M. Butterfly

M. Butterfly

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M. Butterfly è un’opera a suo modo fondamentale nel percorso cinematografico di David Cronenberg: il tema della mutazione, della ridefinizione di sé e del mondo che circonda il protagonista, perde la connotazione fantascientifica, biologica o anche strettamente medica per rientrare solo nel campo della percezione psicologica del singolo. Nel ribaltamento dell’ideale tragico pucciniano vive una riflessione sul possesso, sul desiderio del maschile di sottomettere il femminile, sul colonialismo e sulla contrapposizione tra occidente in decadenza e oriente in violenta fioritura.

Addio fiorito asil

René Gallimard è un diplomatico del consolato francese di stanza a Pechino, dove si è trasferito con la moglie; durante una festa viene colpito dall’interpretazione di Madama Butterfly fatta da una cantante dell’Opera di Pechino, Song Liling, e cerca ogni escamotage per poter rivedere la donna, che ricambia le sue attenzioni. Sempre più affascinato dalla donna, dall’aspetto androgino, e dal mondo cinese, cambia il proprio atteggiamento anche nei confronti della Cina, pur ritenendo che l’avanzata delle truppe statunitensi in Vietnam avrà successo e che lo Stato cinese si sottometterà all’occidente e alla sua cultura. Nel frattempo si avvia la Rivoluzione Culturale… [sinossi]

M. Butterfly è il riflesso tragico di Giacomo Puccini, la smontatura e il rimontaggio di un colonialismo culturale che è l’anima fondativa dell’occidente ottocentesco e novecentesco. Sul palco all’aperto, nella festa privata riservata agli addetti del consolato e ai funzionari di vari paesi alleati della Francia, si esibisce una donna cinese, dai tratti marcatamente androgini; si esibisce portando in scena le arie più note di Madama Butterfly. Una donna cinese canta alle orecchie dell’occidente lo strazio di una ragazza giapponese tradita nell’affetto più profondo da un militare statunitense. È il 1964, la Seconda Guerra Mondiale è terminata da meno di venti anni, il massacro di Nanchino non ha neanche trent’anni: ma la Francia, che pure da poco ha perso il dominio sull’Indocina, non riesce neanche lontanamente a scorgere il paradosso di far interpretare a una giovane donna cinese il ruolo di una giapponese. “L’ironia”, come la definisce Song Liling, nel primo dialogo con uno spaesato ma affascinato René Gallimard, uomo di mezza età che ha già vissuto per lavoro fuori dalla Francia – in India, così racconta la moglie a un collega dell’uomo – ma sembra non saper comprendere un popolo cinese che gli appare saccente, supponente. Non sottomesso. Nell’agone di questa sfida tutta virile – e destinata a svilire e a martoriare qualsiasi senso della virilità – si può forse rintracciare il senso ultimo, o primigenio, di M. Butterfly, opera che segna uno scarto sensibile all’interno del percorso poetico e cinematografico di David Cronenberg. Il film segue di due anni l’uscita in sala de Il pasto nudo, adattamento del romanzo di William S. Burroughs – della reale biografia dello scrittore statunitense – e punto di non ritorno della prima fase della carriera di Cronenberg. Nella messa in scena delle paranoie e dei deliri lisergici dello sterminatore di scarafaggi William Lee si chiude idealmente un tracciato iniziato con i primi lavori autoprodotti e poi con titoli come Il demone sotto la pelle, Rabid, Scanners, Videodrome. Film in cui la materia organica prende posizione visibile sullo schermo, da un lato muovendosi nel campo della metafora – e della ricerca e distruzione del sé – e dall’altro spaesando la prassi di genere, survoltandola, spostandola in territori diversi.

