Le ombre rosse

Le ombre rosse

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Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2009, Le ombre rosse è frutto di uno sguardo indubbiamente amareggiato ma anche lucido e tagliente, portato a scavare nei meandri oscuri di una cocente sconfitta generazionale e tra le scorie di ideali un tempo rigogliosi, possenti.

Viaggio nella riserva

Roma. Un celebre intellettuale entra in contatto con il fermento culturale attivo nel centro sociale ‘Cambiare il mondo’ e stabilisce che questi luoghi giovanili, così vitali, possono essere proposti come realtà socialmente e culturalmente innovative. Intorno a questo tema scoppia un caso internazionale dal clamore mediatico rilevante ma, ben presto, l’entusiasmo iniziale cede il posto allo smarrimento e allo scontro tra le varie anime della sinistra… [sinossi]

Se il titolo scelto dal compagno Citto Maselli riecheggia John Ford, quello con cui si presenta la recensione risulterebbe forse idoneo per un western crepuscolare, col massacro già compiuto e i superstiti confinati in una riserva indiana. In fondo è esattamente quanto ci mostra il film, nei termini di riuscita metafora: il massacro della sinistra in Italia e i limiti angusti entro i quali la sua sopravvivenza è assicurata. Qui però la questione si complica. Tale massacro è da attribuire solo a fattori esterni o si è trattato di un mezzo suicidio? Ai margini di tale interrogativo si sviluppa il discorso filmico del buon Francesco Maselli, costellato di calzanti ironie e di una consapevolezza espressa senza falsi pudori.
Le ombre rosse è perciò frutto di uno sguardo indubbiamente amareggiato ma anche lucido e tagliente, portato a scavare nei meandri oscuri di una cocente sconfitta generazionale e tra le scorie di ideali un tempo rigogliosi, possenti. Le coordinate spazio-temporali ci dicono molto, se non tutto. Maselli colloca la sua pellicola nell’ultimo periodo del centro-sinistra al governo, in un clima mesto, quasi funereo, da crollo imminente. I luoghi sono altrettanto significativi, con l’attenzione che presto si focalizza su un centro sociale nella periferia romana, ribattezzato “Cambiare il mondo”, per quanto il nome possa risultare beffardo. Già, perché il controcampo ideale di quella struttura fatiscente, utilizzata alla meno peggio, ma in qualche modo ancora pulsante di vita, ci indirizza verso altri lidi, popolati da una micro-società solidale con l’altra solo a parole: ecco gli attici arredati con stile e gli appartamenti con vista panoramica sul centro di Roma, palcoscenico prestato agli incontri mondani di “coloro che ce l’hanno fatta”, ovvero direttori di giornale, vecchi sindacalisti, intellettuali di grido, architetti ansiosi di servire il popolo, agenti di banche fondate su spirito cooperativistico. Tutta gente smaniosa di gridare ai quattro venti la propria appartenenza alla sinistra (qualcuno afferma di avere ancora il busto di Lenin sul comodino), ma decisamente più attenta a non compromettere la propria posizione, con un occhio alle battaglie di un tempo e l’altro al portafoglio.

