I figli dell’idroscalo

I figli dell’idroscalo

La morte di Claudio Caligari segna la fine forse definitiva di un modo di guardare Roma, affettuoso ma mai buonista, che ha attraversato il cinema italiano degli ultimi quarant’anni, tenuto sempre a debita distanza dal “sistema”.

Me n’andavo da quella Roma che ci invidiano tutti,
la Roma caput mundi, del Colosseo, dei Fori imperiali,
di piazza Venezia, dell’Altare della patria, dell’Università di Roma,
quella Roma sempre col sole estate e inverno,
quella Roma ch’è meglio di Milano.
Remo Remotti, Mamma Roma, addio.

“Me se vuoi fare un film a Roma mica puoi prendere la videocamera e girare dove ti pare. Devi scegliere. Scegliere bene. Roma non è mica come Parigi o New York”. Così parlava Alberto Grifi, nella primavera del 2005, mentre sfrecciava in direzione della Fondazione Baruchello, dalle parti di Formello, dove l’ex sodale (con cui aveva portato a termine la sublime operazione di montaggio Verifica incerta) gli aveva messo a disposizione, per un periodo, una dépendance; alla guida di una macchina sgangherata ma resistente almeno quanto lui Grifi parlava di Roma come di un luogo altro, malgestito e abbandonato al proprio destino, ma proprio per questo ancora più vivo, ribollente, imprevedibile. Era romano Alberto, e quando sei romano lo rimani fino all’ultimo. Quindi anche i viaggi all’estero, i documentari industriali girati in mezzo mondo, dagli USA all’America Latina, dall’Africa all’Oceania e al sud-est asiatico, non erano riusciti a distaccarlo completamente dalla Città Eterna.
In una nazione in cui il cinema ha accentrato tutto il proprio potere su Roma, lasciando spazio ad altre regioni solo in tempi piuttosto recenti (o agli albori, quando ancora non esisteva di fatto un sistema di controllo), lo sguardo del cinema su Roma si è fatto inevitabilmente corrompere. Esiste una versione ufficiale della Capitale che deve essere tradotta in immagini, veicolata e trasmessa al resto della nazione. Una versione ufficiale in cui ci si può muovere solo (o soprattutto) nella commedia, in quella innocua, ripulita. Il romano deve rimanere un sapido esercizio linguistico, un puro rimando geografico, il puntino ideale sulla i di sistema. Non molto dissimile dall’operazione portata a termine con il napoletano o con il siciliano. Aree, quelle, che permettono al cinema di celebrare il proprio impegno, puntando il dito contro le storture della camorra e della mafia. Realtà che si muovono “fuori” dal sistema.

La Roma che imperversa sugli schermi non presenta zone d’ombra. La Roma che imperversa sugli schermi non ha scheletri nell’armadio. La Roma che imperversa sugli schermi non è mafiosa, non è criminale, non è cattiva. Al massimo, sempre per citare Remo Remotti, è “quella Roma del volemose bene, annamo avanti”. E quando è “criminale”, come in Romanzo criminale – sia cinematografico che televisivo – o in Acab, viene mostrata con luci livide ma perfettamente calibrate, uniformi, mai fuori asse.
Non essere cattivo. Lo dice Claudio Caligari nel suo ultimo film tragicamente postumo. Caligari la Roma cattiva, puttanesca e incarognita, l’ha mostrata senza alcuna reticenza: l’ha messa in scena con rispetto, con dolore, con umana partecipazione. Per questo, forse, ha potuto farlo così poche volte nel corso della sua vita (tre in trent’anni: Amore tossico, L’odore della notte e Non essere cattivo). È stato anche lui, come in parte Alberto Grifi e come Nico D’Alessandria, un figlio dell’idroscalo. Là, nell’Ostia che forse è Roma forse no – con tanto di mini-sindaco a gestire (mal)affari pubblici e privati – l’urbe borgatara venne colpita al cuore la notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975, con l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Non è un caso che la canzone/recital di Remotti si intitoli Mamma Roma addio. Non fu solo l’intelighenzia italiana a venire martirizzata insieme a Pasolini. Quella notte si ruppe il cordone ombelicale che ancora legava il mondo intellettuale a quello popolare o, meglio ancora, popolano. Se c’è davvero un’Italia pre e post-Pasolini, come alcuni teorici suppongono, è da rintracciare nel modo in cui il cinema, la più popolare tra le arti, abbandonò con grande rapidità borgate, rioni, quartieri decentrati.
La Roma del popolo fu sostituita sugli schermi con quella borghese: non più i mercati puzzolenti di pesce, non più gli stracciaroli, non più il Mandrione o la Garbatella storica. No. In pochi anni questo immaginario venne spazzato via, per lasciar posto al centro storico, al Testaccio intellettuale (e ora anche al “rinato” Pigneto, ovviamente), e alla Garbatella ripulita da quante più scorie del reale possibili.