Quell’esteriorità resa materiale agli occhi del pubblico, putrescente e sanguigna massa che si accumula e si modifica in continuazione, in una trasformazione del corpo che è prima avvisaglia della trasformazione della mente, dell’ossessione, dell’atto di creazione in sé e per sé dell’individuo, non può andare oltre le parole marce e auto-corrotte di Burroughs. Annexia è raggiunta, l’atto dell’omicidio è arte. Le coordinate di Cronenberg vanno avanti e tornano indietro: tornano a Puccini, è certo, ma soprattutto al dramma teatrale di David Henry Hwang andato in scena per la prima volta nel 1988. La pièce di Hwang traeva spunto dall’incredibile caso diplomatico che vide protagonisti il francese Bernard Boursicot e il cantante dell’opera di Pechino Shi Pei Pu, una spia del governo cinese che intrattenne una relazione ventennale con Boursicot spacciandosi per donna senza che lui, almeno all’apparenza, scoprisse la verità. I due vennero accusati di spionaggio e processati a Parigi. Nonostante questa triplice derivazione (i fatti realmente accaduti, il testo teatrale, l’evidente riferimento a Puccini) M. Butterfly si muove perfettamente all’interno della poetica del regista canadese, pur abbandonando quella propensione al fantastico che sembrava uno dei tratti distintivi del suo approccio alla regia.
In M. Butterfly perfino la rappresentazione nebulosa di Pechino e della sua popolazione, che sembra sospingere le derive dell’immaginario dalle parti di una ricostruzione del tutto mentale del “misterioso oriente”, svaniscono di colpo via via che la storia procede e che Gallimard, ex industriale che ora lavora per lo Stato, sembra trovare coscienza di sé e del proprio esistere come essere desiderante. La Storia può prendere il sopravvento della narrazione, così come l’avvento della Rivoluzione Culturale che Cronenberg mette in scena in particolare con due movimenti di macchina. Il primo è un carrello con dolly che mostra i campi di rieducazione per intellettuali, con questi ultimi impegnati nel duro lavoro di un terreno arido e privo di conforto alcuno. Il movimento, con grande senso del melodramma, si esaurisce sul primo piano di Song Liling che si pulisce il volto e scruta il cielo. Il secondo è il campo medio con cui il regista sceglie di inquadrare i manifestanti del sessantotto parigino che sventolano il Libretto Rosso di Mao e vanno contro gli idranti e i manganelli della polizia. Il lato orientale e il lato occidentale.

È infatti evidente come M. Butterfly sia un’opera di contrapposizione e di irridente smentita delle posizioni di potere. Una lotta per il potere che si fa inevitabilmente confusa, e che mescola le parti per rigettarle in modo identico e di nuovo contrapposto. Nell’occhio vitreo finale di Gallimard, suicida di fronte agli altri detenuti con indosso le vesti di Cho Cho San, c’è lo sguardo del tradito e del traditore – prima della moglie, poi della nazione, poi di se stesso e della finzione/verità maschile attorno alla quale aveva costruito tutta la sua vita –, ma anche di un occidente che nella presunzione di superiorità è stato sconfitto tanto sul campo di battaglia (le sballate previsioni di Gallimard su una rapida resa dell’esercito vietnamita di fronte alle truppe statunitensi è uno degli elementi che ne indeboliscono la posizione al consolato) quanto nell’influenza culturale. È Mao a essere innalzato come vessillo dagli studenti nell’epicentro del potere culturale, la Parigi della diplomazia e della forza che sotto l’egida ministeriale di Malraux sta creando un nuovo livello di scontro tutto interno, e destinato a lasciare solo macerie.
Gallimard gode, anche eroticamente, dell’interpretazione di Song Liling del capolavoro pucciniano perché ne legge all’interno la rappresentazione di una donna/mondo che ama anche di fronte all’estrema offesa, e preferisce il suicidio alla ribellione. È la sottomissione a un potere che è naturalmente considerato dominante a eccitarlo. La sottomissione della madama Butterfly è la resa di un’antica potenza all’uomo occidentale, alla sua modernità soverchiante, alla sua spocchia giovanile. La sottomissione di Song è ovviamente solo apparente, e sottende una ri-velazione che è lo sconvolgimento della prassi, ma è in quell’ipotesi che Gallimard trova la prima fascinazione, culturale ed erotica. Erotica in quanto culturale, e in quanto inespressa nell’atto sessuale. La seconda tappa nel percorso di fascinazione è invece da rintracciare nel mistero, nell’ambiguità di Liling. Quando Gallimard va a letto con Frau Baden, moglie dell’ambasciatore tedesco in Cina, la prima affermazione che fa una volta uscito dal bagno e davanti al corpo nudo della donna è “Tu sei esattamente come immaginavo che fossi”. Anche se la risposta della donna è “Che cosa ti aspettavi?”, seguito da “Coraggio… Datti da fare!”, è palese lo scarto che si avverte nella conformazione del desiderio di Gallimard. La donna occidentale è esattamente come si immaginava, non produce il desiderio misterico che è sì anche l’incapacità di dare forma alla propria bisessualità od omosessualità, ma è anche e soprattutto l’impossibilità a creare un rapporto non distruttivo con l’altro, l’opposto, il mondo sottosopra.

