Intervista a Vincent Dieutre

Intervista a Vincent Dieutre

Con l’Orlando ferito, il cineasta francese Vincent Dieutre racconta, partendo dal privato, la crisi della civiltà occidentale. Lo abbiamo incontrato a Roma, proprio nell’ultimo giorno del festival.

Presentato all’ottava edizione del Festival del Film di Roma, all’interno della sezione CinemaXXI, Orlando ferito di Vincent Dieutre è uno di quei titoli che resteranno nella memoria: un auto-ritratto, insieme intimo e politico, che parte dal sé per raccontare la condizione occidentale dopo la catastrofe sociale e civile vissuta negli ultimi decenni. Da sempre interessato ai destini dell’Italia, il cineasta francese prende stavolta come punto di partenza per la sua riflessione la Sicilia, magma insoluto e insolubile di contraddizioni, di residui di vivere comunitario e di derive urbane e umane. La ri-comparsa delle lucciole di pasoliana memoria è il nucleo concettuale del suo film, sviluppato a partire da un testo del filosofo Georges Didi-Huberman (pubblicato in Italia nel 2010 con il titolo Come le lucciole), mentre il nucleo umanista ed emozionale è affidato a Mimmo Cuticchio e ai suoi celebri pupi che, ultimi detentori di una tradizione che rischia di andare perduta, reinterpretano le gesta dell’Orlando furioso, un Orlando qui per l’appunto “ferito” perché dimenticato e superato dai tempi.
Proprio in chiusura di festival, al caffè Rosati a Piazza del Popolo, abbiamo incontrato Dieutre, che poco prima si era dato appuntamento con Tariq Teguia, autore di quel Zanj Revolution che ha più di un punto di contatto proprio con l’Orlando ferito, quantomeno per una medesima matrice godardiana.

Come nasce l’idea del film?

Vincent Dieutre: Un po’ per caso, da un viaggio a Palermo. Ero andato a trovare degli amici e mi sono detto: c’è qualcosa da fare qui. Poi tutti gli elementi sono arrivati poco a poco, dalla presenza dei pupi a quella di Didi-Huberman. Ho cominciato a girare una prima volta con Arnaud Pasquier come direttore della fotografia, per la prima parte del film, quella con Luigi Malaroda [ex esponente torinese di Rifondazione Comunista, compagno di Dieutre nel film, n.d.r.]. Poi sono rientrato a Parigi, dove ho cominciato a pensare alla storia dei pupi e ho cominciato a scrivere questi testi da far mettere in scena a loro. Quando sono sceso di nuovo a Palermo, ho portato con me in tasca questo libro, Come le lucciole di Georges Didi-Huberman che è uscito nel 2009 in Francia. Ho cominciato a vedere le relazioni tra questo testo e quello che cercavo in Sicilia. L’ultimo passo, il più importante, era convincere il puparo Mimmo Cuticchio e Didi-Huberman ad entrare in questo progetto. Alla fine, abbiamo avuto una sovvenzione da parte francese ed è stato tutto più facile: c’era la possibilità di fare dell’Orlando ferito un lungometraggio e questo mi ha consentito anche di organizzare i viaggi a Catania e Lampedusa, quest’ultimo in particolare era già stato previsto nel momento della scrittura del film. Abbiamo terminato le riprese tornando a Palermo, dove abbiamo girato tutta la parte dei pupi e quella del teatro occupato. Ma anche questa parte è un po’ frutto del caso, li ho incontrati così, casualmente, i ragazzi del teatro occupato. È stata insomma una storia fatta di ricerche e coincidenze. Normalmente lavoro così. Alla fine, quando il film è montato e missato, sembra tutto previsto, ma in realtà si tratta di una ricerca, una sorta di quest e tutto quello che entra nella storia finisce per prendere il suo corpo nella logica del film. Anche gli incontri con Pierandrea Amato [autore del testo La rivolta, anche lui presente nel film, n.d.r.] sono stati casuali. L’ho incontrato perché il suo libro usciva in quel momento in Francia e per caso ho saputo che lavorava a Messina, ho scritto una e-mail all’editore francese, ho avuto il telefonino di Amato, ci siamo sentiti, gli ho chiesto “dove sei?”, “sono all’aeroporto di Catania”, “arrivo”, tac e poi s’è fatto. Devo dire comunque che nel film non ci sono soldi italiani, nella produzione.

