Gli amanti passeggeri

Gli amanti passeggeri

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Nonostante la continua e irriverente commistione tra noir e sberleffo, in fin dei conti il nuovo film di Almodóvar, Gli amanti passeggeri, è il lavoro imborghesito di un regista stanco.

Aerei sull’orlo di una crisi di nervi

Un gruppo di variopinti personaggi vive una situazione a rischio su un aereo diretto a Città del Messico. Un guasto tecnico – una negligenza giustificabile per quanto possa sembrare assurdo (ma le azioni umane spesso lo sono) – mette in pericolo la vita dei passeggeri del volo 2549 della compagnia Península. I piloti fanno il possibile per trovare una soluzione insieme ai loro colleghi della torre di controllo. Intanto, gli assistenti di volo e il responsabile di cabina, personaggi strani e quasi barocchi, di fronte al pericolo, cercano in ogni modo di mettere da parte le loro vicende personali per garantire ai passeggeri il miglior viaggio possibile, in attesa di una soluzione. [sinossi]

Gli amanti passeggeri, anche se forse in maniera incosciente, è un film sul tempo e fuori dal tempo. Dopo aver passato gli ultimi quindici anni a rimodellare la propria statura autoriale, passando dall’anarchismo ai limiti del paradosso a melodrammi più classici – in un’accezione comunque “allargata” del termine, ovviamente – ed essere approdato a quella creatura ibrida, squilibrata eppur in parte vitale che è La pelle che abito, definitiva affermazione di Pedro Almodóvar come regista trans-genere, nella doppia valenza cinematografica ed erotica, Gli amanti passeggeri segna un’inevitabile impasse. Come i protagonisti del film, bloccati a diecimila metri di altezza da un’avaria che impedisce all’aeroplano su cui volano sia di raggiungere la meta predestinata (Città del Messico) che di ridiscendere con facilità a terra, anche il cinema del regista spagnolo sembra essersi arrestato, costretto a ripiegare sempre più su se stesso: fin dai titoli di testa appare chiaro come si tratti di un’opera apertamente, quasi spudoratamente almodóvariana. Retaggi di avant-pop ammansito, squarci che amerebbero definirsi come à la Douglas Sirk, svisate paranoidi che innervano la commedia di tratteggi ansiogeni eppure sempre pronti a tirare la corda del grottesco. Un piccolo bignami del politicamente scorretto, che ha l’unico problema di evidenziare in maniera fin troppo palese la natura profondamente imborghesita della pellicola.
Per quanto vagheggi le insubordinazioni narrative ed estetiche che marchiarono a fuoco i suoi esordi, Almodóvar dimostra di essere oramai un regista stanco, ancora in grado di allestire spettacoli variopinti e di lavorare su atmosfere deliziosamente sulfuree (la commistione tra noir e sberleffo è continua e irriverente), ma del tutto privo di reali motivazioni. Un cinema bello e inutile allo stesso tempo, inerte nell’affrontare la questione della messa in scena e pronto ad accontentarsi di regalare una volta di più al proprio pubblico tutto ciò che esso gli richiede.

Durante i difficili ma culturalmente fertili anni della cosiddetta transizione, quando la Spagna compì i passi necessari per lasciarsi alle spalle la quarantennale dittatura fascista di Francisco Franco, il cinema iberico si rivelò una delle armi più rivoluzionarie a disposizione: da Carlos Saura a Victor Erice, passando ovviamente per Narciso Ibáñez Serrador e Armando de Ossorio, la Settima Arte regalò una ventata di cambiamento di rara potenza ed efficacia. All’interno di questo movimento di riscrittura dei codici stessi della nazione si inserì anche la Movida madrileña, la cui ispirazione socialista si legava a un discorso profondamente libertario, lontano da vincoli morali e politici di qualsiasi tipo. Tra tutti i cineasti quello che meglio di chiunque altro fu in grado di cogliere l’importanza iconica, spettacolare ed estetica del rinnovamento fu proprio Pedro Almodóvar, che contribuì a ridisegnare l’immaginario collettivo spagnolo con film quali Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980), L’indiscreto fascino del peccato (1983), Che ho fatto io per meritare questo? (1984) e Matador (1986).
A distanza di più di trent’anni da quegli esordi la poetica di  Almodóvar è rimasta pressoché immutata, pronta a ragionare sul corpo come elemento sociale e politico, ma ha messo da parte la furia dei bei tempi per “accontentarsi” di una brillantezza scenografica che spesso corre il rischio di apparire vacua e pretestuosa. L’immagine al potere, ma con tutto il peso e le controindicazioni che il potere trascina con sé. Questo è Gli amanti passeggeri, sapida ma prevedibile fiera del cattivo gusto (si parla ostinatamente e ostentatamente di sesso, tra fellatio improvvisate nella cabina di pilotaggio, evoluzioni erotiche con partner sedati e tracce di sperma raccolte e assaggiate dagli amici) in cui tornano ciclicamente tutte le ossessioni del cinema di Almodóvar, senza che però se ne avverta mai davvero l’urgenza. Si ride, di quando in quando, e non c’è dubbio che si possa facilmente cadere vittima del ritmo imposto alla narrazione, ma in fin dei conti al termine della proiezione allo spettatore non resta molto. L’appagamento è riservato solo ed esclusivamente alla visione in quanto tale, costringendo l’ultima fatica di Almodóvar a rivelare la propria sterilità autoriale. Come si diceva, il bello vuoto.

INFO
Il trailer de Gli amanti passeggeri su Youtube
La pagina Facebook de Gli amanti passeggeri.
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