Intervista a Cristi Puiu
Cristi Puiu è fra gli autori di punta del cinema dell’Europa dell’Est, esponente di quella generazione post-Ceausescu che in Romania si interroga, con attori non professionisti e una messa in scena di assoluto rigore, sulle scorie della dittatura, sui rapporti umani e sulla Storia. Lo abbiamo incontrato in occasione del 28esimo Trieste Film Festival, dove è stato ospite d’onore e ha presentato in anteprima italiana Sieranevada, già in concorso a Cannes.
Subito dopo la prima proiezione di Sieranevada a Cannes, Raffaele Meale ipotizzava su queste pagine che il titolo potesse essere un richiamo all’ostilità della Sierra Nevada quando arrivarono i primi coloni, ancora ignari dell’oro che stavano calpestando ma in compenso accolti dal clima rigido e dalle frecce dei pochi nativi rimasti. E in effetti nel suo cinema, da La morte del signor Lazarescu ad Aurora, fino a Sieranevada, i titoli pare stiano progressivamente diventando sempre più enigmatici e stratificati…
Cristi Puiu: La storia del cinema e quella della letteratura ci insegnano che il titolo va preso molto seriamente, perché grazie a esso puoi scoprire il senso del film o del romanzo. Ma è anche vero che il titolo è un’etichetta, e che non riesce necessariamente a comprendere, a coprire, tutto il significato di quanto è contenuto nell’oggetto a cui ha dato il titolo. Non può riuscire a contenere tutti i significati, c’è sempre una discrepanza fra ciò che avviene e il senso vero e proprio. Per esempio, se si prende Delitto e castigo di Dostoevskij, ti senti a tuo agio perché apri il libro e puoi vedere che effettivamente c’è un delitto ed effettivamente c’è un castigo. Ma il libro non è sul delitto e sul castigo. E I fratelli Karamazov è in sostanza la stessa cosa. Altri libri invece sono molto più chiari sotto questo aspetto, ce n’è uno che, per esempio, suggerisco spesso ai miei attori perché lo considero uno dei più bei libri sulla recitazione. È il libro di Pirandello, Uno, nessuno, centomila. E in questo caso si può dire che il titolo è molto meglio collegato con il suo senso e con il dramma del signor Moscardo. Ma invece, se prendiamo Lo straniero di Albert Camus, dov’è lo straniero in questa storia? Si può dire che lui sia straniero perché è alienato, ma si iniziano comunque a fare delle illazioni sul senso del titolo, quasi a speculare. E ovviamente anche al cinema ritrovi questa stessa situazione, perché bisogna sempre immaginare un film come una storia. Uno dei motivi scatenanti che mi ha portato a realizzare Sieranevada non è stato soltanto il funerale di mio padre, oltre a questo c’è stata anche la rivelazione, di piccolo grado sulla storia che io racconto a me stesso, che ho avuto riguardo ai fatti che avvengono al momento della Storia. Non è una piroetta filosofica, è la differenza fra storia e Storia, e va presa molto seriamente: il titolo deve dire al pubblico anche una storia diversa, ovvero che c’è una dissonanza fra la storia che io ho creato e i veri eventi, i fatti. E per fare questo deve denunciare un problema anche con il titolo, l’etichetta. Per esempio c’è nel film questa immagine del vestito all’inizio che non è della taglia giusta, non sta al ragazzo che deve indossarlo, e allora va modificato, aggiustato. Ed è solo il primo: Sieranevada è pieno di cose che vanno aggiustate. Poi molte persone hanno una certa idea riguardo all’11 settembre e ognuno combina nella propria testa la percezione di questi eventi su grossa scala – che sono per esempio la rivoluzione in Romania o l’attentato a Charlie Hebdo, l’11 settembre, la seconda guerra mondiale, quello che volete – e gli eventi su piccola scala, ovvero la storia a livello familiare. Ecco perché Sieranevada, come a ricordare che si tratta di finzione. Sì, va bene, direte voi, ma perché Sieranevada e non “Ferrari Testarossa”, per dire? Perché doveva esserci un luogo nel titolo, uno spazio fisico, un posto in cui si è presenti ma qualcuno non c’è più. Per esempio con La morte del signor Lazarescu ho parlato di un’azione nel titolo, con Aurora di un