Ma avete cercato un produttore italiano?

Vincent Dieutre: Un po’, da parte del mio produttore. Però la gente con cui sono entrato in contatto in Sicilia mi ha aiutato molto. È veramente un film collettivo, devo dire.

Come nasce il tuo rapporto con l’Italia? Perché l’Orlando ferito non è il tuo primo film girato qui.

Vincent Dieutre: Sì, con questo sono quasi cinque i film girati in Italia: Roma desolata, Bologna centrale, Lezioni di tenebre che è ambientato a Napoli e a Roma, e poi una parte di Fragments sur la grâce che è girato qui a Roma, al Vaticano. Ho girato anche ad Alba in Piemonte con Naomi Kawase. Questo rapporto con l’Italia viene dalla mia biografia. Quando ero ancora praticamente un bambino ho cominciato a fare con i miei genitori dei viaggi in Italia. È un rapporto questo che è legato ovviamente anche al mio interesse per l’arte.

Quindi questo legame con l’Italia non viene da un motivo più diretto, come ad esempio la presenza di parenti italiani?

Vincent Dieutre: No, no, io sono puro normanno…Comunque, è anche vero che in Sicilia i normanni sono più o meno presenti…La Sicilia devo dire che non la conoscevo, è una scoperta recente. In ogni caso, dopo essere stato in Italia con i miei genitori, ho fatto – ormai tanti anni fa – dei viaggi per conto mio, che erano anche viaggi di iniziazione amorosa o politica. Ad esempio, ho conosciuto Bologna negli anni Settanta ed è anche per questo che poi ho fatto Bologna centrale, tutto organizzato intorno all’attentato alla stazione del 2 agosto del 1980. Per me questo giorno ha significato la fine di un certo modo di vivere l’Italia. Fino a quel momento era un’Italia insurrezionale. Poi, più tardi, è cominciato il periodo in cui stavo a Roma, la droga, la scoperta dell’omosessualità. Sono stati giorni selvaggi, non dormivo mica a Villa Medici come adesso. Roma era per me un simbolo di questa coesistenza del passato e del presente, come dice George Didi-Huberman, un posto dove si incrociano le cose, che sarebbe il luogo ideale di quel che chiamiamo la post-modernità, vale a dire la coesistenza di una specie di continuità tradizionale, artistica, culturale e la grande rottura del neo-capitalismo. E Pasolini ovviamente era un po’ il riferimento principale, dell’idea dell’artista che vive l’Italia fisicamente, che vive le trasformazioni quasi nel suo corpo. Sì, l’Italia è sempre stato un po’ il mio paese di finzione, il laboratorio. È un po’ quello che dico nel film.

A proposito di Pasolini, hai visto per caso la mostra che è in corso attualmente a Parigi e che ha scatenato diverse polemiche qui da noi, soprattutto in seguito a un articolo di Eugenio Renzi pubblicato su Il manifesto, che ha molto criticato l’impostazione dell’iniziativa?

