Spetters

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Passato alla storia, suo malgrado, come il film che “impedì” a Paul Verhoeven di dirigere L’impero colpisce ancora, Spetters è uno scandaglio doloroso e nervoso della gioventù olandese sul finire degli anni Settanta, tra sommovimenti politici, sociali e sessuali. La storia di Eef, Hans e Rien, e del loro desiderio di trovare una via nella violenta e slabbrata Rotterdam, è quella di una generazione europea che rivendicava le illusioni del Sessantotto ma si deve scontrare con una società che si è già rinchiusa in se stessa. Da riscoprire.

La città delle carogne

Eef, Hans e Rien sono tre amici che vivono in un sobborgo degradato di Rotterdam. Oltre alla comune passione per il motocross, sport nel quale idolatrano il carismatico campione Gerrit Witkamp, sono attratti da Fientje, una procace ed energica proprietaria di un chiosco ambulante di friggitoria, per la quale i tre si sfidano. Ma molte cose devono ancora venire a galla… [sinossi]
– La Bibbia ci parla anche di Dio. Ma chi è Dio?
– Lo so io chi è. È un tizio che mi ha fatto un brutto scherzo.
– Non cedere a Satana! Chi è Satana?
– È un medico, quello stronzo che m’ha tenuto in vita.
– Satana sparge il male, Dio guarisce.
– E a che ora riceve?
Dialogo tra Rien e un predicatore

Andare a riscoprire Spetters alla luce di Elle, il film che sembra aver ricomposto – o forse addirittura composto per la prima volta – la frattura tra Paul Verhoeven e parte consistente della critica europea e internazionale, permette di evidenziare fin dalla superficie stessa della pellicola alcune verità insite nel cinema del regista olandese; un autore che si è mosso tra l’Olanda, la Francia e soprattutto gli Stati Uniti con una visione sempre sistemica dei mondi con i quali si confrontava, attraversati dall’immaginario nei modi più disparati, dal dramma borghese – o supposto tale – alla fantascienza, dalla ricostruzione storica al thriller. Al momento della sua uscita, prima in patria e poi nel resto del mondo, Spetters scioccò il popolo dei benpensanti, che lo accusarono un po’ di tutto, dalla misoginia all’omofobia, dalla messa alla berlina dei portatori di handicap alla ghettizzazione del proletariato; una lettura abbastanza incredibile, con il film davanti agli occhi, ma che riporta alla memoria le allucinanti incomprensioni che produssero Robocop, Starship Troopers e Black Book. Il punto, con ogni probabilità, è che Verhoeven, nel mostrare le vicessitudini dei propri personaggi, non sposa mai un punto di vista scopertamente critico. Mette in scena, pone di fronte alla macchina da presa, e si pone come unico obiettivo l’assoluta, totale mancanza di reticenza. Proprio come palesa Spetters, che venne bandito e ostracizzato in mezzo mondo, e che allo stesso tempo certifica come il punto di non ritorno della prima fase della carriera di Verhoeven, contraddistinta dall’analogia tra società e corpo privato di chi vi appartiene, elemento determinante presente ne Gli strani amori di quelle signore, Fiore di carne e Kitty Tippel… Quelle notti passate sulla strada.

Spetters, va sottolineato, è ricordato oggi soprattutto per un aneddoto laterale: dopo aver visto e apprezzato Soldato d’Orange, Steven Spielberg segnalò il nome di Verhoeven a George Lucas, che stava allestendo la produzione de L’impero colpisce ancora e non aveva alcuna voglia di sedersi di nuovo dietro la macchina da presa. Verhoeven, invitato dalla produzione a un colloquio, si presentò con le pizze di Spetters sotto braccio. Visto il film, Lucas virò su Irvin Kershner, e l’esordio a Hollywood del regista olandese venne ritardato di alcuni anni.
Al di là di questo episodio, che dovrebbe anche permettere una lettura dell’impossibilità di Hollywood di accettare un cineasta concettualmente antisistemico come Verhoeven, Spetters può ambire senza dubbio ad assurgere al ruolo di opera “maledetta”, sempre che questo termine possa davvero acquisire un senso logico. Nella storia dei tre amici Rien, Eef e Hans non si cela solo la volontà di spostare lo sguardo verso i bassifondi di Rotterdam (il significato del nome della città è “Diga sulla Rotte”, con riferimento all’affluente della Nieuwe Maas, ma da solo il termine rotter è traducibile con “carogna”, “mascalzone”), ma anche di mostrare microcosmi che sul finire degli anni Settanta rappresentavano ancora un tabù.