periodo, di un preciso momento del giorno, mentre ora volevo parlare di un luogo, perché questo è un film anche sugli spazi. Quando si inizia a scrivere una sceneggiatura si scopre ben presto che l’idea iniziale sarà poi quella che plasmerà anche a livello personale chi scrive, sarà la sua ricerca di una propria ragione di essere. Vi è una sorta di décalage, di scatto temporale tra i fatti, la storia, le relazioni, le bugie, i segreti. E ovviamente la morte di mio padre è stato un evento forte: molti tendono a parlare di altri temi, perché non si vuole menzionare la morte, perché non si osa, perché c’è l’espressione: non parlare di corda a casa dell’impiccato, perché c’è pudore, o per una serie di altri motivi. Mi ha poi stimolato nella scrittura del film la paura della mia morte, del momento in cui lascerò i miei cari, gli amici. Non è la paura di essere dimenticati, perché sono piuttosto ottimista su questo [ride, n.d.r.], tuttavia sento che sarà difficile sopravvivere dopo. Forse questa è un po’ una reazione narcisista perché magari si potrebbe pensare che sono così importante da avere questi pensieri. Ma diciamo che cerco di fare il meglio nel credere che vi sia una vita dopo la morte, un Aldilà, anche se è molto difficile per il mio cervello credere che ci sia davvero un Aldilà e che la morte sia solo un momento, un passaggio.
Tornando al suo discorso sugli spazi, in Sieranevada i movimenti della macchina da presa portano in un certo senso a ridiscutere gli stessi concetti di campo e controcampo all’interno di un piano-sequenza. E poi ci sono le porte che si aprono e si chiudono, frammentando ulteriormente lo spazio, togliendo aria ai personaggi e alla vicenda. La sua, fin dagli esordi, è una messa in scena nervosa, asfittica, una messa in scena che acquista un ben preciso valore sociale e politico e che si sta costantemente radicalizzando, recludendo sempre più i propri personaggi. Quanto vede “reclusa” oggi, da cittadino che ha visto la fine del regime di Ceausescu, la società rumena? Ci sono veri e propri compartimenti stagni?
Cristi Puiu: Partiamo dal fatto che non è possibile sfuggire da ciò che si ha in mente. Non è necessario pubblicare le proprie storie o farne film, si diventa autore semplicemente quando la storia che si racconta è diversa da quella che ha effettivamente avuto luogo. Ci sono certi limiti di espressione che non sono dovuti alla capacità di esprimersi, ma alla capacità che gli altri hanno di comprenderci. Ma al tempo stesso vale anche l’opposto, ci sono problemi a esprimersi e allo stesso tempo problemi anche nella comprensione. L’autore e lo spettatore sono come due pilastri dello stesso ponte, devono avere in mano gli stessi elementi, chi vede i miei film deve capirmi mentre cerco di far emergere ciò che ho in testa e io, dall’altra parte, devo mettermi nei panni dello spettatore, immaginarmi spettatore, perché prima di tutto anch’io lo sono. Se guardo un dipinto che è stato fatto nel 1907, non posso pensare che sia stato realizzato nel 2017, e analogamente quando penso all’azione devo collocarla nel 1907 se voglio realizzarla. Quindi da un lato ci sono io, come pilastro del ponte, dall’altro il quadro che guardo che è l’altro pilastro, e l’azione ha luogo nel 1907. Ci sono diversi fattori stimolanti nella mia testa da cui posso partire, e le scelte fatte non sono le scelte di qualcun altro, sono uniche, personali, umane. Quindi ci sono diversi livelli, c’è il livello di idea, quella che ho in testa, poi ci sono gli strumenti come la macchina da presa, le luci e il microfono, e infine ci sono i diversi tipi di espressione: la “ricetta” che scelgo per esprimere tutto questo. Quindi vorrei sottolineare che lo spettatore, quando guarda un film, guarda e riscrive la propria storia partendo dal film. Ci sono diverse intersezioni, tuttavia non funziona come è stato descritto nella domanda – per alcuni registi forse si, ma per me no – perché il mio legame con il cinema, con la scrittura, con la pittura, con le arti in generale, si fonda prima di tutto sull’intuizione. Partiamo dal