Vincent Dieutre: Devo dire che ho un problema con le mostre di cinema in generale, ma va detto che questa mostra è accompagnata anche da una retrospettiva completa dei film di Pasolini. Sono invidioso di quelli che conoscono bene Pasolini e non sono mai contenti di questo tipo di iniziative, ma c’è tanta gente che viene, dunque il mo giudizio è più o meno positivo. Poi ognuno si costruisce un po’ il suo Pasolini, è un artista talmente complesso, con così tante dimensioni artistiche e politiche. E la mostra vale anche da dimostrazione di questo. Poi, certo, è tutto molto soggettivo, ma va detto che Alain Bergala [che ha curato la mostra insieme a Gianni Borgna e Jordi Balló, n.d.r.] è una persona competente. In ogni caso non giudico, non dico è bene o male. A livello personale, per me, comunque non c’è niente di nuovo che ho scoperto con questa mostra. Devo dire che l’eredità di Pasolini è ancora molto viva. Ad esempio, in Italia, quando parlo con le generazioni più giovani, mi accorgo che Pasolini ha preso un posto nuovo, molto interessante per me. E poi devo aggiungere che, per esempio, quest’idea della scomparsa delle lucciole come metafora dell’avvento definitivo del consumismo io non la conoscevo. L’ho scoperta leggendo Didi-Huberman e così mi si è presentata la dimensione profetica che aveva Pasolini prima di morire. Un aspetto che ho trovato presente anche negli ultimi film di Fellini. C’era questa coscienza della crisi che è arrivata dopo – la crisi culturale diciamo – che non è da confondere con la crisi politica degli anni Settanta e Ottanta, degli Anni di piombo. Definire il consumismo come neofascismo, come faceva allora Pasolini, è forse un po’ enorme oggi. Ma, insomma, la si può chiamare società dello spettacolo, che ha veramente trionfato qui, in una maniera molto visibile secondo me. Quello che dico nel film è che il problema non è solamente italiano. Però, visto che l’Italia rimane il mio laboratorio, io posso filmare le cose, le posso mostrare, riesco a dargli una forma visiva, cosa che non posso fare in Francia perché forse bisogna essere un po’ esterni – bisogna guardare da fuori – per avere una visione più completa. Inoltre, più leggo Pasolini più vedo in lui questa intuizione molto forte che aveva negli ultimi anni. Anche il modo col quale ha parlato del Sessantotto mi pare molto interessante, perché questa generazione sessantottina è la stessa che ha eletto Sarkozy in Francia o Berlusconi in Italia. Dunque, letto oggi, c’è qualcosa di molto interessante in questo, come una sorta di autocritica della sinistra, non solo una critica di quel che poi è diventato il berlusconismo o il sarkozismo. Un qualcosa che forse nasce proprio allora, perciò mi sembrava interessante tornare indietro, a prima degli Anni di piombo.

Hai accennato all’idea di guardare le cose da fuori. Nel film ti domandi, ad esempio, se il tuo approccio non sia troppo da turista. Antonioni diceva che ogni volta che viaggiava aveva la tentazione di fare un film sul posto che visitava, ma poi lasciava perdere perché non conosceva abbastanza quei luoghi. Pur conoscendo bene l’Italia, tu come hai lavorato su questo rischio dell’occhio turistico?

Vincent Dieutre: Penso che, in generale, la condizione presente è quella di essere turisti della nostra propria vita. È una convinzione che va nel solco di questa idea contemporanea della separazione tra sé e il mondo, un mondo fatto di schermi, di cliché, ecc. Dunque io mi assumo questo rischio, sono in effetti un turista, però…Sai, ho fatto un film a Napoli, per esempio ho filmato le strade e, sai, ci sono i panni stesi alle finestre e cose di questo genere. La gente di Napoli mi diceva, ah il solito cliché. Ma, ti giuro, è impossibile filmare una strada a Napoli senza mostrare queste cose. Alla fine gli italiani che vivono in questo paese bellissimo molte volte non si rendono conto che il turista non è solo il cliente di una specie di Italia falsa, di una posizione privilegiata di chi non fa parte del sistema. Io dunque prendo questa posizione, senza ovviamente avere la pretesa di conoscere il posto in cui filmo meglio di chi ci vive. Questa cosa dell’essere turista mi viene detta nel film da una persona con cui parlo, schematizzandolo un po’, del problema dell’omosessualità a Palermo. E in effetti io posso essere anche un po’ complice di questo sistema, perché per me è molto piacevole avere lì a Palermo tutti questi uomini che si nascondono, che celano la loro sessualità…Trovo che ci sia una dimensione molto bella in questo mondo, proprio perché non ci vivo dentro giorno dopo giorno e non ne soffro direttamente. Se fosse così, se rifiutassi la concezione del turista, non potrei fare il film. Del resto, la posizione oggettiva non esiste. Perciò, è vero sono un turista, però parlo la lingua, posso comparare le città italiane le une con le altre, perché le conosco. Più in generale, penso che normalmente il regista sia un po’ un turista. E la stessa cosa succede a livello sociale, visto che neanche Pasolini era un proletario. È sempre così. Rossellini fa dei bellissimi film sul popolo anche se non faceva parte del popolo. Viaggio in Italia è un viaggio da turista, ma è un viaggio che vede in maniera più giusta i problemi.