Eppure Maselli non fa sconti a nessuno. Dal precario dialogo tra l’ala movimentista (quella arroccata negli spazi angusti del centro sociale) e le spesso inconcludenti conventicole dei riformisti emerge qualcosa di più del previsto scontro generazionale o dell’apologo sulle divisioni della sinistra; emerge piuttosto una babele di posizioni solipsistiche, inconciliabili, a riprova di una frammentazione e di un disorientamento tali da rendere improbabile qualsiasi rigenerazione. Il baratro è ormai dietro l’angolo. Persi all’ombra di un ricordo importante, quello del Partito Comunista Italiano, gli spaesati orfani di tale esperienza storica sembrano non accorgersi del pericolo, cercando a tentoni una via d’uscita. La natura profonda delle loro azioni è l’equivoco: anche in questo Le ombre rosse si candida a ideale proseguimento di Lettera aperta a un giornale della sera (1970), lungimirante pamphlet cinematografico che Maselli dedicò alla crisi d’identità del pensiero comunista in Italia. Con analogo gusto del grottesco l’autore ha scelto un pacchiano fraintendimento quale presupposto diegetico del nuovo film: le parole di un apprezzato intellettuale in visita al centro sociale, Sergio Siniscalchi (un Roberto Herlitzka di monumentale bravura), vengono strumentalizzate dai giornali e da alcuni programmi televisivi; si lascia intendere che lo scrittore, citando addirittura il discusso André Malraux, volesse sul serio correre in soccorso di “Cambiare il mondo”, promuovendone la trasformazione in Casa della Cultura. E infatti Siniscalchi starà al gioco, perché preso in contropiede. Ma come accoglieranno tale proposta i ragazzi e gli attivisti più anziani del centro, già divisi su mille questioni di ordine pratico? Da un falso scoop giornalistico si scatena pertanto il putiferio. Buone intenzioni e letture opportunistiche della situazione sono destinate così a sovrapporsi senza uno scopo reale, propiziando reazioni confuse e dibattiti dall’esito sconcertante. Sull’imbarazzo dei politicanti di centro-sinistra e sul centro sociale stesso, schiacciato da troppe pressioni, calerà presto il sipario. Tempo di elezioni, si profila la vittoria di una destra che quando entra in azione si compiace di mostrare ben altra concretezza, disgraziatamente…

Il kammerspiel politico di Citto Maselli, in quanto critica severa ma giusta di una classe dirigente incapace di fronteggiare le problematiche attuali, va dritto al bersaglio, proponendosi al contempo quale indagine cinematografica intrisa di pietas e afflato umanista, degno corollario di una ricerca coerente e coraggiosa a sostegno di figure ridotte ormai alla marginalità. Cronache del terzo millennio (1996) e il semi-documentaristico Civico 0 (2007), senza rinunciare alle proprie specificità, possono essere visti come tasselli complementari di un percorso autoriale intimamente legato a scorci di periferia, ambienti claustrofobici, altri contesti spaziali di natura affine animati dal movimento quasi teatrale degli interpreti e dal balenare di volti la cui intensità racconta ugualmente di un’umanità braccata, respinta, delusa.
Restando sull’incisività delle presenze attoriche, può darsi che Le ombre rosse riveli qualche squilibrio, perché a parte l’energica ed emotiva Valentina Carnelutti è innegabile che tra i giovani siano in pochi a reggere il confronto con l’intensità di giganti come Arnoldo Foà, Lucia Poli, Ennio Fantastichini, Roberto Herlitzka. Il volto di quest’ultimo, ripreso in primo piano col vetro sporco di una finestra ad appannarne malinconicamente l’immagine, si appresta verso la fine a diventare emblematico: Sergio Siniscalchi e gli altri intellettuali di sinistra stanno rintanati dietro quel vetro ad aspettare il risultato delle elezioni, ma lo strombazzare dei clacson fa loro intuire che qualcosa è andato storto. Ahinoi, clacson assordanti come quelli dei tifosi che escono dallo stadio, non avrà mica vinto la Destra? L’altra Italia, quella becera, ignorante, razzista, abituata a imporre un pensiero povero e avvilente attraverso il mezzo televisivo (come Videocracy può ampiamente argomentare) fa così capolino da quel fuori campo opprimente, di cui fino ad allora si era avvertita comunque la presenza, attorno ai confini del centro sociale già trasformato in riserva  indiana. Le pungenti ironie di Citto Maselli hanno nel frattempo dimostrato che, se i barbari hanno potuto compiere la loro trionfale irruzione senza incontrare resistenza, il centro-sinistra dei tentennamenti, dei discorsi a vuoto e delle scelte di comodo non può certo dirsi immune da colpe.

Info
Il trailer de Le ombre rosse.

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