyano Saludos amigos. Un accostamento peregrino solo a uno sguardo disattento…

Girato nella regione di provenienza di Rouquier, l’antica Rouergue (nel cuore dell’Occitania, oggi nota come Aveyron), Farrebique si muove infatti su un terreno scivoloso, che prevede la commistione tra documentario e finzione fino a mescolare le due parti al punto da renderle indistinguibili. Non è un caso che Rouquier si sia sempre definito un accanito fan di Robert Flaherty e del suo Nanuk l’eschimese, anche se nel suo caso il tutto assume i contorni della “questione privata”: non solo difatti il regista abbandona Parigi, metropoli nella quale si era trasferito appena adolescente per cercare fortuna e lavorare nel mondo del cinema, per tornare al suolo natio, ma coinvolge nei lavori del film l’intera famiglia. I protagonisti di Farrebique sono dunque i parenti di Rouquier, e ogni gesto che compiono è accompagnato da uno sguardo benevolo, carezzevole. La macchina da presa non si limita a mostrare, ma si muove in osmosi con quel che avviene davanti a lei, prendendo parte attivamente a una vita quotidiana dolorosa, dura, ma dalla quale la saggezza contadina sa ancora estrarre la parte migliore.
Rouquier guarda con sospetto la modernità, non per vaga ispirazione luddista, ma perché nelle sue vene scorre un sangue abbarbicato alla terra, attaccato agli umori delle stagioni; sono loro (le stagioni) le vere protagoniste di Farrebique, e il film è scandito dal passaggio dall’estate all’autunno, fino al rigido inverno che anticipa il ritorno della vita a primavera. Se a distanza di settant’anni questo schema può apparire semplicistico, e fin troppo formale, il lavoro di Rouquier sorprende ancora oggi per la straordinaria capacità di inserirsi in un contesto estraneo alla prassi del cinema francese con una naturalezza a suo modo sconvolgente.

Tutto in Farrebique (il titolo riprende il nome della fattoria di famiglia, che dovrebbe proporre una crasi tra il verbo “ferrare” e il sostantivo “capra”: ovviamente le capre però non si ferrano…) sembra scorrere nell’unica direzione possibile, o per lo meno la migliore, la meno contraffatta; in questo modo, mentre ancora oggi si dibatte – in modo stanco e spesso superficiale, quando non direttamente vacuo – del cosiddetto “cinema del reale”, nel 1946 Farrebique spariglia già con forza le carte, scardinando la serratura che pretenderebbe di dividere finzione e documentario in due aree distinte, da tenere separate, quasi si dovessero preservare le une dalle altre. Rouquier al contrario opta per un métissage continuo (i dialoghi sono scritti, così come buona parte delle situazioni che vedono protagonisti i suoi famigliari), imbastardendo una materia che con troppa facilità si rischia di sacralizzare. Per quanto non si ritragga di fronte a un lirismo soffuso, Farrebique è un film materico, vibrante di una dignità contadina che nel 1946, con una Francia da ricostruire da vincente sconfitta di una guerra mondiale, poteva sembrare stonata, o fuori tempo. La sua forza era invece proprio quella di raccontare in pieno il proprio tempo, quello di una civiltà morente che sarebbe stata soppiantata dalla modernità, e inevitabilmente corrotta, bene o male che sia.
Per ribadire quanto avesse ragione già allora, Rouquier pensò bene di ritornare trentotto anni dopo a riprendere di nuovo la sua famiglia, per vedere cosa era cambiato. Si era nel pieno degli anni Ottanta e dell’ottimismo verso il Capitale che ha contribuito a condurre il mondo occidentale allo sfacelo economico dei nostri giorni. Biquefarre mostrava già tutto questo, ma di nuovo furono in pochi ad accorgersene.

Info
Il trailer di Farrebique.
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