A proposito di questo guardare dall’esterno, nel film tu hai messo anche alcune apparizioni pubbliche di Berlusconi, le più note, come ad esempio quella in cui lui parla al telefono mentre la Merkel lo aspetta spazientita. E hai mostrato queste immagini in slow-motion e senza sonoro.

Vincent Dieutre: Sì, perché volevo centrare il discorso sul problema dell’immagine, dell’informazione, dell’iconografia berlusconiana. C’è questa frase molto forte che dice Luigi Malaroda nel film e che viene da Gaber: “Non temo il Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me”. C’è una compiacenza sociale enorme nei suoi confronti. Ad esempio, per trent’anni non ho mai incontrato nessuno che mi abbia detto: “Io voto per Berlusconi”. L’unica è quella ragazza prostituta che incontro a Catania nel film. È incredibile. La riflessione è che questa catastrofe, questa distruzione, vada molto più lontano della tradizionale distinzione destra-sinistra. È un po’ quello che dice Pierandrea Amato: bisogna veramente imparare a rimettere in gioco tutto, non solo una specie di società un po’ più giusta. C’è bisogno di un cambiamento fondamentale delle cose e almeno di essere d’accordo su questa idea. Altrimenti rimaniamo intrappolati in un caos, come dico nel film, un po’ confortevole, che va avanti così, come una macchina che è lanciata o, come si diceva negli anni Settanta, “corre la locomotiva”, però verso dove non si sa. C’è un qualcosa che va oltre la politica e la figura di Berlusconi. È un nuovo tipo di oppressione da società dello spettacolo che entra nell’immaginario delle persone, nell’ambizione estetica di una società. E secondo me in Italia questa cosa si vede ancora di più perché siamo in posti bellissimi dove la ricchezza comune è incredibile. Quando vai a Napoli o a Palermo c’è questa idea molto didi-hubermaniana della bellezza comune.

Orlando ferito è strutturato su una dialettica fertile che è quella di far dialogare il soggettivismo – la tua presenza in scena, il tuo privato, i tuoi incontri sessuali – con una messa in scena molto oggettiva, con numerose riprese a macchina fissa. Raramente ci sono soggettive, forse solo nei Super8 che si vedono a tratti.

Vincent Dieutre: Sì, è vero, ci sono in maggioranza riprese fisse, che sono come delle vedute o delle cartoline, con un’idea di quadro che viene dal mio legame con la pittura. Penso che la caratteristica principale di questo soggettivismo sia il frammento, la frammentazione del film su differenti livelli: c’è il livello dei pupi – questo dramma dei pupi che avanza di sequenza in sequenza – c’è il Super8, le immagini di internet, le vedute. Si lavora molto al montaggio, abbiamo montato per cinque mesi e dunque, partendo dal frammento, si costruisce una sorta di architettura del film. Poi c’è il lavoro sul suono, con le musiche, con il suono diretto. Sì, la soggettività è così, l’idea del frammento, del collage che mi permette di fare un film dove posso non separare l’intimo e quasi il sessuale con il sociale, il politico. Non sono cose separate, sai, secondo l’ipotesi che ci sia il mondo interiore in casa e quello esterno fuori. C’è una ragazza che appare nel film, la ragazza che balla. Si chiama Fleur Albert, e, mentre giravo, ha fatto un film su di me e l’ha chiamato Vincent Dieutre: la chambre et le monde. È un po’ così per me. Credo che il momento più sintomatico in tal senso sia quando riprendo un ragazzo del teatro occupato che è a letto, lo riprendo lì, poi vado alla finestra, apro e ci sono le manifestazioni fuori. Dunque lavoro proprio su quest’idea che non ci sia frontiera, oltre che cinematografica e visiva, tra la società e l’intimo. Questo vale anche per l’omosessualità. C’è chi tiene nascosta la sua identità. C’è spesso quest’odio di sé, di come si è. E penso che in Italia il fenomeno sia ancora più allargato, al di là dell’omosessualità. Molti dicono: io non faccio parte di questo. E alla fine ci sono 60 milioni di persone che dicono: no, io non mi riconosco in questo paese. Succede anche altrove, ma in Italia di più. E dunque il mio lavoro è sempre stato quello di articolare l’esterno e l’interno, la figura politica e sociale e l’intimo e l’estetico. Che è una delle teorie di George Didi-Huberman, che l’estetica non è a parte rispetto alla politica.

