C’era una volta in America

C’era una volta in America

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C’era una volta in America, il film-testamento di Sergio Leone, oggetto di culto (ma anche di dibattito) da trent’anni a questa parte. Una grande epopea gangsteristica, inguainata in una posa romantica, decadente e melanconica, ma anche un inno al cinema come ultimo grande sogno e illusione dell’umanità.

Fumeria d’oppio

New York, anni ’20 del secolo scorso. Il quartiere ebraico costituisce il campo delle gesta di una piccola banda di ragazzini. Li capeggiano Max e Noodles, la strada è il loro regno per scippi, piccoli furti, ricatti al poliziotto di zona e così via. Ma i ragazzi crescono, e l’epoca del proibizionismo incalza. Mentre Noodles vorrebbe rimanere sulla strada, continuando nella microcriminalità, le ambizioni di Max sono di tutt’altro tipo… [sinossi]
Fat Moe: Noodles, cos’hai fatto in tutti questi anni?
Noodles: Sono andato a letto presto.

Non è facile doversi confrontare con un capolavoro dalla potenza visiva difficilmente uguagliabile come C’era una volta in America, ultimo parto creativo di Sergio Leone prima della morte che lo coglierà il 30 aprile del 1989 a Roma, ad appena sessant’anni. Il suo ritorno in sala, pur giustificato dal nuovo montaggio che reintegra ben ventisei minuti epurati nelle precedenti edizioni, costringe inevitabilmente a riflettere sulla situazione produttiva venutasi a creare in Italia nel corso dell’ultimo trentennio, o giù di lì. Per quanto nel 1984 la crisi che avrebbe squarciato il ventre del cinema italiano fosse già completamente avvertibile, riuscivano ancora a emergere sacche resistenziali, legate a un’idea di industria che aveva trovato un suo pur deperibile corpo a cavallo tra gli anni Sessanta e i primissimi anni Settanta: C’era una volta in America, nonostante sia stato reso possibile solo grazie all’investimento del produttore statunitense Arnon Milchan (colpevole del criminale montaggio di poco più di due ore con il quale il film venne distribuito nelle sale statunitensi), è un film in tutto e per tutto italiano. Lo è per la scelta delle professionalità da portare sul set (se si esclude la maggior parte del cast, i tecnici sono quasi tutti italiani), per alcuni inserti di sceneggiatura nei quali è possibile rintracciare la tipica verve dialogica nostrana, per l’indole con la quale viene messo in scena il lato oscuro del sogno americano.

Delle sei sequenze aggiunte per l’occasione – e che vengono mostrate al pubblico nella versione originale, laddove il resto del film verrà proiettato doppiato, e con una qualità video assai inferiore al resto della copia digitale – solo una appare realmente essenziale allo sviluppo della narrazione e delle psicologie dei personaggi: poco prima che Noodles scopra la vera identità del senatore Christopher Bailey, quest’ultimo riceve la visita dell’anziano sindacalista James Conway O’Donnell, che cerca di dissuaderlo dall’apparire davanti alla commissione di inchiesta, minacciando di ucciderlo. Un passaggio che permette non solo di cogliere meglio il remissivo fatalismo con cui Bailey/Max va incontro al proprio destino, ma anche e soprattutto di dare compiutezza a un personaggio, come quello del sindacalista apparentemente incorruttibile, che nella precedente versione scompariva dalla scena di punto in bianco, lasciando un vuoto non incolmabile ma senza dubbio significativo. Per il resto i ventisei minuti in più non aggiungono davvero molto a un’opera che a distanza di quasi trent’anni continua a sedurre, commuovere ed emozionare: ma se l’occasione permette a due generazioni di cinefili di godere di uno spettacolo così avvincente nel buio rilassante della sala e sul grande schermo non si può certo affermare che il gioco non valga la candela.
Si è detto tutto e il contrario di tutto su C’era una volta in America, tra i film di Leone probabilmente quello che più ha diviso la critica: se nei confronti del maestro dello spaghetti western si viene infatti a creare un muro compatto, pronto a difendere le sue sortite dietro la macchina da presa, non è raro imbattersi in brani critici che attaccano frontalmente il suo ultimo lungometraggio, da molti considerato eccessivamente lungo e dominato da un’estetica troppo fine a se stessa e staccata dal reale senso della messa in scena.