film. Si nota questo appartamento in cui si fa uso delle porte, vi è appunto un bagno con una porta che separa dai bisogni, c’è un bambino che dorme, c’è una porta che separa e che viene chiusa nel momento di una confessione perché è ovvio, non si vuole che gli altri sentano che c’è stato un tradimento da parte del marito. Quindi c’è un primo livello, funzionale, delle porte aperte e chiuse che viene affrontato nel film. Quando stavo scrivendo la sceneggiatura, il copione, ho notato che c’erano queste porte e mi sono chiesto: e ora cosa faccio con tutte queste porte che si chiudono? Forse era un procedimento che avevo a livello mentale, come direbbero alcuni psicologi, ma io direi che ciò che è accaduto ha che fare con un livello più ineffabile, quasi divino. Questa ineffabilità è ciò che avviene quando si scrive, qualcosa che succede quando guardo indietro agli eventi della mia vita. Quando, per esempio, ho pensato a ciò che mi è accaduto nella vita dopo la morte di mio padre e mi sono reso conto che in fondo non lo conoscevo. So che può suonare come uno stereotipo dolce, “da film”, ma di fatto è vero, lo conoscevo poco: era una persona autoritaria, silenziosa e riservata, e lo conosco soprattutto attraverso il racconto di mia madre. Comunque la cosa più importante è che mi sono reso conto che noi viviamo le nostre storie personali, le storie che ci costruiamo. Questo è un dettaglio molto importante: noi non possiamo vivere se non nelle storie che noi stessi ci siamo costruiti su un mondo che conosciamo in base alla nostra esperienza. Il mondo non può essere conosciuto, non può essere percepito, non sappiamo cos’è il mondo, quello che sappiamo del mondo è come lo percepiamo nelle nostre teste, perché siamo noi che ci siamo costruiti quell’immagine. Faccio un esempio pratico: Alfred Korzybski, ideatore della frase “La mappa non è il territorio”, era uno scienziato polacco nell’ambito della logica. Una volta andò all’università e offrì ai propri studenti biscotti per cani, senza dirglielo. Quando rivelò la natura dei biscotti a chi li aveva mangiati, alcuni studenti reagirono sputandoli, altri si sentirono male, ma nessuno si era accorto di nulla fino alla rivelazione. Così dimostrò che non mangiamo solo cibo, ma anche parole e autosuggestioni. Ciò che vediamo è legato al nostro mondo e non possiamo fuggire dai limiti della nostra percezione, della nostra creatività. Il problema, quando non ci si capisce reciprocamente, sorge dal momento del risveglio, perché entriamo in questo processo creativo e creiamo continuamente. È importante sottolineare la differenza tra “essere” e “mondo”, o meglio “i mondi”, perché noi viviamo in mondi e non in una condizione di esistenza. Mi rendo conto che può suonare filosofico tutto questo, e forse anche un po’ incongruente. Potete chiamare qualsiasi cosa col nome che volete, col nome che preferite, l’importante è capire che non possiamo capirci tutti perché siamo bloccati nel nostro processo di creazione di diversi mondi e di etichettatura. Questo ci porta a una condizione molto solitaria, mi auguro che voi non guarderete troppo in questa direzione, ma continuerete a pensare che una persona vi ama, anche se di fatto non è vero perché nessuno ama qualcun altro, tutti amano solo se stessi. E quindi questa è la croce che ognuno si porta appresso. Ognuno porta una croce, io invece porto al collo un fischietto [fischia, n.d.r.], lo uso per gli attori [ride, n.d.r.]. Tornando alla topografia dell’appartamento, la chiusura delle porte mi ha aiutato a creare uno stile per rappresentare diverse cose e per rappresentare ciò che vediamo e non vediamo, e mi ha portato a voler inserire in quello spazio, utilizzando lo stile che ho scelto, il significato delle storie attraverso le quali si esprime il film. Di fronte a una serie di eventi, chiunque assume una propria ben precisa posizione, qualcuno c’era e qualcuno no, qualcuno ha visto e qualcuno no. E in questo senso ogni film ha un doppio binario: c’è una storia che gli attori si raccontano tra di loro, anzi una serie di storie che