Oltre il corpo – Metodi pericolosi

Oltre il corpo – Metodi pericolosi

David Cronenberg è fautore di un cinema che ha al suo centro l’uomo e la sua continua, naturale battaglia contro il mondo che lo circonda, unico modo per scoprire la sua essenza primigenia e trovare il proprio posto all’interno dell’ordine delle cose. Ancora una volta è il corpo, o meglio il superamento di esso, l’arma attraverso la quale il regista canadese cerca di portare a termine la propria ricerca filosofica sull’uomo.

Dove sono i nostri corpi reali? Staranno bene?
Se avessero fame, se fossero in pericolo?
Ted Pikul/Jude Law in eXistenZ

Come si è già avuto modo di affermare nel paragrafo precedente, uno dei più grandi crimini perpetrati nei confronti del cinema di David Cronenberg è stato quello di etichettare i suoi film – principalmente nel corso della prima parte della carriera, ma non solo – come “horror”. Non che ci sia neanche la benché minima intenzione di denigrare uno dei generi che ha attraversato con maggior forza innovatrice l’intera storia del cinema fin dai suoi albori, ma è indubbio che racchiudere l’opera di Cronenberg nelle maglie dell’orrore equivalga, volenti o nolenti, a soffocarla gradualmente. Per quanto alcuni dei suoi film sfruttino in lungo e in largo gli stratagemmi dell’horror, è sempre percepibile lo scarto che il regista nativo di Toronto opera rispetto alle regole più o meno scritte del genere. Il paradigma perfetto di ciò che si è scritto dianzi è senza dubbio rappresentato da La mosca: remake di uno dei classici del cinema del terrore a stelle e strisce, diretto nel 1958 da Kurt Neumann e uscito in Italia con il titolo L’esperimento del dottor K., il film nelle mani di Cronenberg si trasforma in una struggente, dolorosa e fiammeggiante storia d’amore. L’aspetto orrorifico della mutazione di Seth Brundle/Jeff Goldblum in un membro della famiglia dei ditteri passa completamente in secondo piano rispetto all’amore che l’uomo nutre nei confronti della bella Veronica Quaife/Geena Davis: elemento così cruciale da dare il la all’intera pellicola, con Cronenberg che fa entrare lo spettatore direttamente in media res, senza alcun bisogno di incipit, aprendo il film sul primo incontro tra i due durante una festa. Nel celebre libro-intervista di Chris Rodley Il cinema secondo Cronenberg, il regista a riguardo de La mosca afferma: “John Donne definiva poesia metafisica quella poesia dove elementi normalmente in disarmonia vengono violentemente legati insieme. Questa è una parafrasi, ma più o meno diceva così. Sono stato un appassionato dei poeti metafisici. Prendi La pulce, un esempio perfetto su cui basare una poesia d’amore sensuale: l’idea della pulce che succhiando il sangue da entrambi gli amanti lo mischia. Diciamo che La mosca è horror metafisico. Questo mi fa piacere, mostrare la potenzialità del genere horror, specialmente in un momento in cui, per la maggior parte delle persone, horror significa Halloween oppure Venerdì 13. È davvero triste”.