In questa concezione cinematografica del frammento c’è in te la consapevolezza della lezione godardiana?

Vincent Dieutre: Certo, certo. Però il Jean-Luc Godard che vedo adesso è quello di un cineasta un po’ intrappolato nel suo sistema. Più il tempo passa più penso che lui è come una strada senza uscita. Perché ha perso il contatto – non con la realtà, perché non vuol dire niente – ma soprattutto con la creazione del suo tempo. Si è un po’ rinchiuso in un castello delle menzogne tutto suo, che è bellissimo, però è come un requiem che non finisce mai. Tutto è finito, l’arte, il cinema, la politica, il mondo. Che era la posizione per me degli anni Settanta, come diceva Marguerite Duras: “Questo mondo va verso la sua fine, meno male”. L’unica possibilità possibile era la catastrofe. Poi la catastrofe è arrivata, ci siamo dentro da trent’anni, ed eccoci qua. Lo stesso vale per il discorso apocalittico di Pasolini: è molto forte, ma cosa ne facciamo adesso? Che lezione trarne? Ed è questo che mi ha interessato molto dell’impostazione di Didi-Huberman, l’idea che il problema ora è di ritrovare le lucciole. Ma senza facili entusiasmi, senza dire: ah, che bello ci sono gli indignati a Madrid o in Grecia, in Libano. E senza allo stesso tempo fare il contrario e dire: bah, non c’è nessuna soluzione. Bisogna fare una specie di negoziazione molto intima e personale tra le due cose, un processo che lui chiama di pessimismo organizzato,

A proposito di questo, al centro dell’Orlando ferito, c’è l’idea didi-hubermaniana del ritrovare le lucciole nel presente, cercando delle forme di sopravvivenza e di resistenza, anche in certi aspetti della tradizione.

Vincent Dieutre: Sì, però una sopravvivenza non è una tradizione, non è il folklorismo che è una tentazione molto forte in Italia. Anche se il film non lo spiega direttamente, è qualcosa di più profondo, un qualcosa che forse viene dall’antichità, un qualcosa di più fondamentale nell’essere umano. Certi movimenti di protesta sono un po’ affascinati oggi dalla rottura completa con il passato, dal rigetto della cultura, della pittura, dell’arte. E Didi-Huberman sostiene invece che bisogna avere la modestia di trovare i nodi tra il passato e il presente. C’è spesso una maniera di contestare il mondo attuale che è un modo comunque di essere inglobati indirettamente nel sistema, perché solo la distanza ti dà la coscienza culturale ed estetica che ti permette di riflettere su alcuni processi. Ho incontrato molte di queste persone, di associazioni, a Lampedusa che la pensano così. L’importante per loro è che comunque in questo momento sono impegnati nell’azione, nella difesa dei diritti dei migranti. Questo è molto forte adesso, il gesto, l’azione non come soluzione ma come possibilità di attraversare questo muro che imprigiona la storia e il presente. Non so come reagiscono in generale i giovani qui in Italia, ma a me interessa molto. Cambiare le cose non è facile, non basta stare con Naomi Klein su Skype. Ci vuole qualcosa di più doloroso e questa è l’idea maggiore di Didi-Huberman nel suo libro, che la bellezza e il dolore sono cose che vanno insieme. E penso che qualche volta Nichi Vendola nei suoi primissimi discorsi andava un po’ in questa direzione. Adesso è un po’ differente.

In questo tentativo di “attraversare il muro” c’è anche il discorso relativo all’omosessualità. Del resto il film inizia con un Gay Pride a Palermo. Anche a queste rivendicazioni è affidato il compito di manifestarsi come forma di sopravvivenza e di resistenza?