gli attori si raccontano, e c’è una storia che arriva allo spettatore. Mi rifaccio a La Bruyere, che rappresenta la Storia, quella con la S maiuscola, come un incidente automobilistico per cui 10 persone vanno a vedere l’incidente e danno 10 versioni diverse dello stesso fatto. In questo senso, le porte fungono da scudi, da isolanti, e mi rendo conto che si possa speculare moltissimo partendo da questo nel parlare della società, ma penso che sia una questione legata alla libera interpretazione dello spettatore, la mia idea non era fare un film sulla società post-rivoluzione. Costruire metafore secondo me è un po’ da stronzi. Le metafore sono proprietà esclusiva dello spettatore, dei testimoni, non dell’autore. Ci sono autori che giocano con le metafore, ma quello è un terreno traballante, instabile, perché la cosa importante è la testimonianza che viene data, dove metti la macchina da presa. Questo è il punto e tutto il resto è una conseguenza di questa scelta, una scelta etica. Per alcuni autori la metafora è una concretizzazione di uno stato mentale di emozioni che sono rappresentate e che non possono essere in altro modo messe in immagini, però è un metodo diverso di agire. Personalmente, penso che le metafore debbano essere lasciate allo spettatore e che lo spettatore non debba essere ucciso dalle metafore, perché altrimenti anche il titolo si potrebbe leggere all’infinito come una metafora. Abbiamo per esempio due Sierra Nevada nel mondo, negli Stati Uniti e in Spagna, mentre la Romania ha in sostanza la stessa bandiera del Ciad, blu, gialla e rossa, e questo crea una grandissima confusione. Va bene, il blu è leggermente diverso, ma rimane in sostanza la stessa bandiera.
Quindi è una questione di percezione dello spettatore, il modo che ognuno ha di approcciarsi alla fiction e di costruirsi la propria. Ma la finzione, in questo caso, indica l’impossibilità di arrivare a una verità fattuale, che si tratti di storie di famiglia o di rapporto personale con la Storia?
Cristi Puiu: Per me è successo nella direzione opposta: ovvero noi abbiamo sviluppato l’idea di realtà obiettiva ed è questo il problema, perché noi in realtà viviamo nella finzione, perché la realtà obiettiva non esiste, non può esistere. Non appena si mettono due persone insieme, pur con due cervelli che usano la stessa lingua e usano le stesse parole, per avere una conversazione educata e arrivare a una conclusione comune trovando un consenso dovranno adattare ciò che conoscono e le loro idee sui diversi argomenti e sul mondo. Ciò però non significa che raggiungeranno una realtà obiettiva, ma creeranno una nuova realtà “di consenso”, “di dialogo”. Noi viviamo in un mondo creato da noi stessi e la nostra natura non ci aiuta, perché se ad esempio registriamo la nostra voce, poi ci sentiamo imbarazzati riascoltandone il suono dall’esterno perché siamo abituati a percepirla dall’interno. Sentiamo diverse frequenze, diverse vibrazioni, diverse profondità, un tono leggermente diverso, quando ascoltiamo della nostra voce. E questo è un problema del vivere il proprio corpo, il proprio cervello, è la nostra incapacità di fare un passo indietro per osservarsi e ascoltarsi dall’esterno, scevri di ideologie. Non viviamo in un mondo oggettivo, al suo interno inventiamo le nostre finzioni e le viviamo quotidianamente, ma siamo convinti di vivere in un mondo oggettivo: e questo è il vero problema, è molto pericoloso. Nella nostra vita ci scambiamo storie, e da alcune storie viene sviluppata un’ideologia che può portare fino all’uccisione di molte persone, perché finiamo inevitabilmente per piegare le nostre storie alle ideologie e le ideologie uccidono l’individuo. Questo è un problema su ogni livello, nella società come all’interno di ogni famiglia. Il problema è che non possiamo percepire se non tramite il nostro io interiore, e la comprensione del mondo in cui si vive è condizionata dai segreti familiari. Ogni persona di questo pianeta ha i propri segreti, e ogni famiglia ha i propri problemi nel cercare la verità. A volte dire la verità può