The Walker

The Walker

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Paul Schrader firma il quarto capitolo dei film dedicati ai “lavoratori notturni”, dopo Taxi Driver, American Gigolo e Lo spacciatore. The Walker conferma un percorso etico ed estetico profondamente coerente. Fuori concorso alla Berlinale 2007.

Sub specie aeternitatis

Carter Page III, figlio di un celebre politico, svolge il ruolo di accompagnatore all’Opera delle mogli dei senatori. Quando una di queste signore trova il cadavere, assassinato, del suo amante, Carter decide di coprirla per evitare lo scoppio di uno scandalo… [sinossi]

Lo ammettiamo: avevamo temuto, di fronte alla visione di Dominion: A Prequel to the Exorcist, che Paul Schrader avesse smarrito per strada quella personalità autoriale che aveva sempre contraddistinto la sua carriera di regista – anche in un episodio poco fortunato quale poteva essere Forever Mine. Trovandosi schierato dalla parte sbagliata della barricata, contro la major che lo aveva prodotto, Schrader era apparso posseduto dalla storia di padre Merrin, incapace di gestirne con polso sicuro sia la deflagrazione visiva sia la riflessione mistica.
È con questo timore che ci siamo avvicinati, alla Cinquantasettesima Edizione della Berlinale, a The Walker, posizionato fuori concorso per evitare ogni possibile conflitto d’interessi, dato il fatto che il regista presiedeva la giuria del festival.

Ci sono personalità artistiche alle quali è impossibile non riconoscere un percorso etico ed estetico estremamente coerente, anche al di là della mera querelle dell’autorialità; Paul Schrader è sicuramente una di queste. Se è vero che la sua intera carriera può essere letta chiaramente sia inquadrandola nella propria peculiarità autoriale (e in questo senso le sceneggiature di The Yakuza, Taxi Driver, L’ultima tentazione di Cristo e Bringing Out the Dead rappresentano una delle più alte dimostrazioni di personalità rintracciabili nella Hollywood dell’ultimo trentennio) che allargando il discorso alla mutazione progressiva dell’ingranaggio delle major – attraversato da Schrader senza battere ciglio, dall’apice della New Hollywood fino al già citato “pasticciaccio brutto” del double prequel al capolavoro di William Friedkin –, è altrettanto vero che queste chiavi interpretative si dimostrano efficaci solo in parte. Elegante intellettuale capace di trasportare Sartre e Camus nella babelica notte newyorchese abitata da baby-puttane, papponi e criminali di ogni sorta, di aggiornare il Bel-Ami di Guy de Maupassant traformandolo in un American Gigolo dal volto e dalle movenze pre-reaganiane di Richard Gere, di trovare sempre nuovi spunti alla ricerca umana di Dostoevskij, Schrader assomiglia molto al personaggio protagonista delle vicende di The Walker. Come Carter Page III (nelle cui vesti Woody Harrelson raggiunge uno dei massimi picchi della sua carriera attoriale; avevamo già avuto sentore di una svolta osservandolo in scena in Radio America e A Scanner Darkly, speriamo che si tratti di un’inversione di marcia decisiva dopo il buco nero che sembrava averlo inghiottito neanche cinque anni fa), anche l’autore di Grand Rapids, Michigan, ha intrapreso un viaggio di conoscenza degli inferi della società.
Torna quindi preponderante uno dei leit-motiv più facilmente rintracciabili nelle opere vergate di proprio pugno da Schrader: l’apertura degli occhi davanti a un mondo in completo disfacimento morale, l’inabissamento progressivo e inarrestabile dell’umanità.

Eppure, nella lettura profondamente calvinista dell’uomo e delle sue azioni, The Walker presenta delle piccole anomalie rispetto al percorso tracciato nei film a lui precedenti: innanzitutto, la violenza non viene letta qui nella sua accezione di male minore, inevitabile catarsi nella via crucis che porta alla redenzione, all’espiazione dei peccati, alla purificazione e alla salvezza (in questo senso ovviamente Taxi Driver rimane l’esempio più calzante, ma una riflessione simile non è estranea a Hardcore, Affliction e Auto Focus). Anzi, è proprio ponendosi in antitesi a questo microcosmo violento – dove l’atto di forza può anche essere palese, come nel caso dell’omicidio dell’amante di Lynn, ma più di sovente traspare dai piccoli gesti quotidiani, dal way of life dell’alta società di Washington – che Carter riesce a prendere le redini di una situazione che si fa via via sempre più intricata e luciferina. Pur pagando, alla fine, a caro prezzo le proprie scelte, Carter non risponde ai colpi subiti con le stesse armi degli aggressori.
Rispetto al già citato Auto Focus, Schrader segna anche un sostanziale scarto visivo e stilistico: laddove si imprimeva con forza nella mente la descrizione della discesa nel mælström dell’abiezione come si trattasse di un dramma da camera, in questo caso abbiamo a che fare con una messa in scena elegante, in alcuni casi a pochi passi dal calligrafismo, eppure capace di cambi di ritmo improvvisi quanto destabilizzanti. Si prenda a esempio la sequenza in cui Carter rischia di subire un’aggressione mentre si sta recando a casa del senatore Jack Delorean (un bravissimo Ned Beatty, che guida le fila di un cast composto tra gli altri da Kristin Scott Thomas, Lauren Bacall, Willem Dafoe, Lily Tomlin e Moritz Bleibtreu): partendo da uno spunto ironico – l’aggressore che sta manomettendo la macchina di Carter proprio sotto i suoi occhi – la scena si sviluppa attraverso un progressivo aumento di tensione fino a sfociare in un incidente stradale del tutto casuale.

A Schrader bastano pochissime inquadrature, una macchina da presa lievemente fuori bolla e i flash della fotocamera di Moritz Bleibtreu (che con Carter forma una della copie omosessuali più convincenti viste sugli schermi negli ultimi anni) per costruire uno di quegli istanti cinematografici che ti rimangono scolpiti nella memoria. Dimostrazione ulteriore della ritrovata sicurezza del cineasta nei suoi mezzi, della voglia di raccontare il mondo attraverso i suoi occhi e la sua penna (e questo non accadeva dai tempi di Forever Mine visto che Auto Focus portava la firma di Michael Gerbosi e Dominion quella della coppia William Wisher Jr./Caleb Carr) e dell’urgenza di continuare a interrogarsi sulla depravazione umana, sulle sue innumerevoli vesti, sulla forza dirompente del male.
Non c’è bisogno della catarsi totale alla quale andavano incontro i personaggi delle sue opere precedenti perché Carter Page III è già, di per sé, un puro: lo è in confronto a quella società che rigetta la High Culture (come gli confessa candidamente Lynn parlando del marito) e che architetta intrighi durante una pomeridiana partita di canasta. Per questo quella del personaggio interpretato da Woody Harrelson resta tutt’al più la descrizione della morte dell’utopia, della fine del sogno, del risveglio traumatico dalle illusioni che lo avevano accompagnato.
Come da prassi per quanto riguarda lo scrittore e cineasta statunitense, non c’è speranza alla fine del viaggio, ma al massimo solo consapevolezza e accettazione della propria condizione. Ed è proprio qui, nell’inquadratura finale che vede Carter salutare una volta per tutte Lynn, che torna preponderante il calvinismo di Schrader: quello sguardo lanciato all’amica di una volta sottintende e rimarca con forza strabiliante il concetto guida di tutte le avventure schraderiane.
Ovvero che per comprendere il senso della sconfitta e della perdizione, è necessario guardare le cose sub specie aeternitatis.

Info
Il trailer originale di The Walker.
La scheda di The Walker sul sito della Berlinale.
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