Vincent Dieutre: Sì, le lotte attuali non sono più ovviamente solo i padroni e gli operai. Sto leggendo in questi giorni il libro La reification du desir. Vers un marxisme queer di Kevin Floyd che propone una specie di lettura trans-politica, nell’idea di un marxismo dopo Marx, che era un qualcosa di molto forte anche in Italia negli anni Settanta, con le riletture che si facevano di Gramsci ad esempio. Queste lotte queer a Palermo, a Napoli, anche qui a Roma, sono forse cose che si possono utilizzare in direzione di un cambiamento totale dei rapporti sociali. Amo molto questa idea della queerizzazione della politica. Che non vuol dire però “istituzionalizzare” la cosa. Questa storia del matrimonio omosessuale in Francia era ovviamente molto importante, io ho firmato, sono andato alle manifestazioni, ma per me il punto non era di ottenere effettivamente la vittoria, di ottenere la possibilità effettiva di potersi sposare. Il problema è di non ridurre il discorso politico a delle richieste degli omosessuali come corporazione, come lobby. Non è molto interessante. Quel che invece trovo importante è di utilizzare il queer come uno dei modi di trasgressione possibile, soprattutto in società come quella palermitana, siciliana o napoletana.

A proposito di Marx, c’è un episodio molto bello che racconta nel film Georges Didi-Huberman, quello della lotta dei contadini per riavere il legno morto di un bosco nella Germania dell’epoca. Un diritto cui usufruivano da tempo e che i padroni ad un certo punto gli vollero togliere. È un esempio di riappropriazione della tradizione. Marx comincia il suo discorso da questo, dal rispetto di un diritto secolare.

Vincent Dieutre: Questo esempio è bellissimo perché fa parte di questa idea del comune, dell’idea che le cose non devono appartenere a qualcuno. La privatizzazione del mondo è molto pericolosa, con l’acqua, l’aria, ecc. Vedi ad esempio una piazza come questa, Piazza del Popolo, che è uno spazio comune, dove arriva Fendi che compra questo, Gucci che compra quell’altro. Anche su internet è lo stesso discorso. Ma si sa che è impossibile alla fine privatizzare, perché la bellezza è troppo evidente, tu non puoi nasconderla. Dunque penso che il discorso di Didi-Huberman sul legno morto sia un po’ lo stesso. Ad un certo punto – ed è anche la lezione di Pasolini – si deve ripensare a quello che ci aspettiamo dalla vita, perché in questa fase in molti, in Italia o in Francia, pensano di poter uscire dal sistema e in questo modo di proteggersi, ma non si può. Se tutti fanno così, non esiste più l’essere insieme, quello che chiamo l’essere insieme. E quando vai in Sicilia tu la senti molto di più questa cosa, c’è il Gay Pride e da un’altra parte la gente che guarda. Però, in fin dei conti, funzionano insieme, sono insieme. Non c’è ancora questa separazione comunitaria che sento molto a Milano o a Firenze. Roma è un po’ tra le due.

Invece Napoli…

Vincent Dieutre: Napoli anche è molto interessante. Il prossimo film lo faccio a Napoli.

Sai quando inizierai?

Vincent Dieutre: Penso di cominciare a girare a febbraio. Non è un remake, ma una specie di rivisitazione di Viaggio in Italia di Rossellini che faccio io con mio marito. Passiamo per Napoli andando verso un bed and breakfast a Ischia. Ci sarà anche Isabella Rossellini nel film. Ritorna anche qui il filo delle cose che mi hanno formato, con questa idea del post-modernismo di riciclare le cose e di riappropriarsene, come avevo fatto con Caravaggio a Roma o con Shubert in Germania e come ho fatto ora con i pupi nell’Orlando ferito. Però in questo caso è un film, quindi ci sono dei problemi con la legge, dei problemi di diritti, su come muoversi con questa legge sul remake. Ci sarà comunque sempre questa idea del Sud dell’Italia come laboratorio.

Quindi ci sarà anche un viaggio a Pompei?

Vincent Dieutre: Certo, ma molto differente. In Viaggio in Italia ci sono solo loro due con la guida. Adesso c’è il mondo del turismo che è molto sviluppato. Dunque, sempre nel solco del modello rosselliniano, è un po’ questo il grande cambiamento, sempre nell’idea del turista e dei turisti della loro propria vita. Però al momento non è ancora sicuro al cento per cento, quindi sto un po’ sognando. Mi ero detto che Orlando ferito sarebbe stato il mio ultimo film in Italia e invece eccone un altro che arriva. Poi ho anche un progetto a Berlino, su questo movimento di artisti francesi, italiani e da altre parti del mondo e dell’Europa che sono andati a vivere lì per cercare non so esattamente che cosa. Voglio scoprirlo e voglio vedere come va quando arrivano lì. Questo sarà un film un po’ più documentario. Però sempre con lo stesso sistema di frammenti.