essere necessario e positivo, ma alcuni segreti hanno la potenza di una bomba e, se rivelati, possono distruggere una famiglia. Dipende tutto in primo luogo dalla relazione di ognuno con se stesso, quello che più conta è il livello individuale. In una famiglia, l’equilibrio fra le relazioni è affidato al compromesso, al non detto, e finché la priorità sarà la coesione servirà cercare un terreno comune attraverso le bugie e i tradimenti. A scuola si impara a copiare, fuori si impara a mentire. È difficile trovare un equilibrio fra le relazioni e le cose importanti, è come un labirinto, è come vivere con il pilota automatico per sopravvivere. Non siamo in grado di capire cosa il nostro cervello farà, ma lui troverà sempre soluzioni per equilibrare la nostra vita, perché il nostro cervello è molto più intelligente di noi. Quindi non possiamo veramente arrivare a una conclusione in questo senso e non possiamo valutarci, come non possiamo vivere in un mondo oggettivo: continuiamo a creare delle finzioni per poi viverci dentro. L’idea di realtà obiettiva è estremamente pericolosa perché qualcuno sostiene di conoscerla e usa questo concetto portando “prove” per conquistare il potere. Ciò che fa è invece costruire un’altra fiction, ma nessuno è il padrone di questa oggettività, nessuno la conosce. È impossibile, non puoi sfuggire alla realtà che ti sei costruito, alla tua storia, perché ciò che siamo è conseguenza di una serie di eventi. Siamo il prodotto della nostra istruzione, della nostra esperienza e della nostra storia – quella che ci siamo scritti noi stessi, partendo da esperienza e istruzione per andare da tutt’altra parte –, e per questo è impossibile sfuggire alla propria visione, come se guardassimo attraverso lenti deformanti. Ascoltiamo ciò che dice la persona che abbiamo di fronte, ma ne distorciamo il significato perché lo modifichiamo a seconda di ciò che siamo e vogliamo ascoltare. È impossibile vedere altro che la propria storia e la propria esperienza. Per esempio, io sono nato in Romania da genitori rumeni e per questo sono rumeno, ma nemmeno questa è una reale esperienza, è un’informazione che ho ricevuto dalle lezioni della Storia, dalla quale prendo ciò che mi serve per definire la mia identità e creare un qualcosa di diverso. Ma anche l’identità non è altro che un’altra finzione che nasce da me stesso, dalla mia storia.
I suoi film rivelano un lungo e articolato processo di scrittura, nel quale, in quello che è un sostanziale rispetto delle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, sono molti i cambi di registro fra il comico, il tragico e il grottesco. Inoltre, gli attori sono non professionisti, facce prese dalla strada e lanciate nella recitazione. Quanto spazio ha, in tutto questo, l’improvvisazione? E, più in generale, qual è il suo rapporto con gli attori? Si considera una sorta di Cassavetes, il cui film è giocoforza un “saggio di recitazione e regia”?
Cristi Puiu: Cassavetes è il mio assoluto maestro, lo scoprii quando andavo ancora a scuola ed è diventato un modello per me. Scrivere la sceneggiatura è un qualcosa di molto lungo, è un qualcosa in cui inizialmente non sono mai a mio agio, ci vuole molto tempo per partire, ma poi andando avanti con la stesura amo molto farlo. Iniziare però è sempre molto difficile, perché quando inizio ho bisogno di avere qualcosa da dire, ho sempre bisogno di riesaminare la mia vita e di pormi in quelle stesse condizioni che sto cercando di mettere in scena; devo essere solo, con la testa libera e ritornare sulla mia vita. Faccio parte della categoria di scrittori/registi per i quali la storia non esiste, ma è solo un’offerta che l’autore deve saper cogliere. La Storia è un infinito alternarsi di eventi, e tu puoi prendere solo piccole parti di eventi molto più complessi, metterle insieme e hai una storia. Mi succede spesso di pensare molto a cosa non raccontare, scrivere, filmare, mostrare; penso molto di più a che cosa escludere rispetto a ciò che invece decido di inserire. È quindi molto importante per me il momento in cui scelgo cosa