Welles a Locarno

Welles a Locarno

Locarno 58 ha ospitato la più ardita retrospettiva degli ultimi anni: alla ricerca delle tracce perdute di Orson Welles tra film compiuti, incompiuti, lavoro in TV e in radio, film d’attore e film di altri sul genio più ingombrante del cinema.

Tra lo splendido labirinto di una programmazione ricchissima, la 58esima edizione del Festival di Locarno ha ospitato anche una straordinaria retrospettiva su Orson Welles, a novanta anni dalla nascita e a venti dalla morte (1915-1985). E, va detto subito che, organizzare in modo coerente e completo una rassegna delle cose wellesiane, rappresenta una sfida quasi insostenibile; una sfida, però, affrontata brillantemente dal curatore Stefan Drössler, direttore del Munich Filmmuseum, istituto cui Oja Kodar donò dieci anni fa l’immenso e caotico materiale wellesiano.
Welles, difatti, nonostante si ostentino al suo riguardo certezze classificatorie, è un caso unico e pressoché ingovernabile nella storia della Settima Arte, per aver lasciato tracce di cinema ovunque, anche quando non era lui a girare la manovella o persino quando si è trovato a fare pubblicità in TV o, addirittura, sulla carta stampata! Ci sovviene a tal proposito la paradossale intuizione di Tatti Sanguinetti in uno scritto del ‘77: di fronte a un Welles “senza faccia” nella réclame cartacea dello champagne Veuve Clicquot, si lancia in un delirante – e condivisibile – affondo teorico.
Tale corpus, quindi, necessita un setacciamento meticoloso e, proprio a Locarno, per la prima volta abbiamo potuto seguire il sentiero wellesiano nelle sue più diverse e ramificate biforcazioni, che si palesavano una dopo l’altra davanti ai nostri occhi golosi.

Ma cerchiamo di mettere un po’ d’ordine: a fronte dell’esigua dozzina di film completati da Welles, si dispongono altrettanti progetti incompiuti, che, per durata e qualità, non sono inferiori ai primi. Poi non vanno sottovalutati (come invece si continua a fare) i contributi che il genio di Kenosha ha dato sia all’estetica televisiva che a quella radiofonica. Prima di Locarno dovevamo confessare l’ignoranza quasi totale sull’argomento, poiché ad esempio l’apporto radiofonico di Welles è stato circoscritto allo scandalo che creò il suo adattamento “antiromanzesco” di The War of the Worlds, mentre quello televisivo è passato sotto silenzio un po’ perché invisibile un po’ perché doveva essere, per forza di cose, “minore”, dimenticando perciò le dichiarazioni entusiaste che Welles fece a Bogdanovich a proposito delle potenzialità del mezzo. Sia la radio che la TV sono state, per questo cineasta, uno strumento affabulatorio che gli ha permesso di esercitare, in modo più diretto che al cinema, le sue straordinarie capacità narrative, il suo instancabile piacere nel raccontare delle storie.
Infine, sarebbe colpevole continuare a trattare con sufficienza le sue interpretazioni per film altrui che, oltre a dimostrarne le doti recitative e mimetiche, danno un contributo aggiuntivo nel focalizzare il cinema wellesiano, non tanto seguendo la vulgata secondo la quale Welles metteva l’occhio nel mirino altrui, quanto perché la sua presenza influenzava ciò che gli stava intorno e dunque anche il segno dell’inquadratura e, nel complesso, del film in questione.

Drössler allora ha suddiviso la retrospettiva in diverse e ragionate sezioni:
a) il compiuto di Welles;
b) 10 workshop sulle questioni più controverse a riguardo della sua opera: la radio, gli incompiuti e alcune ossessioni da lui “testate”, nel corso di anni se non addirittura di decenni, alla radio, a teatro, in Tv e, naturalmente, al cinema: valga per tutti l’esempio del Mody Dick, sempre ripensato e trasferito da un mezzo all’altro dal 1938 in poi;
c) Orson Welles attore e più: dieci film di altri in cui Welles ha recitato da protagonista e ha anche contribuito in diversi modi alla realizzazione. Si pensi a due titoli qui inseriti: Journey Into Fear, 1943, da lui prodotto a Hollywood ai bei tempi del Mercury (che prima era la sua compagnia teatrale, quindi divenne, negli anni hollywoodiani 1939-1943, un distaccamento indipendente all’interno della major RKO) e The Treasure Island, 1972, in cui contribuì alla stesura dello script;
d) Orson Welles attore, una scelta di nove film che hanno visto solo il suo apporto attoriale. Ma anche in questi casi, come negare, ad esempio, il wellesismo – certo irrisolto – de La décade prodigieuse (1972) di Claude Chabrol? E come ignorare il ruolo centrale che il Nostro svolge ne La ricotta? Nel capolavoro pasoliniano, Orson incarna il paradigma della figura dispotica e aristocratica del regista, un ruolo che serviva sì a Pasolini, ma su cui allo stesso tempo Welles ha riflettuto nel corso di tutta la sua carriera;
e) Lo sterminato lavoro fatto per la TV; programmato tra l’altro, suggestivamente, seguendo un sotterraneo filo tematico, piuttosto che cronologico. Abbiamo, quindi, potuto finalmente assistere alla possente bellezza dei lavori televisivi di Welles televisivo: qui si è svelata un’altra faccia del cineasta, un volto quasi rosselliniano; un aspetto che bisogna tenere per essenziale in vista di una interpretazione più compiuta dell’opera wellesiana;
f) un’ampia selezione di lavori altrui su Welles. Infatti a partire da Orson Welles (1968) a regia di Frédéric Rossif e François Reichenbach (quest’ultimo poi cooptato nel mondo wellesiano con F for Fake), il genio par excellence del cinema americano si è visto dedicare un infinità di inchieste, documentari, ricerche di tracce di vita e di cinema, no-trespassing post-mortem, realizzati in ogni parte del mondo.
Welles, oltre ad essere a nostro modo di vedere il più compiuto uomo di spettacolo del novecento, ci pare il primo cineasta globale della storia del cinema, che, a partire da It’s All True (girato in Brasile e in Messico), si è dedicato ad un instancabile giro del mondo, ad un gioco alla scoperta della Terra, in cui la magia e l’inchiesta, i codici del documentario e quelli della favola, il giornalismo e le forme dell’oratoria si sono intrecciati indissolubilmente per un inesausto confronto tra il Sé autoriale e l’Altro.