La morte di Pasolini recide lo sguardo della Settima Arte con cruda impazienza. Chi non si allinea può rimanere in un cantuccio, a osservare e, quando è fortunato, a filmare. Grifi, che su Roma aveva costruito in qualche modo l’apparato strutturale del monumentale Anna, in cui la randagia protagonista occupava, seppur senza speranza, il cuore pulsante della città aggirandosi per piazza Navona, a fine anni Settanta sembra muoversi in un pertugio stretto e angusto. Nel 1978 per la televisione di stato deve dirigere due cortometraggi, Dinni e la normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti gruppi di follia militante e Michele alla ricerca della felicità; da un lato l’allegoria politica, che prende spunto dall’attualità (il rapimento di Aldo Moro), dall’altro la vivida rappresentazione dell’abuso di potere. Michele alla ricerca della felicità, sceneggiato con Guido Blumir, al lavoro anche su Amore tossico, e interpretato – stando ai titoli di testa – da “Michele, Raffaele, Pino, Pinone, Paolo, Bruno, il Bonzo”, è sì un resoconto sulle violenze quotidiane che i tossicomani subiscono in prigione dalle guardie carcerarie, ma è anche a suo modo un fermo immagine su Roma, città/prigione dalla quale non esiste scampo. “Mo’ state al completo, v’ho portato pure il drogato”, afferma ghignante il secondino che accompagna in cella Michele nella prima scena del film. Grifi racconta una Roma post-pasoliniana, anticipando di poco il tema del riflusso che caratterizzerà gli anni Ottanta; “dentro Regina Coeli c’è ‘no scalino, chi nun salisce quello non è romano”, racconta uno stornello, ed è quella Roma deleritta, sconfitta prima ancora di avere iniziato la sfida, a interessare Grifi.
La stessa Capitale nella quale si aggira Gerry, al secolo Gerardo Sperandini, ne L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria. La Roma del Colosseo, centrale ma abitata da fantasmi, esseri umani che la città eterna schiva (e schifa), e si arrabattano per svoltare la giornata, o per lo meno una dose di eroina da spararsi in vena. “Ma come, dovemo svorta’ e te te piji il gelato?”, recita una delle battute più celebri di Amore tossico. Sì, bisogna svorta’, è necessario farcela almeno per un altro giorno. Poi si vedrà. Non c’è speranza nella Roma incubale che osserva maligna l’incedere devastato degli eventi, ma non manca la tenerezza. Nello sguardo di D’Alessandria, Grifi e Caligari prende vita una città crudele, ma in cui l’umano prova ancora a resistere, contro tutto e tutti. Contro la logica del Capitale, contro il rituale abuso di potere, contro la lotta dell’uomo sull’uomo, contro ogni vessazione. Sono profondamente imperfetti i protagonisti di queste storie (molto spesso vicine alla realtà storica dei fatti, e per questo non ha poi sbagliato di troppo chi all’epoca parlò di una nuova ondata di neorealismo), ma non mancano di purezza. Il candore del disagio, la dolcezza di una malattia ossessiva che è arma antisociale nelle mani di chi gestisce il potere.
La droga è illusoria panacea, abitudine quotidiana, ma è anche un’arma letale nelle mani del potere, che la usa per scavare un solco tra le classi. Le videocamere – o macchine da presa – di Grifi, Caligari e D’Alessandria svolgono una funzione politica prima ancora che artistica, una scelta di campo che è anche una forma di resistenza contro la deriva populista e qualunquista di un’industria cinematografica che ha intenzione di scrollarsi di dosso le scorie del realismo il più in fretta possibile. Non sono mai stati ingranaggi del sistema, questi registi, e il dibattito culturale ha pensato bene di tenerli il più possibile nascosti; una possibilità concreta, ora che non c’era Pasolini con il suo ingombrante peso intellettuale.

Dalla fine degli anni Ottanta, dopo l’exploit de L’imperatore di Roma – una delle opere più compiute, mature e coraggiose del cinema italiano del periodo – D’Alessandria riesce a dirigere solo L’amico immaginario (1994) e Regina Coeli (2000), prima di morire nel dicembre del 2003, a sessantadue anni. Alberto Grifi si dedica alla riflessione sulle avanguardie storiche (A proposito degli effetti speciali, 2001) per aggiornare poi progetti già esistenti come Autoritratto Auschwitz/L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima e In viaggio con Patrizia, dedicato alla poetessa Patrizia Vicinelli, compagna di vita di Grifi morta nel 1991. Il nuovo montaggio di questo film non verrà terminato da Grifi, che muore nell’aprile del 2007. La storia di Caligari è la più nota, anche perché è la più recente: Non essere cattivo sarà visto solo postumo, e il montaggio di Mauro Bonanni verrà portato a termine seguendo le precise indicazioni del regista. Nel frattempo Roma continua a essere sempre presente come rumore di fondo del cinema italiano. Una Roma bonaria, piccolo borghese, cosmopolita, priva di conflitti. Una Roma falsa. Inesistente o comunque molto rara. Una Roma che vive di arte, e che affronta solo in maniera labile la crisi economica. Una Roma dominata da una grande bellezza che nasconde lo sporco dietro l’angolo. I reietti non hanno più patria cinematografica, se non in sporadiche occasioni, a loro volta costrette a muoversi nell’ombra. Si pensa alle opere del collettivo Amanda Flor, per esempio: La rieducazione, Ad ogni costo, I due figli, che utilizzano il grottesco senza mai svilire la verità di ciò che raccontano e dell’ambiente che immortalano (per la precisione, la realtà di Guidonia e dintorni). L’unico esempio industriale che sembra in qualche modo ricollocare Roma in un tracciato visionario non edulcorato né esasperato è forse l’esordio alla regia di Kim Rossi Stuart, Anche libero va bene, con ogni probabilità l’opera prima più convincente del cinema italiano del Terzo Millennio.
Ma si tratta di ipotesi sempre più leggendarie ed episodiche, e l’impressione è che tali resteranno, schiacciate da un immaginario pacificato e privo di increspature. I figli dell’idroscalo sono come il monumento che dovrebbe commemorare la tragica scomparsa del più importante intellettuale del Novecento italiano: abbandonati a loro stessi, usati come giustificazione di un sistema che in realtà non ha alcun ritegno. Non ha sguardo. Non ha umanità. Non è dalla parte dei perdenti. Mai.

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