scrivere, il momento in cui nella stesura dei dialoghi cerco di capire cosa lo spettatore non debba sentire, e che cosa io come autore non posso tirare fuori. Questo è ciò a cui penso, mentre scrivo e mentre sono sul set a mettere in scena, mi concentro su cosa i personaggi vorrebbero evitare quando aprono la bocca per dire qualcosa. Per esempio ora siamo qui e sto parlando molto io, questo perché sei tu a farmi le domande, a ruoli invertiti sarebbe il contrario, tu parleresti molto e io ascolterei. In ogni situazione, ci stiamo confrontando con questa condizione, tu stai cercando di chiedere qualcosa di più preciso possibile e io sto cercando di rispondere cercando le giuste parole. Tutti e due cerchiamo di capire cosa ognuno voglia dall’altro: la domanda, la risposta, il significato, chissà. Siamo nello stesso sistema, eppure siamo in un costante slalom fra soggetti, parole, verbi da evitare: dipende dalla situazione. Quando scrivo una sceneggiatura penso moltissimo a questo. Riguardo il tempo reale, è un qualcosa che serve per far emergere l’energia dell’essere umano: io non filmo attori, io filmo esseri umani, io non svolgo il cast su attori, ma su esseri umani. Proprio per questo non amo gli attori professionisti, non credo che il lavoro dell’attore possa essere un [in italiano, n.d.r.] “mestiere”, sono tutte cazzate. È un’attività come tutte le altre attività: non c’è il “mestiere” del dottore, ci sono i suoi studi alla base, ma poi serve la sua capacità anche umana. È per questo che abbiamo pessimi medici, pessimi avvocati, pessimi professori, perché pensano che il diploma che hanno ricevuto dia loro il diritto di comportarsi come si comportano. Quello che sto dicendo è che non esistono professioni, solo missioni. Non ci può essere la professione dell’attore, ma solo la sua missione. E così esiste la missione del dottore, la missione dell’avvocato, la missione dell’insegnante, la missione dell’ingegnere, e così via. E la missione di chi decide di prendere parte a un film deve essere quella di rivelare se stesso in quanto essere umano, non di “creare” un personaggio. Il cinema è contaminazione, in primo luogo con la magia, e questo è un problema perché diventa molto difficile guardarsi allo specchio. Io penso invece che il cinema sia come una pistola, e che se la punti nella direzione sbagliata puoi uccidere qualcuno. La macchina da presa, in questo senso, è una mitragliatrice con cui si può uccidere persino il re.
Con l’ultima domanda vorrei allargare il campo, passando a tutto quello che è il piccolo miracolo che chiamiamo Nuovo Cinema Rumeno. Insieme a Corneliu Porumboiu, Cristian Mungiu, Radu Muntean, Catalin Mitulescu e il più giovane Radu Jude, ognuno con le proprie modalità narrative ma con una ben precisa direzione tematica ed etica comune, state dando vita a una cinematografia ormai assestata da diversi anni ai vertici mondiali, fatta di rapporti umani, morale, politica, sfiducia, tempi dilatati, longtake ed estrema eleganza filmica. In Italia, un simile movimento non può che riportare alla mente i tempi del Neorealismo, quando Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, giusto per dirne due, erano soliti incontrarsi spesso per parlare fra di loro della situazione politica, sociale e soprattutto umana, trovando una strada cinematografica in comune che poi ognuno potesse percorrere con il proprio passo. Per non parlare della Nouvelle Vague francese, nata in sostanza fra quelli che erano amici e colleghi ai Cahiers du Cinéma: Godard, Truffaut, Chabrol, impegnati nelle loro conversazioni quotidiane. Nell’attuale Romania cinematografica c’è lo stesso continuo scambio fra autori oppure la situazione che si respira nel Paese è talmente forte da avervi portato indipendentemente a soluzioni tematiche, stilistiche e poetiche tutto sommato simili? Cosa vuole dire girare oggi nell’Est, e cosa ha significato decidere di rimanerci e lavorarci dopo la caduta di Ceausescu? E le prospettive che la vostra generazione ha auspicato al momento della rivoluzione democratica, si sono realizzate?