Se la comunità gay trovò insultante il modo in cui Eef scopre la propria omosessualità, vale a dire in seguito a uno stupro subito da un gruppo di ragazzi che voleva ricattare e derubare, il mondo femminile accusò Verhoeven di aver destinato il ruolo più amorale a Fientje, l’avvenente bionda che gestisce con il fratello – uno degli stupratori di Eef, per di più – una friggitoria ambulante, e che tutti e tre i protagonisti cercano di circuire. A distanza di quasi quaranta anni dalla sua uscita nelle sale, perfino in Italia (dove ovviamente venne censurato, data anche la volontà di Verhoeven di mostrare il più possibile, fino a sfiorare territori all’epoca prossimi alla pornografia), è possibile rendersi conto di quanto quelle accuse fossero attribuibili a uno sguardo umorale e profondamente superficiale. Una volta di più il regista olandese non si interessa solo al destino dei suoi protagonisti, destinati in ogni caso a un ridimensionamento delle proprie ambizioni iniziali, ma cerca di inserirli in un contesto sociale più grande, che inevitabilmente li condiziona.
La scelta di puntare su ragazzi provenienti dalla periferia di Rotterdam, sospesi tra un destino da operai e meccanici e il sogno di diventare campioni di motocross, eguagliando il loro idolo Gerrit Witkamp (un superbo Rutger Hauer, che divide il suo cameo con Jeroen Krabbé, entrambi reduci da Soldato d’Orange), non partecipa al supposto verismo di gran parte del cinema borghese europeo degli anni Settanta, ma appare quasi il punto d’incrocio tra uno sguardo antropologico ed entomologico – nella visione scientifica degli umori grondanti dallo schermo – e una tensione narrativa e spettacolare non troppo distante da Hollywood, come testimonia ad esempio la prima sequenza di corsa in moto, dagli evidenti echi classici.

Nulla però in Spetters si sposa alla prammatica del genere, qualunque esso sia. Verhoeven non mostra nessuno degli ambienti o delle tipologie di personaggi in scena facendo ricorso a cliché, e questo con ogni probabilità rappresentò un altro ostacolo per lo spettatore, soprattutto quello della borghesia “illuminata”, abituata a ragionare per compartimenti e classificazioni. Come è possibile, in un’ottica di questo tipo, accettare un personaggio come Eef, che trova nella dominazione dell’altro – il padre, gli stupratori, la società in quanto tale – la propria unica forma di godimento non effimero? E come leggere Fientje, ragazza che sfrutta il proprio corpo per cercare di ottenere brandelli di potere (Rien viene abbandonato dopo l’incidente, Eef utilizzato solo per le proprie capacità economiche, peraltro truffaldine, Hans è il punto d’arrivo che permette una stabilità), ma che in realtà non riceve dall’occhio di Verhoeven alcuna accezione negativa? Spetters non è una sgradevole messa in mostra delle abiezioni della classe dominata, ma lo scandaglio di un’umanità ai margini, non per scelta ma per definizione sociale, per struttura, per logica del Capitale. Un film che travalica i confini dell’estremo non per “épater le bourgeois”, ma per depistare una volta di più lo sguardo assuefatto di un pubblico borghese che ha già dimenticato le riottosità del decennio appena finito e si sta addormentando nelle fattezza morbide di un liberismo che si farà sempre più delirante e ferino nel corso degli anni Ottanta. Rivedere questo film e gran parte della produzione di Verhoeven a ridosso dello splendido Elle permette poi di godere degli infiniti riflessi, della sottile statura intellettuale, della ricca strutturazione filosofica. Dettagli dei quali non bisognerebbe mai fare a meno.

Info
Il trailer di Spetters.
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