Come era organizzata la troupe di Orlando ferito? Con quante persone lavori di solito?

Vincent Dieutre: Il super8 l’ho fatto io, anche se non tutto, perché a volte appaio in campo. Per tutto il resto ho un operatore, non filmo mai. Ho una troupe molto ridotta ovviamente, perché il vero lusso del film è il tempo a disposizione. Ho una persona che lavora sull’immagine, un’altra sul suono. Poi, quando è possibile, prendo un assistente per andare a cercare le cose, telefonare nei posti. Serve per facilitare certi meccanismi. E dunque siamo in tre/quattro. Poi ci sono gli ospiti, gli intervistati. E nell’Orlando ferito c’è la troupe di Mimmo Cuticchio che, a loro volta, sono tre/quattro. Ho preso in questo caso anche un secondo cameraman per fare la steadycam sui pupi. Però il nucleo è composto da tre persone.

C’è un momento molto bello con Luigi Malaroda nel film. Siete in questa specie di salone gattopardesco e lui ti sta parlando come se fosse un’intervista normale, ma tu gli metti dolcemente la testa sulla spalla. Questa cosa provoca una sorta di cortocircuito, sempre nell’idea di far comunicare il privato e il pubblico.

Vincent Dieutre: Sì, Gigi è una persona che amo molto, era difficile fare un’intervista tradizionale. Quello è il momento in cui lui mi spiega i motivi per cui ha deciso di andarsene dall’Italia. E lui se n’è andato veramente, è andato in Messico. C’era perciò una specie di tensione. Nel film cercavo di convincerlo a non andarsene, ma era troppo tardi. Poi, invece, nel finale, quando lui torna, è in realtà una finzione, perché non è tornato. Si trova molto bene in Messico. Ma nel film ne ho fatto il mio eroe, perché lo amavo molto e dunque gli ho detto “ti faccio tornare” e lui mi ha detto “sì, sì”. Lui ama molto l’Italia, ma quando è partito era veramente disgustato. Aveva già lasciato Rifondazione, ne era esasperato, e aveva pensato in un primo momento che la soluzione migliore per lui fosse quella di andare a vivere a Palermo, quindi esattamente agli antipodi del posto in cui aveva vissuto fino ad allora, a Torino. Anche se nel film facciamo finta che vive a Padova. Faccio sempre così, gioco un po’ sull’esperienza reale e su un certo grado di spostamento. Anche la fine del film va in questa direzione. Le lucciole stanno tornando, questo è vero. Ne hanno viste a Caserta e mi hanno detto che le hanno viste anche nel boschetto di Villa Medici. Le mie invece sono come le lucciole di un sogno, sono digitali. Però mi pareva importante che alla fine ci fosse questa apertura sognante, legata anche alla progressione del racconto dei pupi che per me è il mondo dell’infanzia. Dunque alla fine, nel momento in cui Luigi torna, si può aprire uno spiraglio su qualcosa, sulla magia, sulla metamorfosi.

Mimmo Cuticchio è apparso recentemente in un altro film, Prove per una tragedia siciliana di John Turturro, un film che ha qualche punto di contatto con il tuo. L’hai visto?

Vincent Dieutre: L’ho visto. È sincero, lui è veramente d’origine siciliana. Ma è un film molto impostato sul privato. Non c’era l’idea un po’ più ambiziosa di fare un manifesto poetico-politico sulla situazione attuale. La sua è una specie di ricerca della sua sopravvivenza tra l’oceano. L’uso che ne ho fatto io dei pupi, poi è più complesso. Abbiamo scritto appositamente dei testi, diventano personaggi. Era un po’ più difficile ovviamente cercare di convincere Cuticchio, sai, con Pasolini e tutto questo. Però a poco a poco, siccome è un uomo molto intelligente, molto generoso, è entrato nelle mie corde e devo dire che alla fine è lui che ha portato molto avanti la cosa con la sua energia. È un aspetto che si vede nel film: più si va avanti, più lui è coinvolto, anche fisicamente, visto che appare in scena. All’inizio non voleva apparire, poi invece…Ho filmato questo momento, secondo me bellissimo, in cui lui stesso parla con Orlando svenuto. Tutto questo lui non lo sapeva, non l’aveva letto. Poi, andando avanti con il lavoro, ha accettato di farlo. C’è una costruzione progressiva in quello che facciamo dire ai pupi che, a mano mano, dicono cose più forti, più politiche. Complessivamente ne è nato un bel testo, secondo me, e forse Cuticchio farà uno spettacolo suo a partire da quello che abbiamo scritto per il film. Spero che lo faccia. Il film lui ancora non l’ha visto, lo porto a Palermo a dicembre.