Cristi Puiu: Torniamo ancora al problema dell’etichettatura: parlare di New Wave rumena è comodo per chi deve scrivere articoli, è un nome che già fa capire più o meno di cosa si tratta, corto, semplice, facile. E dal vostro punto di vista sono in realtà d’accordo con voi. Penso però il concetto stesso di New Wave rumena sia in sostanza un’invenzione, una creazione del Festival di Cannes. L’etichetta viene dai critici, dai giornalisti, come prima si parlava di New Wave iraniana e argentina ora si parla di Nuovo Cinema rumeno. Ma dalla mia posizione vedo le cose in maniera un po’ differente. Ho fatto un film nel 2001, Stuff and Dough, che fu selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs, l’anno successivo Cristian Mungiu presentò Occident e Radu Muntean girò Furia, ma penso lo conosciate con il titolo internazionale The Rage. Così è nata la cosiddetta New Wave rumena, è lì che nacque il nome, fra il 2001 e il 2002. Ma il film che avevo fatto io, Stuff and Dough, è completamente differente dagli altri due. Ho studiato a Ginevra, il che mi ha permesso di scoprire la Nouvelle Vague francese e soprattutto John Cassavetes, mentre il cinema del periodo per chi studiava in Romania aveva come modello principale per alcuni Andrej Tarkovskij, e per altri il cinema cecoslovacco, in particolare Jirì Menzel e Milos Forman, e il cinema italiano, principalmente i grandi classici degli anni Sessanta. Nel 1994 Nae Caranfil aveva girato È pericoloso sporgersi e questo film diventò ben presto un modello per i giovani registi che al tempo andavano ancora a scuola in Romania. Così Occident era una sorta di eco del film di Nae Caranfil, mentre Radu Muntean era molto più votato al cinema americano. Io, invece, ero decisamente più orientato verso il cinema realista di Cassavetes. Quando ho finito gli studi, nel ’96, ho scritto la tesi, un testo molto molto brutto e infantile [ride, n.d.r.], sulla poetica nel cinema realista che collegava Bresson a Brecht: sono sempre stato estremamente interessato al cinema realista, e Cassavetes mi ha sempre profondamente commosso. E questo è stato l’inizio – uno degli inizi. Perché il vero inizio arrivò con La morte del signor Lazarescu. In Romania il mio film fu accolto molto male, ma segnò profondamente la nuova generazione di cineasti. Nel frattempo, il film di Mungiu era stato premiato a Cannes, quello di Radu Muntean era stato premiato da qualche altra parte, e anch’io avevo preso un premio a Berlino con il mio corto del 2004. Ma torniamo al 2005, quando La morte del signor Lazarescu fu presentato a Cannes e vinse un premio. Dico che la New Wave rumena è una creazione del Festival di Cannes non perché abbiano voluto crearla, ma perché questo film prese un premio a Cannes e per gli altri – Radu Muntean, Cristian Mungiu, ma non solo – questo fu il segnale di come si dovevano fare i film per essere selezionati a Cannes. E guardando la situazione dalla prospettiva dei premi, il più abile è stato Cristian Mungiu, che ha vinto la Palma d’Oro. Ma questo, per me, è un qualcosa che ha a che fare con come i film vengono incasellati nei festival, con l’entrare nello schema di pensiero festivaliero, e non strettamente legato al cinema e al fare i film. Il cinema è un’altra cosa rispetto ai Film Festival, seguono due logiche differenti. I film sono letteratura, sono il testo dei film, e con i festival sono indubbiamente correlati, ma non così tanto, sarebbe sbagliato tentare di sovrapporli. Quando si parla di cinema rumeno, è come se qualcuno ti chiedesse qual è il tuo regista preferito. Mi è capitato di essere fortemente legato a Cassavetes, ma non ho certo solo visto i suoi film. Ho letto i suoi testi, le sue interviste, ho cercato di capire chi fosse l’uomo, me ne sono interessato profondamente e personalmente, ma nonostante questo ritengo di non sapere ancora nulla di lui. Ma non è il mio unico riferimento, ci sono moltissimi film che amo, e infatti ho più volte detto di non avere un regista preferito. Per una qualche strana ragione che forse nemmeno io saprei spiegare, ad esempio, sono legatissimo a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, e tutti i suoi film hanno lo stesso impatto fortissimo su di me. Ed è così anche per Cassavetes, il reale motivo per cui cerco sempre di capire chi fosse la persona. Qual è, quindi, il mio rapporto con gli altri registi rumeni? Si tratta ancora una volta di un discorso in realtà lungo e ramificato. Il punto è che penso che l’inizio di quella che viene chiamata la New Wave rumena sia il 2005 