Un cinema che abbia dunque al suo centro l’uomo e la sua continua, naturale battaglia contro il mondo che lo circonda, unico modo per scoprire la sua essenza primigenia e trovare il proprio posto all’interno dell’ordine delle cose. Ancora una volta è il corpo, o meglio il superamento di esso, l’arma attraverso la quale Cronenberg cerca di portare a termine la propria ricerca filosofica sull’uomo: l’accettazione del proprio io travalica la pura e semplice meccanica corporea, come già dimostrato ne La mosca, dove un Brundle oramai irrimediabilmente insetto mostra tutta la sua intima natura pregando a gesti l’amata di donargli la morte. Ancora maggior devastazione in tal senso deriva dalla visione di due film a loro modo speculari, e non solo per la presenza in scena dello stesso protagonista, Jeremy Irons: Inseparabili e M. Butterfly rappresentano il punto di non ritorno del cinema di Cronenberg per quel che concerne la lotta dell’uomo per trovare la completa percezione dell’Io. Nel primo l’esistenza dei gemelli Mantle si esaurisce totalmente nel loro rapporto osmotico, e basta un singolo elemento esterno (l’attrice Claire Niveau/Geneviève Bujold) per deturpare e distruggere l’apparente normalità; nel secondo l’amour fou che lega il funzionario dell’ambasciata in Cina René Gallimard alla prima “donna” del Teatro dell’Opera di Pechino Song Liling/John Lone mette in dubbio l’intero rapporto dell’uomo con il proprio mondo e, prima ancora, con il proprio corpo. Il finale denso di melò, nel quale Gallimard si esibisce in prigione per i suoi compagni detenuti, portando l’interpretazione fino alle estreme conseguenze, cristallizza nel migliore dei modi quel fremito di insoddisfazione che attraversa come un filo rosso l’intera esperienza autoriale di Cronenberg: il corpo (fisico ma anche e soprattutto sociale) non basta più, è qualcosa di superato, quasi pleonastico, un appiglio alla becera materia del contemporaneo che non può essere accettata in maniera prona dai protagonisti dei suoi film.

I coniugi Ballard, Helen Remington, Vaughan, Gabrielle, vale a dire gli uomini e le donne che nell’onomatopeico Crash ricercano nell’incidente stradale l’appagamento dell’eccitazione sessuale, sfidano tutte le possibili norme del “costume” borghese – la sicurezza, la moralità, la fedeltà – perché i loro corpi non hanno altra possibilità di trovare un proprio spazio nel mondo: al di là della fascinazione estetica per il metallo ritorto e coniugato con la carne (“è un’opera d’arte” esclama esaltato Vaughan di fronte all’ennesimo incidente stradale incrociato sulla strada) è un’urgenza vitale quella che anima i protagonisti della pellicola, con ogni probabilità la meno compresa dell’intera filmografia cronenberghiana. L’atroce speranza funerea che racchiude al suo interno l’ultima battuta pronunciata da James Spader (“forse, la prossima volta…”) è il controcanto pessimista all’idea dell’uomo nuovo, del futuro come appiglio di speranza: la nuova carne, come quella che l’ha preceduta, è destinata solo alla macerazione, al vilipendio, e alla distruzione. Il ciclo vitale è dolore, e rinascita dal/nel dolore.
Dopo il già citato ritorno al gioco virtuale con eXistenZ, l’ultima decade ha mostrato un Cronenberg sempre più affascinato dal potere della mente come ennesimo travalicamento dell’esperienza puramente corporea: è così tanto in Spider, incursione nella mente di un uomo/bambino con ipotesi di matricidio alle spalle, quanto ovviamente nell’ultimo A Dangerous Method, viaggio nello scontro ai vertici della psicologia che vide contrapporsi, agli albori del Ventesimo Secolo, le personalità di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Due esempi di cinema della psicanalisi che non dimentica l’elemento strettamente materiale e tangibile del corpo, ma lo trasfigura in una concezione meno centrale, non più fine ultimo del discorso intrapreso ma piuttosto mezzo (magari indispensabile, come nel caso di A Dangerous Method) per raggiungere detto fine. Ben diverso, e non potrebbe essere altrimenti, il ruolo svolto dal corpo nel dittico A History of Violence/La promessa dell’assassino: senza entrare eccessivamente nel dettaglio, basterà sottolineare come entrambi i personaggi interpretati da Viggo Mortensen (l’ex killer sotto falsa identità Tom Stall in A History of Violence, il poliziotto sotto copertura infiltrato nella mafia russa Nikolai ne La promessa dell’assassino) vivono il proprio corpo in uno spazio che non è loro consono, al quale devono adattarsi per necessità, forzando anche le loro più strenue resistenze. Anche questi, dunque, fanno parte dei “metodi pericolosi” ai quali si sono affidati nel corso dei decenni i protagonisti dei film di Cronenberg per riuscire a vivere la propria vita fin nel profondo delle viscere, fino ad annullarla e a nutrirsene, in attesa che rinasca, come sempre, per distruggersi ancora. Gloria e vita alla nuova carne!

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