Nella distruzione del proprio io apparente di Gallimard, e nella sua definitiva tragedia umana, politica e culturale, c’è ovviamente il racconto di un percorso inverso compiuto dall’occidente nel corso di un secolo. Quando Puccini scrive Madama Butterfly gli imperi coloniali sono stabili, e con la prima guerra mondiale di là da venire nessuno pensa possano essere messi in discussione. Puccini mette a confronto un mondo giovanissimo e arcinoto – perché frutto delle politiche e delle ideologie secolari europee – come gli Stati Uniti d’America e un altro mondo, antichissimo e ignoto come il Giappone che ha aperto i porti e ha dato il via agli scambi commerciali da appena un cinquantennio. In M. Butterfly l’impero cinese annientato è visto dall’Europa in crisi d’identità come terreno da dominare e da gestire, senza produrre neanche uno sforzo particolare. La nuova Cina maoista, come il Vietnam, il Laos, l’Indocina liberata dal giogo coloniale, e probabilmente tutto il sud-est asiatico e il “far east”, sono invece in piena avanzata, e reclamano la loro porzione di potere e di dominio. La vacua estasi culturale francese (“perché non possono vederlo solo come un capolavoro della musica?”, si chiede scioccamente la moglie di Gallimard interpretata da Barbara Sukowa quando il marito le riporta le rimostranze cinesi sul fatto di dover intepretare un personaggio giapponese, come se agli occhi dell’occidente l’Asia sia un blocco unico, indefinito e indefinibile) non può che essere spazzata via da una ferale voglia di dominio come quello rivendicato da Mao e dal popolo cinese.

Se la trasformazione del corpo non è più possibile, ne resta però l’illusione: Song Liling è un uomo, e nulla potrà mai renderlo diverso da quello che è, ma vive come donna – debole, e non virile, quindi desiderabile – nella mente di Gallimard, mediocre lettore di una società in evoluzione che non sa interpretare, così come non conosce neanche l’opera di Puccini. “Con imbarazzo ammetto di non avere mai visto Madama Butterfly”, ammette Gallimard, “Ma non lo dica a nessuno; ci sono un paio di persone qui convinte che io possieda una profonda cultura”. Dalla menzogna di sé forse non si può mai uscire veramente, suppone Cronenberg, e se lo si fa si deve accettare l’unico destino possibile: il pubblico ludibrio, la solitudine, e la morte. Una scelta masochista, ma che è parte integrante del desiderio di trasformazione di Gallimard, da soggetto dominante/virile a soggetto sottomesso, anima femminile costretta – nella sua lettura mentale inevitabilmente maschile – alla disperazione. È proprio Song Liling, uomo che si finge donna per tradire se stesso ma mai lo Stato, a dirgli “Non esiste il destino, tranne quello che noi creiamo per noi stessi”. Oramai tramutatosi anche se solo nella finzione scenica in Butterfly, come la libellula donatagli da un uomo nella notte nebbiosa di Pechino, Gallimard può morire sgozzandosi. In quell’istante, nel ribaltamento dell’ideale tragico pucciniano, vive una riflessione sul possesso, sul desiderio del maschile di sottomettere il femminile e allo stesso tempo di diventare femminile, sul colonialismo e sulla contrapposizione tra occidente in decadenza e oriente in violenta fioritura. Nella più scarna e apparentemente classica delle regie di David Cronenberg inizia un nuovo percorso, una nuova carne che non si svilupperà per eccesso, accrescimento o deformazione all’occhio, ma si muoverà sottopelle, nelle sinapsi del desiderio, alla ricerca di quell’istinto all’autodistruzione che è anche repulsione della stessa, senza via d’uscita.

Info
Il trailer di M. Butterfly.
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