Terre battue

Terre battue

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L’opera prima del francese Stéphane Demoustier, Terre battue, lucido e al tempo stesso appassionato ritratto di una crisi personale e sociale. In concorso alla Settimana della Critica 2014.

Nella terra di nessuno

Jérôme ha appena lasciato l’azienda in cui era dirigente. Determinato a non lavorare mai più per nessun altro, tenta di mettersi in proprio, costi quel che costi, perfino ignorando la riluttanza della moglie Laura. Il figlio Ugo, 11 anni, è una giovane promessa del tennis. Il suo obiettivo è essere ammesso al centro nazionale d’allenamento del Roland Garros. Proprio come suo padre, è disposto a tutto pur di farcela. Ma sia Jérôme che Ugo scopriranno che non tutte le regole possono essere infrante nella rincorsa al successo… [sinossi]

Torna sui campi da tennis, dopo il documentario Les petits joueurs (2014), il regista e sceneggiatore francese Stéphane Demoustier, classe 1977, di Lille. Il suo esordio al lungometraggio, Terre battue, co-prodotto dalla Les Films du Fleuve dei fratelli Dardenne, è tra le sette pellicole in concorso alla Settimana della Critica 2014. Un esordio più che interessante, capace di camminare con le proprie gambe e di non attingere pedissequamente dalla poetica dei celeberrimi Jean-Pierre e Luc [1].
Demoustier può contare su un convincente trio di attori: Olivier Gourmet (Jérôme), Valeria Bruni Tedeschi (Laura) e il piccolo Charles Mérienne (Ugo). Attori a loro volta sostenuti da una scrittura rigorosa ma appassionante, da una messa in scena elegante ma senza fronzoli. Terre battue possiede i tempi della vita reale, della quotidianità, tra frenesia e tempi morti. E, come nella vita reale, si sofferma su alcuni istanti, su alcune immagini, su piccoli quadri che ti restano dentro gli occhi, che scavano in profondità. Momenti che segnano e segneranno la vita di Jérôme, Laura e Ugo. Ugo, appunto, con la sua maglietta rossa, la racchetta in mano e quella rete che vorrebbe tanto superare.

Terre battue non è un film sportivo, eppure lo sport lo racconta perfettamente. Racconta la competizione, la lotta, i sacrifici, soprattutto i pericoli, quelle voragini che si aprono tra vittoria e sconfitta. Terre battue è un’operetta morale, mai didascalica, mai un millimetro sopra i propri personaggi. Lavoro, vita, famiglia, sport. E sogni, nonostante la crisi economica che ci attanaglia. Demoustier osserva da vicino la disgregazione di un nucleo familiare, lo smarrimento di un padre/lavoratore e, inevitabilmente, di un figlio.
La vita agiata a Villeneuve-d’Ascq (a due passi da Lille), come la carriera di Jérôme o il talento di Ugo, è un terreno cedevole, è lo specchio di un’instabilità che accompagna i nostri anni. Il desiderio di arrivare a tutto, subito, in qualsiasi modo. Un morbo dilagante.
Terre battue mette in scena una serie di sconfitte, si focalizza sulle debolezze di personaggi sostanzialmente positivi. Jérôme è un lavoratore serio, preparato; Laura è una madre premurosa, una donna sensibile, realizzata; Ugo è un ragazzino talentuoso, apparentemente cristallino. Tra le pieghe di questa apparenza si insinua il vero fallimento, la schiavitù del successo, della rapidità del successo.

Demoustier non cerca scorciatoie spettacolari, non drammatizza, ma fotografa con precisione le dinamiche che regolano la società odierna, che sfiniscono i (più) deboli, che ci strappano i sogni. E così restiamo lì, a due passi da quella rete, sognando demi-volée e passanti incrociati. Ma siamo solo (e anche soli) nella terra di nessuno.

Note
1. Prima di Les petits joueurs (la scheda sul sito di Année Zéro), Demoustier ha diretto alcuni cortometraggi, raccogliendo premi in diversi festival internazionali. Tra i suoi corti, Dans la jungle des villes (2009), Des noeuds dans la tête (2010), Bad Gones (2011) e Fille du calvaire (2012).
Info
Terre battue sul sito della Settimana della Critica.
Terre battue sul sito della casa di produzione Année Zéro.
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