Accuse che appaiono ancor più risibili nel momento in cui si riesce a trovare il grimaldello per scardinare la serratura doppia, tripla, quadrupla dietro la quale Leone nasconde il proprio film. C’era una volta in America non è solo una grande epopea gangsteristica, inguainata in una posa romantica, decadente e melanconica (ma l’aspetto più puramente emozionale del film, a partire da alcune delle sue scene madri – Dominic che muore tra le braccia di Noodles dicendo “sono inciampato”, il primo incontro tra Fat Moe e Noodles dopo il suo ritorno in città, l’intera parte finale al party a casa del senatore – continua a fare breccia anche nel cuore meno malleabile), ma rappresenta un inno al cinema come ultimo grande sogno e illusione dell’umanità. I flashback attraverso i quali il pubblico viene gradualmente a conoscenza dei fatti non sono un mero espediente tecnico, ma simboleggiano metaforicamente la frammentata memoria oppiacea di Noodles: nella fumeria d’oppio, con lui, c’è anche il pubblico, drogato da uno spettacolo di ombre che racconta i dilemmi classici delle relazioni umane: l’amore non corrisposto, la gelosia, il tradimento, la vendetta. Tutto è basico e al contempo espanso, deflagrato, impossibile da rinchiudere, nell’ultimo film di Leone: la visione diventa l’ultima grande illusione, la liberazione dai legacci malsani della realtà, come l’ossessivo crudele irrintracciabile squillo del telefono che contrappunta una delle sequenze più memorabili.

Le incoerenze in cui incorre il film – e che non vale la pena neanche ricordare, tanto online è oramai possibile rintracciare siti che si occupano esclusivamente di questi dettagli – non sono “errori”, ma afasie controllate, ghiribizzi di memorie fallate, irreversibilmente drogate e sconnesse. È un film immerso nel tempo – nel suo, in quello dell’America del proibizionismo, perfino in quello attuale – e lo ribadisce a ogni pie’ sospinto: nella scritta intermission che appare desueta e “sbagliata” nello staccare a metà un film ben oltre la metà, nella maestosa lentezza calcolata con cui si evidenziano (rendendoli mitici) anche le sfumature più inavvertibili. Sergio Leone non ragionava sull’epos come elemento della messa in scena, ma piuttosto come scanditore di tempo per la messa in scena: la celeberrima sequenza del cucchiaino di caffè rigirato all’infinito nella tazzina è un paradigma perfetto per comprendere ciò. E il tempo, quello che non fu concesso a Leone per arricchire ulteriormente una carriera ricca di soddisfazioni, impera anche nei dialoghi: lo prova il breve estratto posto in principio a questa disamina, e lo testimoniano ulteriori passaggi come “il tempo non può scalfire”, Noodles che risponde a Deborah che gli chiede se la sta aspettando da tanto con un fin troppo evidente “tutta la vita”, o ancora il sibilante monologo in cui Max sbatte in faccia a Noodles la realtà: “Ho rubato la tua vita e l’ho vissuta al tuo posto. T’ho preso tutto. Ho preso i tuoi soldi, la tua donna, ti ho lasciato solo trentacinque anni di rimorso. Per la mia morte. Rimorso sprecato”.
Nel racconto di vite sprecate e di atti superflui, Leone sta raccontando l’atto superfluo e sublime per eccellenza, la ripresa dell’immagine in movimento. Spezzandolo, ricomponendolo e disgregandolo una volta di più. Per poi ridere inebetiti, persi in ricordi di passati mirabolanti o di futuri così plausibili da essere stati, forse, già vissuti.

Info
Il trailer della versione restaurata di C’era una volta in America.
C’era una volta in America sul canale di Rai Com.
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