Waiting for the Sea

Waiting for the Sea

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In Waiting for the Sea, film fuori concorso scelto per inaugurare la nuova edizione del Festival di Roma, il tagiko Bakhtiar Khudoijnazarov ripropone quella vena surreale, visionaria, lirica, immaginifica, che aveva stregato anni fa il pubblico di Luna Papa

Così stanno uccidendo il mare

Il mare è scomparso in una tempesta di sabbia. Un villaggio muore lentamente giorno dopo giorno. Solo il marinaio Marat si oppone al destino e decide di trascinare la sua nave, ridotta a un rottame arrugginito attraverso il deserto, pur di ritrovare il mare e una ragione di vita… [sinossi]

La nave di Marat che avanza faticosamente attraverso un oceano di dune, steppa e rocce bianche, alla disperata ricerca di un mare ritrattosi chissà dove, sembra avere una valenza quasi herzoghiana. Così come il bravissimo Egor Beroev, attore molto popolare in Russia, riesce nei panni del capitano Marat ad affrescare un personaggio ostinato, mirabilmente sopra le righe e preda dei più svariati sbalzi umorali, neanche fosse un Klaus Kinski slavo minato da ubbie e malinconie cechoviane. Del resto quel che gli è capitato non è roba da poco. Messosi in mare anni prima col proprio peschereccio nonostante i cattivi presagi della moglie Sari, che lo aveva voluto comunque seguire, si era trovato per colpa di un’improvvisa tempesta e del conseguente naufragio a perdere tutto: sua moglie, l’equipaggio, la nave, la reputazione stessa. Difatti a distanza di tempo i compaesani continuano a ritenere lui, unico sopravvissuto, responsabile di quella sciagura. E dopo anni e anni di peregrinazioni il suo sfacciato ritorno in quel villaggio dove quasi tutti, ormai, gli esprimono ostilità e diffidenza, pone Marat a diretto contatto con altre verità altrettanto amare e brutali. Il mare non c’è più. Si è prosciugato ritirandosi verso l’interno per non si sa quanti chilometri, trasformandosi a quanto si dice in una remota e circoscritta pozza d’acqua salata. La nave un tempo affondata è quindi riemersa, ma resta solo un relitto arrugginito in mezzo al deserto. L’attività della pesca un tempo fiorente è stata abbandonata. In questo quadro apocalittico, gli unici a sostenere ancora il capitano sono la bella Tamara (un’altra star della galassia post-sovietica, Anastasia Mikulchina), sorella di Sari la cui segreta passione per l’uomo è infine esplosa durante un fortuito incontro in treno, e l’amico di sempre, quel Balthazar interpretato con genuina intensità da Detlev Buck; personaggio toccante il suo, per via del difficile rapporto con un figlio teppista e del senso di perdita dovuto all’essere una specie di custode delle memorie cittadine, racchiuse in quel museo del porto che racconta di un modello di vita inaspettatamente e precocemente scomparso. Ma nell’animo di Marat sembra non esserci molto spazio per vecchi amici e nuovi amori, perché a guidarlo è un’ossessione: trascinare il relitto della sua imbarcazione fino al mare scomparso e prendere nuovamente il largo, per ritrovare quella compagna di vita e quei marinai che non si rassegna proprio a considerare morti. Questa lucida follia non sarà priva di conseguenze, in una cittadina allo stremo delle forze che dal giorno in cui il capitano è tornato non ha mai fatto mistero di un rancore serpeggiante e diffuso…

In Waiting for the Sea, film fuori concorso scelto per inaugurare la nuova edizione del Festival di Roma, il tagiko Bakhtiar Khudoijnazarov ripropone quella vena surreale, visionaria, lirica, immaginifica, che aveva stregato anni fa il pubblico di Luna Papa. E prosegue quindi con quest’altra co-produzione internazionale il viaggio, probabilmente destinato a prendere forma di trilogia, attraverso quelle lande dell’Asia centrale la cui realtà paesaggistica e umana risulta accuratamente trasfigurata nei contorni della fiaba, della reinterpretazione poetica in bilico tra epos e sguardi di natura più intimista, sofferta, sul sentire individuale. Sono infatti sentimenti estremi quelli che caratterizzano il capitano e gli altri personaggi principali. Altrettanto significativo è che siano scene di grande impatto visivo e movimenti di macchina talmente curati, sinuosi e complessi da riecheggiare i fasti della vecchia scuola sovietica, a introdurci in una dimensione così carica di suggestioni; un mondo indubbiamente esotico, quantomeno secondo i parametri impoveriti e sempre più circoscritti dello spettatore occidentale, ma che riesce comunque a trasmettere tutta la vivacità e la primitiva fascinazione degli ambienti, dei riti, delle differenti abitudini, dei differenti problemi. Soprattutto i problemi. «Il mio cinema si ispira alla letteratura di Gabriel Garcia Marquez, dove tutto è autentico e al contempo tutto è inventato», ha detto il regista, il quale per questo nuovo lavoro ha lasciato che si intravvedesse, in filigrana, l’impronta di un’epocale tragedia umana e ambientale, sviluppatasi negli ultimi decenni in alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Parliamo ovviamente del dramma che ha colpito il Lago d’Aral, una sorta di mare interno posto tra Uzbekistan e Kazakistan (paese, quest’ultimo, dove è stato girato il film) le cui acque si sono ritirate in seguito a sciagurati interventi del governo sovietico prima e dei diversi governi nazionali dopo la caduta dell’URSS, causando un disastro ecologico senza precedenti. L’entità del danno recato al territorio, alla fauna e alla popolazione locale è ben visibile in documentari come Aral – Death of a Sea di Dimitri Udovicki, cupa ricognizione di quanto lì è avvenuto. Nel film di Bakhtiar Khudoijnazarov tali circostanze, anche dal punto di vista delle coordinate geografiche, non vengono mai esplicitate espressamente, ci si limita all’allusione. Ma c’è una scena molto bella di Waiting for the Sea in cui uno dei personaggi, Balthazar, mostra ai bambini del paese l’area del porto trasformata in museo, tra vecchi cimeli e filmati in bianco e nero che illustrano lo stile di vita dei pescatori, prima che il mare si ritirasse; ed è facile supporre che tali immagini, capaci di turbare Balthazar fino alle lacrime, siano proprio testimonianze documentarie relative a quell’area.

Rispetto al più armonico e sorprendente Luna Papa, questo nuovo lungometraggio non è esente da passaggi a vuoto, lungaggini e pecche, come ad esempio un certo utilizzo della computer grafica che può apparire alquanto grezzo nell’episodio iniziale della tempesta, non diversamente da quanto avviene nelle battute conclusive del film con quell’incedere apocalittico, fin troppo magniloquente. Eppure, tra dromedari che percorrono la steppa e ampie distese saline, tra personaggi stralunati e navi che solcano il deserto, tra paesaggi brulli un tempo bagnati dal mare ed eleganti carrelli su ritualità arcaiche, tradizionali, lo struggente poemetto visivo del cineasta tagiko ha tutti gli elementi per generare emozioni, a ridosso di un conflittuale rapporto con la natura.

Info
Il trailer di Waiting for the Sea.

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