con il premio ottenuto da La morte del signor Lazarescu a Cannes, che il punto centrale sia stato con Porumboiu nel 2006, e che dal 2007, l’anno ancora successivo con la Palma d’Oro a Mungiu, l’etichetta fosse ormai stampata a caratteri cubitali e appiccicata: ora abbiamo una New Wave, possiamo parlarne, possiamo catalogarla e andare a dormire. Quindi alla domanda se ci incontriamo in una sorta di love affaire come Rossellini e De Sica al tempo del Neorealismo la risposta è, semplicemente, no. Anzi, Mungiu e Muntean hanno cambiato il proprio stile dopo il premio a La morte del signor Lazarescu, e questo secondo me è triste, è un peccato, perché toglie spontaneità al cinema. Guardando La terra trema non si inizia a girare come Visconti, ma di fronte alla storia del cinema si è nella posizione di mescolare vari stili per trovare il proprio, si possono e devono attraversare diverse correnti, diversi linguaggi, senza fermarsi su un genere o su quella che è un’invenzione dell’entourage del Festival di Cannes. Per me il cinema è un club più grande dei confini nazionali, le affinità possono essere ovunque, mi è capitato più volte di uscire con registi di altri Paesi perché quello che contano sono gli interessi in comune. E non saprei dire per quale ragione non posso andare via dalla Romania, non so nemmeno se ci sia una qualche ragione. In ogni caso, fra i cineasti rumeni quello che personalmente considero un vero regista, in termini di interrogarsi e interrogare il cinema, è Corneliu Porumboliu, perché Mungiu è mainstream e Jude è ancora agli inizi, ma ha ancora tempo. Mi è piaciuto molto l’ultimo film di Radu Muntean, One Floor Below, c’era qualcosa che mi ha toccato. È possibile, scorrendo la storia del cinema, trovare somiglianze fra varie correnti, una sorta di sfondo in comune fra temi e tempistiche. Tuttavia, mentre in Italia l’autorità dell’autore non è mai stata messa in discussione, in Romania la posizione degli altri nei confronti dell’autore non è mai stata chiara. È qualcosa che si sta iniziando adesso, ma all’inizio la situazione era abbastanza confusa. Sono molto fiducioso, però, penso che le cose cambieranno, penso che vinceremo i nostri complessi di inferiorità sul fatto che in Romania siamo troppo provinciali e sono convinto che la prossima generazione di cineasti avrà una stabilità e la reale possibilità si concentrarsi su un proprio stile. Lo stile è quello che deve fluire naturalmente per dire quello che sei, non va imposto. Ma in Romania viviamo in un’era in cui continuiamo a controllare quello che fanno gli altri, e in base a questo cerchiamo la nostra identità, dimenticandoci a volte di ragionare su che cos’è il cinema e cosa può essere il cinema. È per questo che parlo dell’etichetta come di una condizione temporanea: chi se ne frega, per me, di quante persone guardano adesso i tuoi film se fra dieci anni nessuno se lo ricorderà più. In Romania, quello che importa è invece una sorta di timbro, una validazione d’autorità, una legittimazione festivaliera. E poco importa se il film sia bello o brutto, o se rappresenta o meno il suo autore. Ho vinto un premio? Mi fa piacere, ma finisce lì, non è quello il punto. Invece pare che essere legittimati da un festival sia l’unica cosa che conta: questa è la mentalità provinciale di cui parlavo, il complesso di inferiorità. Il cinema in Romania è considerato come il calcio, è una Coppa del Mondo di film. Se vinci l’Oscar sei campione del mondo, se vinci la Palma d’Oro sei poco sotto, e poco sotto ancora, a pari merito, se vinci il Leone d’Oro di Venezia o l’Orso di Berlino. Poi c’è la Concha de Oro di San Sebastian, il Pardo di Locarno, il César, il Bafta, il Golden Globe… Ci sono tanti di quei festival che cerco di immaginare un’esposizione di tutti i premi, sono centinaia. E sono pure brutti. La Palma d’Oro è un bell’oggetto, il Leone è carino, ma l’Orso è già brutto. Sono oggetti kitsch. Ma il punto è che se vinci qualcosa entri nel Pantheon del cinema contemporaneo, vieni considerato un semidio, nessuno metterà più in dubbio la tua autorità e autorialità, servono da lasciapassare. Come se i film servissero solo a farsi riconoscere dall’Occidente, ad andare in giro per il mondo e presentarsi in un determinato modo. In Italia, per esempio, c’è molta offerta al cinema, ci sono molti generi. In Romania molto meno, e non oso immaginare quale disastro potrebbe essere, che so?, un film rumeno di fantascienza. Non sappiamo farlo, sarebbe un tradimento, un rinnegare quello che siamo e che è il nostro cinema!