Ci sentiamo allora di dire che si è trattata della più complessa e articolata retrospettiva cui ci sia capitato di assistere, una delle poche in grado di segnare una svolta nello studio, nella ricerca, nell’ermeneutica dell’autore celebrato.
Welles, da par suo, ha compiuto con la sua parabola artistica una tenzone impareggiabile che dovrebbe spingere critici e teorici a riconsiderarne continuamente le coordinate. L’incompiuto, che, purtroppo, ha segnato la sua carriera, va considerato per la sua centralità: cosicché tutto va rivisto secondo criteri differenti: non è più il film ad essere il cuore, ma direttamente il cinema.
Questo non significa, come pure si è detto (Ungari ad esempio) che Welles è più importante dei suoi film, ma che Welles, a lato di una cinematografia tradizionale, dispone di un’altra cinematografia che ha una portata sconvolgente, in potenza superiore alla prima, se ne consideriamo l’ontologica irriducibilità a farsi film, a chiudersi in un discorso unico.
Si pensi, difatti, all’ultima fase della sua carriera, in cui gli bastava mettersi al centro della scena, truccarsi un po’, indossare un naso finto, sistemare delle luci su uno sfondo sia pure asettico, et voilà, come per un gioco di magia, nasceva, miracolosamente, il cinema.

Nell’accompagnare in ogni suo passo la retrospettiva, Stefan Drössler si è affiancato i più attenti esegeti americani dell’opera wellesiana, Joseph McBride e Jonathan Rosenbaum (peccato però che mancassero Naremore e Bogdanovich). In tale panorama hanno comunque avuto, giustamente, maggior risalto le testimonianze di chi lo ha conosciuto: Oja Kodar (compagna e collaboratrice degli ultimi venti anni), Chris Welles Feder (la prima figlia, che ha anche presentato, a sorpresa, un libro sul padre), Gary Graver (il suo direttore della fotografia dal 1970 in poi), Roberto Perpignani (montatore per The Trial e per Nella terra di Don Chisciotte), per fare solo la rosa dei nomi essenziali.
In particolare la Kodar e Graver, supportati da altri testimoni degli ultimi anni wellesiani (come il mago Abb Dickson), hanno dimostrato come Welles fosse ancora giornalmente attivo e come dimostrasse dello spirito pragmatico anche nella vecchiaia, a smentire una radicata convinzione che lo vuole perso tra vari continenti in abbuffate e mulini a vento.
Non va dimenticato, poi, il materiale cartaceo: oltre al libro di Chris Welles Feder, è uscito un catalogo monografico su Welles in cui risaltano la pubblicazione della sceneggiatura inedita di The Other Side of the Wind e il saggio di Stefan Drössler (Re-)Constructions, teso ad analizzare il lavoro di recupero filologico fatto dal 1995 al 2005 intorno al materiale wellesiano.
Infine, una nota di merito alla qualità delle proiezioni; non tanto di quelle che hanno visto Welles attore, alcune rimediate chissà dove (ce n’era una con i sottotitoli in finlandese, mentre la copia di Tepepa era impresentabile), o dei suoi film (che erano comunque in ottimo stato), ma proprio dei reels mai visti, i film incompiuti e i lavori televisivi: per capirci, il materiale che è stato preso in consegna dal Munich Filmmuseum. Queste proiezioni, seppur in digitale (visto che dell’originale su pellicola esistono poche copie), si sono rivelate perfette nella definizione dell’immagine; anzi possiamo dire di non aver mai visto un digitale così rispettoso della grana della pellicola: un abisso rispetto alla proiezione dei film della retrospettiva Storia Segreta del Cinema Cinese visti a Venezia 62 e proiettati in HD.

Rimandiamo perciò alle parti successive: un confronto tra i dodici film compiuti e i lavori non terminati, a svelarne rimandi e (dis)continuità (Welles finito non finito – prima e seconda parte); il Welles televisivo, con un particolare riguardo per il capolavoro Nella terra di Don Chisciotte (Welles per la TV. Confidenziale e intimo); i documentari about Orson Welles, con un close-up sul rapporto confidenziale Sganzerla-Welles (Intorno a Orson Welles); infine, una deviazione wellesiana, supportati dal suo lavoro d’interprete per film altrui (Welles – Deviazioni possibili), convinti che Welles, maestro (ricusato) della digressione nel cinema americano, permetta di trovare il centro anche nei suoi episodi più marginali, persino quando sembra limitarsi a dire un paio di battute, mentre mangia una coscia di pollo (Prince of Foxes, 1949, di Heny King).

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