C’è un personaggio molto bello tra i pupi, il pupo fumatore, che sembra un po’ il tuo alter-ego. Sta lì che fuma un po’ in disparte, quasi fuori scena, quasi esterno rispetto alla situazione.

Vincent Dieutre: Sì, c’è un gioco su questo, io sono allo stesso tempo Orlando e il personaggio di Nicotino. È un personaggio che già esisteva. Sai, è un po’ difficile far fumare il pupo e adesso lo utilizzano per dire di non fumare nel teatro. Lo fanno venire e lo fanno fumare. E non si chiamava Nicotino, me lo sono inventato io. E adesso si chiama così, anche negli spettacoli normali. Mi interessava il fatto che lui è l’unico che può vedere quel che succede fuori perché, essendo fumatore, lo hanno messo vicino alla finestra, quasi fuori scena e da lì può vedere il mondo di fuori. Poi c’è il concetto del castello delle menzogne che è un po’ il nostro mondo e che ho ripreso dalle leggende dei pupi. Ho tentato di utilizzare tutte le possibilità che mi davano i pupi, dalla farsa, ai pupi che diventano classe e che compongono un popolo, fino al personaggio di Lucciolino, che incarna la speranza. E c’è anche l’idea – terribile, però, perché poi è diventata vera – di tutti questi pupi turchi morti sulla spiaggia che sono una metafora dei migranti di Lampedusa. Dunque ho cercato sempre di mettere in relazione quello che succede nel film e quello che succede nel teatro dei pupi. Ed è per questo che la parte dei pupi l’ho girata alla fine, perché tutti i testi li abbiamo scritti poco a poco facendo il film. Questa isola del Sole spietato ovviamente è Lampedusa. Il castello delle menzogne, come dicevo, è il potere in generale, ma soprattutto Berlusconi. Poi c’è anche un personaggio che si chiama la Beppe Grilla, però non l’ho messo perché non conosco bene questo movimento. Ma quando sento migliaia di persone tutte in coro che dicono “vaffanculo” non mi pare che sia molto rivoluzionario.

Per chiudere ti vorrei chiedere a questo punto – da esterno – qualcosa sul cinema italiano.

Vincent Dieutre: Mi pare che ci sia un nuovo cinema che appare nel mondo del documentario, dell’installazione video anche, che è più cosciente delle cose di quanto non lo sia il cinema mainstream. Il cinema di ricerca o anche la ricerca sul cinema, fatte in modo istituzionale, non si vedono più in Italia, c’è Fuori orario e basta. C’è qualcosa invece di molto indipendente, in Sicilia, a Napoli, in Piemonte, ci sono autori che lavorano con progetti più piccoli e che fanno film come La bocca del lupo di Pietro Marcello o Le quattro volte di Michelangelo Frammartino. Sono dei film di registi con cui sento di poter dialogare.

Però questo significa che, in Italia, dove comunque questi film hanno incassato molto poco, il cinema italiano si ridurrà alla marginalità?

Vincent Dieutre: Quello che penso è che se la pagina si riduce, il margine diventa più grande. Io ci credo molto in queste forme, perché i film non circolano più nella stessa maniera. Penso che l’idea del film in sala è un qualcosa che può continuare, ma è come la locomotiva che corre senza sapere dove andare. A noi, che facciamo un certo tipo di cinema, tocca invece questa responsabilità, di andare contro questo sistema, di non fare film con tre o quattro milioni di budget. Dobbiamo ripensare il modo di fabbricare, di diffondere i film, perché penso che questo cinema di mercato avrà lo stesso destino del mercato, è un qualcosa che più o meno è condannato.

Info
Vincent Dieutre su Wikipedia.
La scheda Imdb di Vincent Dieutre.
Il sito del Festival di Roma.

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